Foscolo, Manzoni, Leopardi: saggi - 24

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sommamente suggestivo; suggestive sono le stesse cose inanimate; e
la musica opera sugli animi nostri, non in grazia della suggestione
soltanto, ma in grazia della suggestione principalmente. E delle
parole si può notare ch'esse esercitano la suggestiva lor facoltà, non
solo come segni, ma anche, in una certa misura, come suoni; d'onde la
conseguenza che lo studio de' suoni è parte, non principale, come fu
opinione di vuoti retori, ma pure importante dell'arte dello scrivere,
specialmente nel verso. Che poi la estensione e la intensità della
suggestione dipenda, in parte dalla qualità dello stimolo che la
provoca, in parte dalla qualità e dal peculiare stato dell'animo che
quella provocazione riceve, è cosa che s'intende da sè e su cui non
accade di soffermarsi. I grandi poeti sono soggettivi tutti, e quanto
più son grandi, tanto più sono, come Dante, suggestivi. Ma Dante è,
nello stesso tempo, il più preciso dei poeti.
I simbolisti hanno dunque ragione quando celebrano le glorie del
_verso evocatore_; ma hanno torto quando dicono che a suggerire più e
meglio il poeta deve evitare i concetti precisi, le immagini precise,
le parole precise. La precisione dei concetti, delle immagini, delle
parole non fa ostacolo alla suggestione, come per innumerevoli esempii
si può dimostrare. Valga per tutti quello che ne porge _L'Infinito_ del
Leopardi. Abbiamo qui un _ermo colle_, una _siepe_ che cela all'occhio
molta parte dell'orizzonte, un _vento_ che fa stormire, in passando,
alcune _piante_; termini definiti, concreti, che si apprendono senza la
menoma esitazione, e sulla cui natura non può nascere il menomo dubbio.
La designazione è, certo, sobria e fugace, e il poeta accenna più che
non descriva; ma il _colle_ è un colle, la _siepe_ è una siepe, il
_vento_ è un vento, le _piante_ son piante; e questi nomi suscitano nei
lettori immagini varie sì, secondo i ricordi e le fantasie di ciascuno,
e secondo il vario operar delle associazioni, ma definite e chiare e
riconoscibili a primo aspetto. Da questi termini concreti il poeta si
leva, per virtù di suggestione, agli astratti, e il lettore con esso
lui, e ad entrambi s'apre la visione dell'infinito spazio e del tempo
infinito, e il pensiero d'entrambi si annega in quella immensità. Nulla
si può immaginare più determinato e più chiaro, e come pensiero, e
come espressione; e, ciò nondimeno, tale è la potenza di suggestione
di quei pochi versi che il core se ne spaura a chi li legge. La poesia
che il Longfellow intitolò _Il vecchio oriuolo sulla scala_, dove la
descrizione è, quanto più si possa dire, icastica, suscita nell'animo
un vero turbine d'immaginazioni e di affetti; e altrettanto fanno
certe poesie del Leconte de Lisle, sebbene lo studio della precisione e
della perspicuità vi sia a volte a dirittura soverchio. Certi oggetti e
certi aspetti della natura, molto bene determinati e molto chiaramente
veduti, un gruppo di stelle scintillanti nel cielo profondo, un
accavallamento di nubi accese dai sanguigni bagliori del tramonto, una
scena di monti vigorosamente delineata e come scolpita sull'orizzonte,
possono rapir l'animo del contemplante in un mondo meraviglioso e
infinito di sogni e di fantasie. E non a una nebulosa di cui l'occhio
mal discerna i contorni, ma alle _vaghe stelle dell'Orsa_, e alle
_luci_ che sono ad esse _compagne_, volgeva Giacomo Leopardi il famoso
saluto delle _Ricordanze_, rammentando le tante fole ch'esse gli avevan
suscitate nell'animo[524].
