I primi due secoli della storia di Firenze, v. 1 - 19

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che venne continuata dai laici, sotto la direzione del _mercatore_, e
andò sempre perfezionandosi. Era naturale che uomini culti, i quali
avevano il loro Ordine sparso in varie province, datisi a diriger
una industria, la sapessero far progredire. Essi infatti s'andarono
acquistando tale e tanta reputazione d'abili amministratori, che noi
li troviamo impiegati a Firenze ed altrove come camarlinghi dei Comuni,
come fornitori degli eserciti in tempo di guerra. Ovunque si trasferiva
una casa del loro Ordine, ivi subito si vedeva nel paese progredire
l'arte della lana. Ed è perciò che la repubblica fiorentina, provvida
sempre quando si trattava del suo commercio e della sua industria,
invitò i frati Umiliati a portar presso Firenze una delle loro case, le
quali essa riteneva come grandi scuole industriali.
Gli Umiliati vennero adunque nel 1239, e si fermarono a poca distanza
dalla Città, nella chiesa di S. Donato a Torri, che fu loro concessa.
E gli effetti furono quali s'erano preveduti. In poco tempo essi
divennero uno dei centri principali dell'industria fiorentina, in modo
che le maestranze si dolevano della loro lontananza, e li sollecitarono
a venire ancora piú presso alle mura. Nel 1250 ottennero case e terre
nel popolo di S. Lucia sul Prato, con esenzione dalle gravezze sui
loro beni, il che i Fiorentini solevano concedere a chiunque sapeva
portare nella Città una nuova industria. Nel 1256 fondarono la chiesa
e convento di S. Caterina in Borgo Ognissanti, ove posero la loro
insegna, che era una balla di lana, legata con funi a forma di croce.
E da questo momento l'Arte della lana fece in Firenze grandissimo
progresso; i panni fiorentini cominciarono a vincere gli altri in tutti
i mercati d'Europa. Si cercò di migliorare la materia prima, se ne
raffinò moltissimo la lavorazione, e si fecero venire le lane piú fini
di Tunisi, Barberia, Spagna, Portogallo, Fiandra, e finalmente anche
dell'Inghilterra. Cosí s'apri un commercio vastissimo, e s'accumularono
tali ricchezze, che l'Arte della lana emulò e vinse perfino quella di
Calimala. Esse divennero come due grandi potenze commerciali in Europa,
e ciò che avevano una volta deliberato in Firenze, la Repubblica non
osava contrastarlo.[343]
Giovanni Villani, nella preziosa statistica, che ci ha lasciato di
Firenze nell'anno 1338, dice che le botteghe della lana erano duecento
o piú, e facevano da 70 ad 80 mila panni del valore d'un milione e
duecento mila fiorini, di cui «bene il terzo rimaneva nella terra
per ovraggio, senza il guadagno de' lanaiuoli del detto ovraggio, e
viveanne piú di trentamila persone». L'incremento dell'industria s'era
ottenuto assai piú col perfezionare la mano d'opera; che coll'aumentare
la quantità della produzione. Lo stesso Villani osserva che, trenta
anni prima, cioè nel 1308, il numero delle botteghe era maggiore,
arrivando esse fino a 300, che facevano 100,000 panni: «ma erano
piú grossi e della metà valuta, perocché allora non ci entrava e non
sapevano lavorare lana d'Inghilterra, come hanno fatto poi».[344] Cosí
è chiaro, che il primo progresso dell'arte, cominciato nel secolo XIII
per opera degli Umiliati, si compié nel XIV per l'introduzione delle
lane inglesi.
Nello stesso anno 1338 l'Arte di Calimala aveva in Firenze venti
fondachi, «che facevano venire per anno piú di dieci mila panni,
di valuta di trecento migliaia di fiorini, che tutti si vendevano
in Firenze, senza quelli che si mandavano fuori di Firenze».[345]
La perizia raggiunta da quest'Arte nel raffinare e colorire era
grandissima, massime nel dare la tinta ai panni rosati, de' quali si
faceva in Firenze larghissimo uso, perché di esso soleva formarsi il
lucco fiorentino, che doveva esser portato da chiunque entrava nel
Palazzo, a sedere nei magistrati o nei Consigli della Repubblica.