Il terzo mezzo usato e preconizzato dai simbolisti consiste nel
raccostare quanto più è possibile la poesia alla musica. Che la poesia
debba, in parte, quella sua virtù di penetrare, scuotere, appassionare,
affascinare gli animi agli elementi musicali che sempre, finchè non
perda il proprio suo nome, contiene in maggior o minor copia, è fatto
di comune esperienza, avvertito in ogni tempo, e da cui si derivano
le regole fondamentali della versificazione. Non pochi dei precetti e
degli avvertimenti che si trovano nei trattatisti concernono appunto
l'arte di rendere musicale il verso e la strofe; ma i simbolisti
non si contentano più di quella tanta musica che insino ad ora era
stata introdotta nella poesia, e vogliono fare della poesia quasi una
seconda musica, come altri aveva voluto farne una seconda pittura, o
una seconda scultura. Paolo Verlaine comincia quel suo breve e curioso
componimento cui pose titolo _Art poétique_, col precetto seguente:
De la musique avant toute chose,
Et pour cela préfère l'impair,
Plus vague et plus soluble dans l'air,
Sans rien en lui qui pèse ou qui pose;
e raccomandata agli artisti di gusto fine quella cara incertezza da cui
viene tanta attrattiva alla _chanson grise_, e raccomandato di preferir
sempre le mezze tinte e le sfumature alle tinte risolute schiette,
soggiunge:
De la musique encore et toujours!
Que ton vers soit la chose envolée
Qu'on sent qui fuit d'une âme en allée
Vers d'autres cieux à d'autres amours.
I discepoli andarono, come sempre avviene, assai più in là del maestro,
e affermarono che la poesia è tutta nel suono, e cominciarono a
considerar le parole, non più come segni d'idee, ma come gruppi di
suoni, da dover essere scelti, ordinati, composti insieme, non già
con un criterio logico qualsiasi, ma con un criterio essenzialmente
musicale. E ne nacquero le meraviglie di cui abbiam veduto pur ora
qualche debole saggio. E dopo che Arturo Rimbaud ebbe rivelato il gran
segreto del colore delle vocali, saltò su Renato Ghil a rivelare, nel
suo _Traité du verbe_, il proprio colore degli strumenti musicali,
così di quelli a fiato, come di quelli a tasti e a corda; onde:
«Constatant les souverainetés les Harpes sont blanches; et bleus sont
les Violons mollis souvent d'une phosphorescence pour surmener les
paroxysmes; sur la plénitude des ovations les Cuivres sont rouges;
le Flûtes, jaunes, qui modulent l'ingénu s'étonnant de la lueur des
lèvres;...» ecc., ecc. Se le vocali hanno ciascuna il suo colore, e se
ha il suo colore ciascun istrumento musicale, voi potete, scegliendo
e disponendo accortamente le parole, introdurre nel verso tutta una
orchestra, e fare di una poesia una sinfonia poetica da mettere accosto
al poema sinfonico dei musicisti. Non ci sarebbe che una difficoltà
sola. La scienza ha bensì riconosciuto come reale il fenomeno della
così detta udizione colorata, ma ha pure riconosciuto ch'esso presenta
tante varietà e dissomiglianze quanti sono gl'individui in cui si
produce; che la vocale che all'uno dà l'impressione del bianco, dà,
all'altro, la impressione del rosso, o del giallo, o del nero; e che
per conseguenza non è possibile di fondare sopra di ciò nè un principio
nè un espediente dell'arte[525].
Lasciando stare queste pazzie, si può ammettere che la maggior
musicalità che i simbolisti s'industriano d'introdurre nella poesia
risponda a un bisogno vagamente sentito da molti. Più di un critico
accennò alla musica e alla fama del Wagner come a cause determinanti
dell'indirizzo preso dai simbolisti; ma, senza voler negare l'efficacia
che, anche per questo rispetto, quella musica e quella fama possono
avere avuta, è forse da risalire a causa più generale e più remota,
anzi a quello stesso complesso di cause a cui è dovuto il novissimo
rigoglio dell'arte musicale, e il carattere stesso che la musica,
più specialmente nell'opera del Wagner, è venuta prendendo. Se è vero
ciò che si dice, e par confermato dall'esperienza, che la musica più
fiorisca ne' tempi in cui abbondano sentimenti nuovi, non bene definiti
ancora nè sceverati, i quali in essa appunto trovano la espressione
loro più adeguata e felice, s'intende come, ricorrendo tempi sì fatti,
la poesia possa sentirsi, più del consueto, attratta verso la musica, e
chiedere a questa insoliti ajuti. Tale, forse, è il caso della poesia
dei simbolisti; nè si può dire che alle tendenze e ai propositi di
costoro contraddica, sebbene a primo aspetto possa parere, lo studio
con cui essi per l'appunto hanno sovvertito e sovvertono in Francia
tutta la metrica. Già il Verlaine aveva imprecato a quella rima che,
magnificata dall'Hugo quale vera generatrice del verso, era divenuta
pei parnassiani la chiave di volta della poesia tutta quanta:
Oh! qui dira les torts de la Rime?
Quel enfant sourd ou quel nègre fou
Nous a forgé ce bijou d'un sou
Qui sonne creux et faux sous la lime?
I simbolisti venuti dopo, non solo rinunziarono alla _rime opulente et
pittoresque_, rinnovando e superando le licenze e le trascurataggini
di Alfredo De Musset; ma alcuni di essi rimisero in onore l'assonanza,
che, dopo il medio evo, era sparita dalla poesia francese; e altri
bandirono la rima affatto, creando finalmente quel _vers blanc_, da
noi detto sciolto, di cui la poesia francese era sempre stata creduta
insofferente. Inoltre, continuando, per questa parte, l'opera dei
romantici e dei parnassiani, essi finirono di sconnettere il vecchio
verso architettato e tradizionale, e mandarono sossopra la strofe,
accozzando persino versi di due con versi (dobbiamo proprio chiamarli
così?) di diciasette sillabe, inventando i _versi senza misura_,
mescolando col verso la prosa, e magari la _prosa libera_; e quando non
trovarono altro da trasformare o da abolire, trasformarono o abolirono
la interpunzione. Tutto ciò pare faccia contro alla intenzione stessa
dei simbolisti, ma serve, nella opinione loro, a sostituire alle
armonie ovvie e volgari armonie recondite e peregrine.
Siami lecito di far qui, di passata, una considerazione circa l'uso
della rima. Le avversioni che essa inspira sono vecchie, come sono
vecchi gli amori, e, se ne avessi agio, potrei sciorinare un elenco non
breve di quanto in varii tempi fu scritto in sua lode o in suo biasimo.
Nel secolo scorso i _versiscioltai_ più arrabbiati la vollero morta,
ma non riuscirono ad ammazzarla. Non accade rammentare la legittimità
delle sue origini storiche e psichiche, e com'essa nasca spontanea
e non mica per artifizio. Ridotta in termini pratici, la questione
sonerebbe così: Giova o nuoce la rima alla poesia? A tale domanda non
si può rispondere in modo generale ed assoluto. Ognuno vede che la
rima conviene più a certi temi e meno a certi altri, e che non tutte le
forme sono egualmente adatte a riceverla. Che l'uso della rima induca
assai volte a falsare o diluire il concetto, e a dire più o meno di
quanto s'aveva nell'animo, è vero pur troppo; ma è altrettanto vero
che la rima, adoperata con delicatezza ed accorgimento, può dare ai
concètti e alle immagini un vigore, una perspicuità, un rilievo, che
nessun altro mezzo potrebbe dar loro in egual misura. La parola che
cade in rima raddoppia, in certo modo, la propria virtù impressiva;
e tocca al poeta sapersi giovare di tal guadagno. Ci sarebbe anche
parecchio da dire del beneficio che può arrecare la rima concatenando
in più sensibil modo le proposizioni e i concetti, e formando della
strofe un tutto indivisibile, le cui parti si richiamano a vicenda e
armonicamente si compiono. E molto più ci sarebbe da dire dell'officio
ch'essa esercita come elemento musicale, se a far ciò non si dovesse
entrare in troppi e troppo sottili discorsi. Certo si è che infinite
poesie, di questo e di altri tempi, perderebbero il meglio dell'esser
loro, se privati della rima e rifatte in isciolti. Provatevi a
togliere al _Dies irae_ il formidabile rinterzo delle sue rime o cupe
o squillanti, e mi direte poi che cosa rimane di quella sua misteriosa
e sopraffattrice potenza. Così fatti esempii potrebbero essere
moltiplicati a migliaia. Ma di un servizio, tutto pratico, che la rima
può, in molti casi, rendere al poeta, parmi sia pure da far qualche
conto. Ponendo, per una parte, ostacolo alla libera formulazione
ed espression del pensiero, e stimolando, per un'altra, la memoria,
l'intelletto e la fantasia a vincer l'ostacolo, la rima forza il poeta
a soprassedere, e porre un freno alla troppo facile vena e lo forza
ad approfondire il proprio soggetto, a voltare e rivoltare, per così
dire, il proprio pensiero, guardandone ad una ad una tutte le facce.