Queste due Arti s'erano poi diviso il lavoro per modo, che l'una non
invadesse il dominio dell'altra. Gli Statuti vietavano assolutamente
all'Arte di Calimala di tingere altro che panni forestieri; l'Arte
della lana aveva i suoi propri tintori, che formavano come un'altra
associazione sottoposta ad essa. E questi tintori _sodavano_, cioè
davano garanzia all'Arte della lana per 300 fiorini, somma da cui
si cavavano le penali, ogni volta che si scopriva una macchia o si
trovava un colore falso. Su di ciò gli officiali delle Arti erano
d'una severità senza pari. Tutto, come già vedemmo, veniva minutamente
esaminato, e la piú piccola magagna, sia nel colore, sia nella qualità
e nella misura della stoffa, era soggetta a pene gravissime. Queste
grandi Arti fiorentine costituivano assai spesso piú che un'industria
sola, un insieme numeroso di mestieri diversi, e ciò può dirsi
specialmente di quella della lana, che andava dal cardare la materia
prima fino al tingere e raffinare i piú costosi tessuti. E cosí, quando
l'Arte poteva essa stessa compiere ogni lavoro di cui aveva bisogno,
e i mestieri destinati ad uno scopo comune erano fra loro collegati,
essi non si potevano osteggiare col crescere i prezzi l'uno a danno
dell'altro. L'Arte della lana aveva per insegna un agnello con una
bandiera (_Agnus Dei_), e quella di Calimala, un'aquila rossa sopra un
torsello bianco, legato a piú giri.
Per tutto il secolo XIV e per buona parte del XV, queste due Arti
andarono migliorando, e mantennero il loro primato nei mercati
d'Europa. Ma si trovavano pur sempre in una condizione difficile, non
essendo mai riuscite a produrre in Italia tutta quanta la materia prima
di cui abbisognavano, né avendo le braccia necessarie a compiere tutto
il lavoro che occorreva al loro commercio. Diffondere l'industria nei
vicini paesi, nelle sottoposte città, era cosa che le idee economiche
e politiche del Medio Evo non consentivano. L'industria era allora la
maggior forza e potenza sociale dei Comuni, e quindi ognuno di essi
voleva mantenerla tutta a proprio vantaggio, e gli Statuti avevano
mille prescrizioni dettate da questa cieca gelosia. Per tali ragioni
i Fiorentini, seguendo il sistema di fare essi i lavori piú fini
e lucrosi, avevano aperto fabbriche pei lavori piú grossolani e di
preparazione, là dove si trovavano le migliori lane, in Olanda, cioè,
nel Brabante, nella Francia e nell'Inghilterra. Ed anche in queste
fabbriche avevano cura, che la parte piú intelligente e lucrosa del
lavoro fosse condotta sempre da braccia fiorentine. Nelle loro cronache
troviamo, che essi tenevano allora sugli stranieri quel linguaggio
medesimo, che gli stranieri tengono oggi su di noi: deridevano
l'inerzia e la dappocaggine dei settentrionali, che in propria casa
si lasciavano strappar di mano il guadagno. Ma un tale stato di cose
non poteva durare a lungo. Fino da tempi assai antichi i Fiamminghi
s'erano dimostrati sempre uomini industriosi; i Francesi e gl'Inglesi,
ben presto non furon da meno. A poco a poco essi aprirono gli occhi,
ed i Fiorentini videro sorgere all'estero, accanto alle loro, nuove
fabbriche, che cominciavano ad emularli, e si dovettero accorgere, che,
contro ogni loro desiderio, avevano diffusa fra gli stranieri l'arte
di cui volevano far monopolio. Né ciò era tutto. Una volta scaltriti,
gli stranieri cercarono d'impedire l'estrazione delle loro lane, dei
loro panni _intonsi_, o sia non ancora raffinati; e cosí, sin dalla
fine del XV secolo, cominciò a fare Arrigo VII d'Inghilterra. Allora
fu inevitabile la decadenza delle Arti della Lana e di Calimala in
Firenze. Fortunatamente però, prima che ciò avvenisse, già l'industria
della seta aveva preso nel commercio fiorentino quella importanza che
le altre due andavano perdendo.