Che molte volte, durando in questa fatica, si riesca a trovati nuovi,
altrettanto felici, quanto impensati, è noto a chiunque abbia composto
versi con qualche amore e qualche studio. Non nego che quello stento
del cercar la rima non possa alle volte sfreddar l'animo e stancare la
inspirazione; ma, se si pensa che il lavoro del concepire, il quale più
propriamente richiede l'opera della inspirazione, precede di solito,
almeno per la parte più rilevante, il lavoro dell'esprimere; e che il
concetto che primo si affaccia alla mente, e la espressione che prima
vien sulle labbra non sono, di solito, i più acconci possibili; e
che, finalmente, la poesia, come ogni altra arte, deve esser capital
nemica della fretta; se, dico, si pensa a tutto ciò, si vede che questa
_remora_ della rima non può, anche per questo rispetto, fare tutto il
male di cui l'accagionano. Per concludere, parmi si possa dire che,
almeno alla poesia lirica, la rima, adoperata a dovere, riesce più di
giovamento che di danno, e che il poeta vero, ricco d'inspirazione e
d'immaginativa, e padrone di tutti gli espedienti dell'arte sua, saprà
far sì che il danno non si avverta, e si avverta molto bene per contro
il giovamento.
Fu tempo in cui le singole arti si considerarono come chiuse ciascuna
entro confini precisi e inviolabili, con divieto a ciascuna di uscirne
e d'invadere in qualsiasi modo il dominio altrui. Di ciò si doleva
nei primi anni del secolo il Giordani, scrivendo: «Il nostro secolo
si è troppo avanzato in un vizio pessimo di separare le arti, che
colla compagnia si ajutano e si avvalorano»; ma poi sopravvennero
i romantici, i quali, mescolati i generi, cominciarono a mescolare
le arti; e poi sopravvennero altri, che pretesero con la parola far
l'opera del pennello e dello scalpello. Quella separazione, troppo
rigorosa, noceva; questa confusione, troppo arbitraria, nuoce ancor
più. I simbolisti potrebbero aver ragione se si contentassero di
cercar nella musica qualche nuovo sussidio alla poesia: hanno torto
quando della poesia pretendono di fare una seconda musica, che operi
sull'anima allo stesso modo che fa la vera. Checchè si faccia e si
dica, ogni singola arte ha un suo proprio modo di rappresentazione e
di espressione, nel quale riesce altrettanto perfetta quanto riescono
imperfette le altre. La poesia non può fare sugli animi nostri quella
stessa impressione che fa la musica, perchè non è la musica e non può
essere la musica.

V.
Detto del simbolismo, non quanto se ne potrebbe dire, ma quanto può
bastare al nostro bisogno, diciamo ora qualche cosa dei simbolisti.
Il Nordau li giudica tutti sommariamente una brigata di degenerati
e d'imbecilli. Tale giudizio è veramente troppo sommario e troppo
assoluto: ma anche il temperatissimo Guyau ebbe a riconoscere che i
sintomi della degenerazione e della imbecillità abbondano nell'arte
loro. Il Verlaine, che fu incontrastabilmente poeta vero (non grande),
e che convertitosi di decadente in simbolista, fu il maggior astro
del simbolismo, e tale rimane tuttora, il Verlaine fu pure, non dirò
un degenerato, perchè tale appellativo è divenuto ormai di troppo
larga e confusa significazione, e se ne fa da troppi un uso troppo
poco scientifico, ma un mezzo pazzo e un mezzo delinquente, che menò
vita di vagabondo, sempre che non l'accolse l'ospedale, o nol murò la
prigione. Egli stesso comprese sè e i simili a sè, in una famiglia che
denominò dei Saturniani, cioè dei nati sotto il maligno influsso di
Saturno; e degli ascritti a cotal famiglia, considerati sotto l'aspetto
intellettuale e morale, ebbe a dire:
L'imagination inquiète et débile
Vient rendre nul en eux l'effet de la raison.
I simbolisti si danno volentieri, da sè, il nome di _intellettuali_,
nome che parrebbe significare virtù grande e preminente di pensiero;
ma poichè il pensiero in loro è, quanto più si possa dire, povero,
debole, informe; ed essi sognano assai più che non pensino, e di questo
si vantano; farebbero meglio a chiamarsi, anzichè _intellettuali,
sognativi_. Nella turba grande sono, senza dubbio, alcuni burloni e
parecchi ciurmadori; ma i più sono ingenui e di buona fede, e sono,
di solito, nature molli, inconsistenti, passive, ludibrio di tutte le
impressioni e di tutte le suggestioni; fanciulli, non uomini. Incapaci
di vero sapere, perchè nelle loro menti annebbiate non si formano
idee lucide e contornate, e molto meno concatenazioni logiche d'idee,
detestano per istinto la scienza che gl'inquieta e gli analizza.
Incapaci di volere, perchè tiranneggiati da tutti i loro sentimenti
e da tutti i loro fantasmi, si ritraggono dalla vita, che è esercizio
continuo di volontà, e riparan nel sogno, che è cessazione di volontà,
e diventano pessimisti, non per aver giudicata, ma per aver temuta la
vita. Nel simbolismo vanno a imbrancarsi tutti coloro che propriamente
non sanno che altro fare di sè; malcontenti, impotenti, illusi e delusi
d'ogni risma e colore. Ed è naturale che questo avvenga. Quando v'è
in mezzo alla civiltà di un popolo, o di più popoli intellettualmente
consociati, un'arte saldamente costituita, con caratteri ben definiti,
con avviamento sicuro, gli animi perplessi e confusi difficilmente
possono farcisi un posto; quando arte così fatta non v'è, quegli animi,
respinti da ogni altro esercizio d'opere e di vita, sono attratti
dall'arte, che offre loro un asilo, e accarezza, restaura, fomenta
mille care illusioni.
Di illusioni i simbolisti ne hanno parecchie, ma due principali:
credersi originalissimi e credersi grandissimi. A sentir loro, ciò
ch'essi fanno sarebbe cosa affatto nuova nel mondo, non più veduta nè
immaginata: ma se poi si guarda un po' da vicino questa lor novità,
si vede che essa consiste, in massima parte, nelle copertine dei loro
libricciuoli, alluminate e istoriate di simboli indecifrabili; nei
titoli che vi stampan su: _Moralités légendaires, Neurotica, Les palais
nomades, Légendes d'âme et de sang, La voie sacrée, Poèmes stellaires,
Le pélerin passionné, L'adolescent confidentiel_, ecc., ecc.; nel
sovvertire senza nessuna necessità, la grammatica; nell'uso di certi
aggettivi, coniati da loro e da loro stimati di sprofondatissima o
intraducibile significazione; nello scrivere _Avant-dire_ o _Racontars
préatables_ in luogo di _Avant-propos_ o di _Préface_, e in altre
invenzioncelle di questo taglio. Si gloriano di _autonomia estetica_
(così la chiamano); ma è curioso vedere come, avendo pochissima
conoscenza delle cose del mondo, e anche minori dei grandi travagli
dello spirito, questi originalissimi secondino, senz'avvedersene,
molte, o sciocche o morbose tendenze di quella stracca ed esausta
classe delle società nostre, che essendosi fatta legge suprema della
eleganza, ha in dote inalienabile la miseria intellettuale e la noja.
Si stimano incommensurabilmente profondi; ma a formar giudizio della
profondità loro e di ciò che in essa si cela, non si può far meglio
che trascrivere, tradotte, le parole con cui Alessandro Pope, sin dal
1727, cominciava il quinto capitolo della sua _Arte di sprofondarsi in
poesia_: «Ora io mi avventurerò a porre in carta quello che s'ha da
tenere per prima massima e pietra angolare di quest'arte nostra; che
chiunque voglia riuscirvi eccellente deve, con ogni studio, fuggire,
detestare e rinnegare tutte le idee, usanze ed operazioni di quel
pestilenziale nemico del genio, e distruggitore di belle figure, che
da tutti è conosciuto sotto il nome di senso comune». Per lungo tempo
Stephan Mallarmé fu tenuto da ammiratori e discepoli per un genio
smisurato, incomprensibile ed ineffabile, la cui troppa profondità di
pensiero e singolarità di sentimento, non potendo accomodarsi della
parola, erano sola cagione che egli non avesse pubblicato mai nulla.
Finalmente, cedendo alle premurose istanze dell'amicizia, egli pubblicò
uno smilzo libercoletto di versi, cui si contentò di apporre il titolo
modesto, e non novissimo, di _Florilège_. Ahimè! da quel giorno il
grande maestro cessò d'essere inedito, e, al tempo stesso, d'essere il
più grande dei poeti viventi e possibili.