Ognuno conosce come il lavoro della seta, antichissimo in Oriente,
sia cominciato assai tardi in Occidente. I Romani ricevevano dalla
Persia, dall'India e dalla China alcuni drappi di seta, che pagavano
a carissimo prezzo; conoscevano alcuni bruchi, col bozzolo de' quali
facevano tessuti molto pregiati; ma il baco da seta restò ignoto
in Italia fino al Medio Evo assai inoltrato, e la storia della sua
introduzione in Occidente, non è sicuramente nota in tutti quanti i
suoi particolari. Si racconta che, nel sesto secolo dell'era volgare,
due monaci persiani riuscirono ad introdurre il seme dei bachi da seta
nell'interno dei loro bastoni, e, viaggiando, poterono, cosí custodito,
portarlo infino a Costantinopoli, dove insegnarono l'arte d'allevare i
bachi. In tal modo sarebbe cominciato, la prima volta, a diffondersi
nelle province dell'Impero bizantino l'industria della seta, che gli
Arabi, i Musulmani diffusero poi nella Grecia ed in Sicilia. Quando
Ruggiero II, conte di Sicilia, conquistò le isole dell'Arcipelago, e,
tornando a Palermo, vi portò numerosi prigionieri (1147-48), questi
fecero assai progredire quell'industria nell'isola. Di là passò
facilmente in Lombardia ed in Toscana; ma prima si fermò e perfezionò
a Lucca, essendo i Fiorentini tutti ancora dediti ai ricchi guadagni
della lana. I Consoli dell'Arte della seta o di Por S. Maria, come la
chiamavano a Firenze dal luogo ove risiedeva, trovansi insieme cogli
altri menzionati nei trattati; ma se anche quest'arte è molto antica,
certo è che cominciò a fiorire assai piú tardi. È notevole che Giovanni
Villani, il quale, all'anno 1338, ci dà un ragguaglio minutissimo
dell'industria e del commercio fiorentino, non accenni punto all'Arte
della seta, il che farebbe credere, che in quel tempo non avesse ancora
molto progredito.[346]
Noi sappiamo che, quando Uguccione della Faggiola assediò e prese Lucca
(1314), i profughi di questa città diffusero in Lombardia, nel Veneto,
in Toscana i perfezionamenti della seta, ed a Firenze la trovarono cosí
poco avanzata, che da parecchi cronisti i Lucchesi furono tenuti come
quelli che primi ve la introdussero. Tuttavia per molti anni ancora
l'industria si continuò ad esercitare, facendo venire dall'Oriente la
materia prima. Ma quando l'Arte della lana cominciò inevitabilmente
a decadere, allora tutto l'ardore di Firenze si rivolse alla seta,
e i progressi furono rapidissimi. Nei primi anni del secolo XV, Gino
Capponi, quel medesimo che era commissario all'assedio di Pisa, insegnò
ai Fiorentini l'arte di filar l'oro, che essi avevano sino a quel
tempo fatto venire da Colonia o Cipro, per tesserlo colla seta. E cosí
cominciarono quei finissimi broccati d'oro e d'argento, nei quali,
gareggiando l'industria col genio artistico, i Fiorentini furon subito
senza rivali. I mercati, donde erano cacciati i pannilani, vennero
subito riconquistati dai drappi di seta e dai broccati. Nella seconda
metà del secolo XV troviamo, infatti, che Benedetto Dei, mercante
della compagnia dei Bardi, scriveva ai Veneziani una lettera, nella
quale, lodando le glorie e la grandezza del commercio fiorentino,
diceva: «Noi abbiamo due Arti piú degne e piú magne, che non ha la
vostra città di Vinegia, per ognun quattro». E continuava presso a poco
cosí: «I nostri panni di lana vanno a Roma, a Napoli, in Sicilia, in
Morea, Costantinopoli, Bursia, Pera, Gallipoli, Scio, Rodi, Salonicco.
Dappoi di seta e broccati d'oro ne facciamo piú che Vinegia, Genova e
Lucca insieme, e lo vedete a Lione, Brugia, Londra, Anversa, Avignone,
Provenza, Ginevra, Marsiglia, dove sono case, banchi e fondachi».[347]
Da questa lunga enumerazione di città si vede chiarissimo, come, al
tempo del Dei, i panni di lana, padroni ancora dell'Oriente, erano
stati cacciati dai mercati principali dell'Occidente, dove era
già entrata la seta; e cosí le due Arti si dividevano fra loro il
commercio, una nell'Oriente, l'altra nell'Occidente. V'erano allora in
Firenze, secondo il medesimo Dei, 83 botteghe che facevano i drappi di
seta, oro e argento, che chiamavano damaschini, velluti, rasi, taffetà,
maremmati, ed erano tessuti con seta, la quale in gran parte continuava
ancora a venire dall'Oriente, sopra le galee fiorentine.[348] Questa
industria è una di quelle che piú lungamente si mantennero vive in
Firenze ed in Italia, dove anche oggi la seta rappresenta uno dei
nostri piú ricchi prodotti. Se non che, allora il guadagno maggiore
veniva dal lavoro, ed oggi invece assai spesso mandiamo fuori la
materia prima, per ripagarla a mille doppi, quando torna lavorata dalla
mano straniera. Allora ci venivano di fuori la lana e la seta, e si
mandavano panni e broccati italiani; oggi mandiamo invece non piccola
parte della nostra seta a Lione, per riceverne le stoffe. E cosí altre
non poche delle nostre materie prime, che potremmo e dovremmo noi
stessi lavorare, vanno nelle officine straniere.

III
Ma v'era un'altra industria, che si può dire quasi tutta opera
dell'ingegno e dell'attività umana, e nella quale i Fiorentini furono
davvero i primi nel mondo. Dal cominciare del secolo XIII a tutto il
XV, l'Arte del cambio fu per eccellenza un'arte fiorentina. Avendo,
colle loro industrie, esteso le proprie relazioni in tutti quanti
i mercati d'Oriente e d'Occidente, vi facevano naturalmente girare
moltissimo oro. Era quindi naturale, che se un mercante d'Anversa
o di Bruges voleva mandar denaro in Italia a Costantinopoli, non
trovasse modo piú semplice e sicuro, che rivolgersi ad uno dei mercanti
fiorentini, che si trovavano nel suo proprio paese. Essi comperavano
colà la lana o i panni intonsi, che, raffinati a Firenze, tornavano
novamente nel settentrione d'Europa, o andavano a Costantinopoli,
a Caffa, alla Tana, dove si cambiavano con seta, colori, spezierie.
Il mandar quindi una somma qualunque da un paese all'altro del mondo
allora conosciuto, costava loro poco piú che una semplice lettera,
e guadagnavano per ogni verso. Ricevevano un aggio sul denaro, e,
trasmettendolo in mercanzia, vi facevano un secondo guadagno. Se,
invece, un Fiorentino voleva mandare a Londra la somma di 100 fiorini,
egli trovava subito a pochi passi il mercante di Calimala o di Por S.
Maria, che, scrivendo ai suoi corrispondenti in _Lombard Street_, la
faceva pagare. E queste che si chiamarono _lettere di cambio_, furono
una delle invenzioni piú utili ai progressi del commercio moderno.
Si è molto discusso per sapere chi fu primo a fare una tale scoperta.