Ma quel vanto di novissima originalità, che i simbolisti si arrogano,
riesce addirittura ridicolo, quando siensi notate certe somiglianze
ch'essi hanno assai spiccate con altri che furono prima di loro, e
che essi, ignorantissimi come sono la più parte, non sanno di avere.
Ostentano grande disprezzo pei romantici; ma è a credere che ne
ostenterebbero meno, se sapessero quanto somigliano ai peggiori tra
quelli. E qui, perchè non paja la mia una calunniosa asserzione, sarà
bene di recare qualche altra prova, in aggiunta a quelle che già si
son potute rilevare in passando. Un poco innanzi al 1830, data famosa,
come tutti sanno, nei fasti del romanticismo francese, Paolo Dubois
scriveva nel _Globe_: «Aussi, remarquez que dans les écrivains qui se
produisent aujourd'hui, rien n'est d'instinct ni d'inspiration; tout
vient de calcul: l'originalité est un système comme l'imitation; si les
uns arrangent et copient l'usé, les autres combinent l'extraordinaire;
ils ont l'exagération de celui qui se tend pour atteindre à un effet
qu'il rêve, mais dont il n'a jamais senti l'impression en lui-même,
ni observé la puissance en autrui. On fait de la religion et des
croyances une machine épique ou tragique, sans éprouver pour elles
aucune sympathie: on violente la langue parce qu'on n'a qu'un besoin
confus d'émotion, et pas une idée claire; et le style, chargé, obscur,
prétentieux, dénonce les efforts d'une imagination qui se monte, mais
qui ne voit et ne saisit aucune réalité». Qui si parla dei cattivi
romantici; ma che cosa, in sostanza, ci si dovrebbe mutare, perchè
l'intero discorso s'attagliasse ai simbolisti, alle tendenze e ai
procedimenti loro? E quando, nello stesso giornale, leggiamo ciò che
Prospero Duvergier scriveva contro il jargon _mystique et vaporeux_, e
Carlo di Rémusat contro lo stile forzato, contorto, contrario a natura,
se non badassimo ai nomi e alle date, che ragione avremmo di credere
che quelle pagine furono scritte, non contro ai buoni simbolisti di
ora, ma contro ai pessimi romantici di allora? Lasciamo i romantici
da banda, e non facciamo ingiuria ai laghisti, cercando alcune
somiglianze, che pur ci sono, fra l'arte loro e quella dei recentissimi
poeti del simbolo: ma sanno questi signori poeti quali somiglianze
essi hanno coi marinisti d'Italia, coi gongoristi di Spagna, cogli
eufuisti d'Inghilterra, coi _preziosi_ di Francia e con quelli di
Germania? Apro un volume di versi del già citato Saint-Pol Roux, e
ci trovo, fra molt'altre, queste metafore: _péché-qui-tête_, che vuol
dire bambino nato d'illegittimi amori; _cimitière qui a des ailes_, che
vuol dire uno stormo di corvi; _psalmodier l'alexandrin de bronze_,
che vuol dire sonar le campane; _sage-femme de la lumière_, che vuol
dire il gallo; _quenouille vivante_, che vuol dire non so bene se il
montone o la pecora, ecc., ecc. Che cosa avrebbe potuto desiderar di
meglio Baldassarre Gracian, quando si stillava il cervello sul famoso
suo libro: _Agudeza y Arte de ingenio_, o quel buon uomo del Tesauro,
quando andava speculando le antiche e le nuove lettere col _Canocchiale
aristotelico, o sia idea dell'arguta et ingeniosa elocutione che
serve a tutta l'arte oratoria, lapidaria et simbolica_? E veduta la
qualità di queste somiglianze, non appar ridicola all'ultimo segno
l'ammirazione che i simbolisti ostentan pei Greci, e la opinione in
cui sono, non so come, venuti, d'avere coi Greci appunto una dolcissima
comunanza d'arte, di genio e d'intendimenti, rimanendo, ciò nondimeno,
originalissimi?
La modestia non è virtù che i poeti abbiano mai molto osservata; ma
la opinione, innocua del resto, ch'e' sogliono avere della propria
quasi divinità, può essere comportata in pace e scusata, quando abbia
il suffragio di opere grandi davvero. Di opere grandi, insino a questo
giorno presente, i simbolisti non pare n'abbiano fatte; ma la opinione
ch'essi hanno di sè è tale che non potrebb'essere maggiore se ne
avessero fatte di grandissime. I simbolisti si atteggiano volentieri
a profeti e a redentori, e credendo, in buona fede, di rivelare agli
uomini nuova terra e nuovo cielo, si pongono da sè sugli altari, e un
po' si meravigliano, un po' si sdegnano di certa noncuranza o tardità
che gli uomini pongono in adorarli. Non so se il Maeterlick, paragonato
da' suoi ammiratori allo Shakespeare, non s'impermalisca del paragone.