Alcuni r attribuiscono agli Ebrei, raminghi e perseguitati in Francia
ed Inghilterra; altri ne danno il merito, assai piú tardi, agli esuli
guelfi di Firenze nel secolo XIII. Ma è molto difficile indovinare il
primo autore di questa che non può veramente dirsi scoperta, perché
si presenta all'uomo cosí naturalmente, che esempî se ne possono
trovare anche in un'assai remota antichità. Ciò che costituisce la vera
importanza della lettera di cambio, non è già la sua prima invenzione,
ma il suo carattere legalmente stabilito, la sua diffusione, i mille
usi diversi che se ne possono fare, per trasmettere con rapidità, ed
accrescere il capitale. In ciò nessuno precedette e nessuno superò
mai i Fiorentini di quel tempo, che in tali operazioni furono maestri
inarrivabili.
Gli esuli guelfi, andando nel secolo XIII, raminghi pel mondo,
riannodarono le già vaste relazioni commerciali di Firenze, fondarono
molte banche per tutto, dettero un grandissimo impulso all'Arte,
e furono quindi creduti inventori della lettera di cambio, cui
avevano dato larga diffusione e nuova importanza. Non v'è sottile ed
ingegnoso trovato, per moltiplicare il danaro col danaro, facendolo
girare d'un mercato all'altro, là dove la scarsità n'era maggiore,
e però maggiore l'aggio e l'interesse che si pagava; non v'è quasi
operazione complicata e difficile dei nostri banchieri moderni, che
i Fiorentini non avessero già trovata. Quando la Repubblica doveva
fare un debito, essa iniziava coi banchieri fiorentini tutte quelle
medesime pratiche, e nel medesimo modo, che si usan oggi, perché
ad essi non era ignota nessuna delle vie di guadagno. E quando da
questi debiti riuniti si fece il _Monte Comune_, che, consolidando
il capitale, pagava la rendita, allora i _luoghi di Monte_, che oggi
si direbbero le _azioni del debito pubblico_, si negoziavano come ora
per l'appunto. Noi troviamo i mercanti fiorentini, sotto le Logge di
Mercato Nuovo, scommettere sull'alzare e ribassare della rendita,
come ai nostri giorni si fa alla Borsa delle grandi città.[349] E
tutti questi guadagni divenivano anche maggiori in un tempo nel quale
l'interesse legale andava dal 10 al 20 per cento, né molti si facevano
scrupolo di portarlo, con contratti fittizi, fino al 40. Fissavano
l'interesse legale ad una scadenza, alla quale sapevano di non potere
essere pagati, e passata questa, pigliavano, sotto pretesto di pena e
di risarcimento convenuto, il 40.
Importa notare, che tutte queste operazioni dei banchieri fiorentini
venivano molto aiutate dalla buona qualità della loro moneta, nel
coniare la quale la Repubblica ebbe sempre di mira il vantaggio
maggiore del commercio. A questo fine, l'anno 1252 fu battuto il
fiorino d'oro di ventiquattro carati, con l'immagine di S. Giovanni da
un lato, il giglio di Firenze dall'altro; e per la bontà della lega
e della sua coniazione, ebbe subito corso in tutti quanti i mercati,
non solo d'Europa, ma anche d'Oriente. Otto di essi pesavano un'oncia,
ed ognuno valeva circa 12 delle nostre lire. Ma i Fiorentini solevano
fare i loro conti in lire soldi e danari. La lira d'argento, moneta
allora di convenzione, era divisa in 20 soldi, il soldo in 12 danari.
Il fiorino variò assai poco, ma la lira, sia per la maggiore mutabilità
nel valore dell'argento, sia per altre ragioni, variò di continuo, e
cosí la troviamo in proporzione sempre diversa col fiorino. Nel 1252
questo era eguale alla lira, e com'essa diviso perciò in 20 soldi;
nell'82 era già di 32 soldi; nel 1331 di 60 soldi o sieno tre lire, e
sempre mutando, giunse nel 1464 a valere lire quattro e soldi 8.
I Fiorentini avevano esperimentato di che grande vantaggio fosse
al proprio commercio, avere una moneta universalmente ricercata in
tutti quanti i mercati, in cui mandavano i loro prodotti. Ma quando,
nel principio del secolo xv, i loro traffici s'estesero assai piú
nell'Oriente, essi vi trovarono i Veneti, il cui ducato d'oro, alquanto
piú largo e di maggior peso del fiorino, era già in corso per tutto.
Fu per questa ragione, che nel 1422 deliberarono la coniazione del
loro secondo fiorino, uguale di peso, grossezza e valore al ducato
veneziano, per poterlo facilmente barattare con esso. E perché esso
era destinato ad andar sulle galee in Oriente, ed era anche piú largo,
lo chiamarono fiorino _largo_ o di _galea_, distinguendolo cosí dal
piú antico, che chiamarono di _suggello_. Nel 1471, i due fiorini si
riunirono di nuovo in uno, tornando all'antico, che durò fino al 1530,
quando valeva sette lire, e allora venne temporaneamente abolito.[350]
Noi abbiamo, adunque, per qualche tempo, due fiorini diversi; il valore
della lira, che muta d'anno in anno; e se a questo aggiungiamo, che
fra il valore dell'argento e dell'oro ai nostri tempi ed in quelli
della Repubblica, passa una differenza non piccola, sulla quale gli
economisti non poterono mai venire d'accordo, comprenderemo tutta la
difficoltà di far calcoli sicuri, che, determinando con precisione
il prezzo delle cose, abbiano un significato per noi chiaramente
intelligibile. Vi sono scrittori, i quali pretendono che una medesima
quantità di oro non valesse allora piú del doppio di quel che vale
oggi; altri arrivarono, esagerando, a farla valere fino a 40 volte di
piú. Il Sismondi crede che, nei secoli XIV e XV, l'oro valesse quattro
volte piú di quello che vale oggi. In ogni modo il fiorino o zecchino,
come lo chiamarono piú tardi, vale circa 12 delle nostre lire. Resta
però sempre incertissima la differenza nel valore dell'oro. Quando
poi gli scrittori antichi ci parlano di lire, è necessario ricordarsi
che esse mutavano sempre, e che non si può fare un calcolo neppure
approssimativo, se non sappiamo di quale anno si discorre.
Ma tornando ora all'Arte del cambio, dobbiamo ricordare ciò che piú
volte dicemmo, e cioè che, oltre le estese relazioni commerciali,
gli accorti provvedimenti della Repubblica e l'attività singolare dei
cittadini, v'era un'altra condizione che contribuí moltissimo al rapido
incremento dei banchieri fiorentini, e questa fu la loro vicinanza a
Roma. Le rendite della Santa Sede e de' suoi prelati, sparse per tutta
la Cristianità, da ogni dove affluivano nella Città Eterna. Ivi erano i
grandi prelati, vescovi e cardinali, i cui ricchi benefizi si trovavano
in Oriente ed in Occidente; ivi da ogni parte della terra conosciuta
arrivavano l'obolo di S. Pietro e le offerte dei credenti, ricchissime
in un tempo di fede e di fanatismo religioso. I Fiorentini col loro
grande acume, s'avvidero subito, che il divenire banchieri del Papa
era un grosso affare: la piú gran quantità di capitali circolanti nel
mondo, sarebbe passata per loro mani. Ed a questo scopo rivolsero, fin
dal principio, tutta quanta la loro tenace volontà. Se noi li vediamo
in condizioni, in tempi diversissimi, restar sempre guelfi, e ritener
questo nome ancora quando aveva perduto il suo significato, dobbiamo
non solo alle ragioni politiche, ma anche alle ragioni commerciali dare
non piccolo peso. Trovandosi nel centro d'Italia, vicini a Roma, essi
dovevano lottare principalmente con i Senesi ancora piú vicini alla
Eterna Città. Perciò li vediamo subito in guerra e gelosia con questi,
che furono poi vinti dalle armi e dalle relazioni molto piú estese del
commercio fiorentino. Dalle lettere di Gregorio IX si vede, che sin dal
1233 i Toscani rimettevano al Papa danari da piú parti del mondo; e a
poco a poco il monopolio di questi affari s'andò restringendo sempre
piú nelle mani dei Fiorentini. Quando la Sede pontificia si trasferí
da Roma ad Avignone (1305), per ritornare piú tardi novamente a Roma,
vi fu, per ben due volte, un grandissimo spostamento d'interessi, un
gran movimento di capitali, grandi rimesse di danaro, e fu quello
secondo i piú autorevoli scrittori, il tempo e l'occasione in cui
i Fiorentini da appaltatori delle rendite papali, divennero anche
i principali banchieri di Roma. Da quel momento la loro fortuna fu
fatta, i piú grossi affari bancari d'Europa vennero nelle loro mani,
ed essi acquistarono tanta reputazione, che in faccende di denaro tutti
ricorrevano al loro aiuto ed ai loro consigli.