Ancora si vantano di non formare una scuola; e credono che ciò provi la
potenza e l'autonomia degl'ingegni loro; e non s'avveggono che scuola,
nel vero senso della parola, non può formarsi dove non sieno esempii
che comandino la imitazione o principii chiari e sicuri in cui possano
consentire gli spiriti.
I simbolisti s'immaginano ancora d'essere sociali, e di lavorare alla
_rinascenza dell'anima_, approfondendo i sentimenti, slargandoli,
accomunandoli. Come possa durare in sì fatta immaginazione gente
che fa della oscurità uno dei grandi principii dell'arte, è davvero
impossibile intendere. Poesia oscura è, necessariamente, poesia
insociale, sia perchè non può essere intesa da coloro che avrebbero
a giovarsene, sia perchè colui che la fa si trae fuori dall'umano
consorzio, e rinunzia a quella massima delle comunanze umane ch'è il
comune linguaggio. Nè, da altra banda, s'intende come possa essere
sociale una poesia che ignora, o disprezza, tutti i comuni bisogni e le
comuni operazioni degli uomini, e schifando ogni maniera di contatti,
e solo dilettandosi del peregrino, dello squisito, dell'ineffabile,
si rifugia per maggior sicurezza nel sogno, dolente di non potersi
sollevare sino all'estasi mistica. Fatto sta che i simbolisti sono
individualisti nati, e di quel mostruoso e puerile individualismo
che, per usare le parole non molto intelliggibili con cui ebbe a
magnificarlo Ola Hansson, _gonfia a sè stesso incommensurabilmente il
proprio mondo e la propria misura_: l'individualismo del Nietzsche, il
quale non può finire in altro che nella pazzia del Nietzsche.
Di questo individualismo un altro effetto si vede, fuori della
poesia. La critica soggettiva, già caduta in tanto discredito, e da
molti creduta morta, è richiamata in vita, è rimessa in onore. La
considerazione puramente storica dei fatti umani, e il criterio così
detto storico, incontrano oppositori molto più numerosi di prima, e
comincia un moto contrario a quello che tutto quasi il sapere riduceva
e subordinava alla storia. V'è del buono in questa reazione; ma non
esito a dire che se v'ha qualche parte il bisogno novamente sentito
dagli spiriti di esercitarsi intorno alle cose con quella spontaneità
di cui la natura li ha pur dotati, una di gran lunga maggiore ve n'ha:
il desiderio di scampare la dura fatica che importa lo studio diligente
e severo dei fatti.

VI.
Se riandiamo nel pensiero le cose dette, il simbolismo ci parrà,
credo, cosa di piccol pregio, quanto al presente, e di scarsa promessa
quanto all'avvenire. Esso non mostra nessuna delle qualità che
contraddistinguono in arte i rivolgimenti grandi, duraturi e veramente
fecondi. Di quante dottrine letterarie apparvero al mondo nessuna forse
fu più povera d'idee, più inconsistente, più incerta. I simbolisti si
propongono alcuni fini lodevoli, ma non li raggiungono, o perchè non
riescono a scorgerli chiaramente, o perchè errano circa ai mezzi che
si dovrebbero adoperare a raggiungerli. Vorrebbero restaurato il regno
della bellezza; ma si contentano di dire che la bellezza deve anteporsi
alla verità, e non si curano di sapere che sia l'una e che l'altra,
e se veramente contrastino insieme, e in qual modo e perchè. La loro
estetica è la più elementare che possa immaginarsi, e il loro idealismo
il più povero e scolorito di quanti mai se ne videro. Vorrebbero
restituire alla poesia l'antico lustro e l'antico primato, e la poesia
nelle loro mani si attenua e si estenua, si riduce dalle piene armonie
di una orchestra al poco e nudo suono di un flauto, diventa una specie
d'arte occulta, ieratica o sonnambulica, nota solo a pochi iniziati
e praticata in secreto. Vorrebbero ripristinare il concetto stesso
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