Noi li vediamo chiamati a dirigere le zecche, ad ordinare i pesi e le
misure in vari Stati d'Europa. Nel 1278 una convenzione tra il re di
Francia e le _Universitates_ dei Lombardi e dei Toscani, chiama gli
uni e gli altri a trovar danari per quel governo. Nel 1306 un decreto
del popolo modenese, per la medesima ragione, si rivolgeva ai notai e
banchieri fiorentini. E quando nel 1302 il re di Francia, non avendo
denari per fare la guerra, si decise ad alterare piú volte la moneta,
quel funesto consiglio non si seppe attribuire ad altri, che a due
Fiorentini, Bicci e Musciatto Franzesi, che furono perciò severamente
biasimati dai loro concittadini, molti dei quali vennero nel proprio
commercio rovinati da quella falsificazione. Ogni volta che i re di
Francia si decidevano ad una grossa guerra, eran come costretti ad
assicurarsi prima il concorso di qualche noto banchiere fiorentino,
per sostenerne le spese. Alcuni di questi erano allora quel che sono
oggi i Rotschild in Europa, e le fortune che accumulavano, sembrano
anche a noi favolose. Nel 1260 i Salimbeni prestarono ai Senesi 20 mila
fiorini. I Bardi ed i Peruzzi li troviamo nel 1338 creditori del re
Edoardo III d'Inghilterra per un milione e trecentosessantacinquemila
fiorini, il che, senza tener conto d'alcuna differenza nel valore
dell'oro, risponderebbe a circa sedici milioni delle nostre lire; e
tenendo conto di questa differenza, secondo i computi del Sismondi,
s'arriverebbe a 64 milioni. Il Pagnini aggiunge una nota di molti altri
prestiti, che ammontano ad un totale davvero straordinario. Nel 1321
i Peruzzi avevano col solo Ordine dei Gerolosomitani un credito di
191,000, ed i Bardi ne avevano un altro di 133,000 fiorini. La casa di
Tommaso di Carroccio degli Alberti e suoi parenti aveva nel 1348 banchi
in Avignone, Brusselle, Parigi, Siena, Perugia, Roma, Napoli, Barletta,
Costantinopoli, Venezia.[351] E Filippo di Commines, nella fine del
secolo XV, affermava che Edoardo IV d'Inghilterra dovette il suo trono
all'aiuto dei banchieri fiorentini.
L'Arte del Cambio era assai antica in Firenze, i suoi Consoli si
trovano al pari degli altri nominati nei documenti; abbiamo una
copia de' suoi Statuti del 1299 (1300 s. n.), i quali si riferiscono
ad un'altra redazione del 1280, che neppur essa era la piú antica.
Quest'arte fiorí e decadde insieme col commercio fiorentino; si
esercitava in Mercato Nuovo, dove erano le sue botteghe con banco o
tavolello, la borsa del danaro ed il libro. Tutti gli affari dovevano
essere conclusi nella bottega, notati a libro, sotto gravi pene per
ogni infrazione; né si poteva esercitare l'arte, senza essere scritti
nella matricola, il che si otteneva solamente dopo aver dato in essa
prove di capacità e di onestà, e dopo averne giurato gli Statuti. Nel
1338 questi banchi di cambiatori erano circa 80, e si battevano in
Firenze da 350 a 400 mila fiorini d'oro.[352] Nel 1422 erano invece
72 e si calcolava, che in Firenze vi fosse un capitale circolante
di 2 milioni di fiorini, senza mettere in conto alcuno il valore
delle mercanzie.[353] Nel 1472, parte perché incominciavano i primi
segni della decadenza del commercio, e parte perché esso s'era andato
accumulando in un numero sempre minore di case, i banchi erano già
ridotti a 33,[354] e tuttavia il cronista Benedetto Dei ancora scriveva
con orgoglio, che questi banchieri facevano affari per Levante e per
Ponente, «et i Venetiani e Gienovesi lo sanno benissimo, e cosí lo
sa la Corte di Roma».[355] Essi erano conosciuti per tutto col nome
di cambiatori, prestatori, usurai. Toscani, Lombardi, e insieme cogli
altri Italiani, occupavano una intera strada a Parigi ed a Londra.

IV
Per compiere la serie delle Arti Maggiori, dobbiamo ora accennare a
quelle dei medici e speziali, dei pellicciai e vaiai, specialmente
alla prima. Sebbene di minore importanza commerciale di quelle finora
ricordate, pure esse contribuirono assai ad aprire alla Repubblica
il commercio dell'Oriente, donde venivano quasi tutte le droghe e
spezierie, e non meno di 22 qualità diverse di pelli, molte delle
quali, d'animali assai rari, erano fra i piú costosi oggetti di lusso.
E sotto tale aspetto acquistarono anche queste Arti grande importanza,
giacché il commercio dell'Oriente è stato sempre per tutti, ma per
l'Italia specialmente, la principale sorgente di ricchezze. Esso
alimentò la gran fortuna dei Veneti; esso aveva arricchito Amalfitani,
Genovesi, Pisani; e però ad esso avevano sempre mirato i Fiorentini,
che arrivarono all'auge della loro ricchezza solo quando poterono
mandar galee nel Mar Nero, ed ebbero franchigie al pari dei Veneti, in
Egitto, a Costantinopoli, in Crimea. Ma questo che, per molto tempo,
fu il loro scopo principale, non venne cosí presto raggiunto: dovettero
lottare per quasi tutto il secolo XIV.
E le lotte che i Fiorentini sostennero per diffondere sempre di piú il
loro commercio, hanno molta importanza in tutta quanta la storia della
Repubblica, perché ci fanno conoscere non solo i progressi della loro
ricchezza, ma anche i moventi principali della loro politica. Infatti,
dopo vinte le prime battaglie contro i baroni del contado, che per ogni
dove li circondavano, essi mirarono subito ad assicurarsi il commercio
colla Lombardia. Uno dei loro primi trattati fu cogli Ubaldini signori
di Mugello, per aprire questa via alle loro mercanzie; e subito dopo
fecero trattato coi Bolognesi (1203). Ma coll'andare del tempo questi
ultimi, profittando della loro posizione, aggravarono le imposte sul
passaggio, divenuto continuo, delle mercanzie dei Fiorentini, i quali
allora, senza perdersi d'animo, fecero trattato con Modena, aprendo
altra via al loro commercio, il che obbligò i Bolognesi a tornare agli
antichi patti. Nel 1282, in occasione della guerra contro Pisa, fecero
trattati che assicuravano il passaggio libero alle loro mercanzie per
Lucca, Prato, Pistoia, Volterra, e cosí cominciarono a dominare il
commercio di Toscana. Quasi tutte le loro guerre muovono da ragioni
commerciali, e finiscono con trattati commerciali. Essi trattano nel
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