Foscolo, Manzoni, Leopardi: saggi - 21

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finzione poetica; e se Platone e Aristotele nel volerla definire si
contraddicono, ciò prova che la definizione è pericolosa e difficile.
È dessa un moto che si produce nella parte più occulta e più recondita
della psiche, e propriamente, da prima, sotto l'orizzonte (siami lecito
di togliere in prestito alla scuola herbartiana questa espression
metaforica) del pensiero cosciente, nel quale poi, sorgendo, si propaga
e si irradia; e, data certa condizione statica e dinamica della psiche,
si può credere che nasca ogni qual volta una particolare impressione
repentinamente sommuova le energie elementari di quella, e provochi
un irresistibile concorso e una spontanea coordinazione di svariati
elementi e fattori, formando fuori della coscienza un aggregato, che
nella coscienza poi subitamente irrompendo, dà all'uomo la illusione
di un picciol mondo che imprevedutamente gli si sia creato dentro,
e ch'egli scorge come nella fuggitiva luce di un lampo, senza che
gli sia dato d'intenderne la ragione e la genesi. Intorno a questo
picciol mondo si viene poi esercitando la riflessione per ridurlo nelle
coerenti forme dell'arte.
Il Leopardi che crede, come abbiam veduto, a certa sua inspirazione
divinatoria, e riconosce la facoltà nei poeti di scoprire, con sola
una occhiata, assai più paese che altri non possano con lungo studio
e perseverante attenzione, il Leopardi non allora soltanto comincia a
pensare quando si pone a scrivere; ma muove da un concetto repentino e
spontaneo, nel quale è già tutto raccolto, come in potenza, l'organismo
del componimento futuro; poi, _formato in due minuti il disegno e la
distribuzione_ di esso, se ne rimane ed aspetta. Ma non aspetta in
ozio, come altri potrebbe credere; che anzi que' lunghi intervalli
cui egli accenna, frapposti fra la prima inspirazione e il _momento_
favorevole al comporre, sono tempi di preparazione feconda. Non v'è
rimprovero molte volte più ingiusto di quello che da molti suol farsi
ad artisti veri e probi, quando, non vedendo opera delle lor mani,
gli accusano e biasimano di perdere il tempo nell'ozio. L'artista
vero e probo lavora intensamente anche se paja non far nulla; o, a
dir più giusto, le idee, i sentimenti, le immagini lavorano dentro
di lui (assai volte senza ch'egli sel sappia), e lentamente maturano
l'opera d'arte. Non v'è artista, non v'è in più particolar modo poeta,
che in una od in altra occasione non abbia dovuto meravigliare di sè,
vedendosi inopinatamente tanto cresciuta dentro una sembianza, una
idea, a cui, dopo il primo lume che n'ebbe, non sa d'avere altrimenti
pensato. Il germe divenne pianta fiorita, senza suo studio o cura. Così
è da credere lavorasse di dentro il Leopardi, quando sedeva immobile
sotto una pianta, neghittoso in vista, immerso, in apparenza, in una
specie di melanconia attonita. Un cervello meccanico non lavora se
non col cómpito innanzi, a tavolino; un cervello organico lavora in
ogni tempo, in ogni luogo, e nella veglia e nel sonno. Teofilo Gautier
diceva di non cominciare a pensare se non quando cominciava a scrivere;
ma calunniava sè stesso, non intendendo che, mentre non iscriveva,
la sua mente era occupata, sia pure senza addarsene, in raccogliere,
elaborare, accrescere, coordinare quelle infinite immagini che formano
la sostanza dell'arte sua[481].
Con queste avvertenze si vuol dare orecchio allo stesso Leopardi quando
dice (e con frequenza lo dice) d'avere l'animo talmente rotto e fiacco
da non esser buono a checchessia, o di non avere altro piacere che
nel sonno, e di perdere mezza la giornata nel dormire, e di non poter
fissare la mente in nessun pensiero di molto o poco rilievo, e d'essere
forzato a un ozio più tristo della morte. Certo che molte volte, come
afferma egli stesso, il comporre dovette tornargli di somma fatica,
o impossibile affatto; ma anche in ciò non è da dare intera fede ai
suoi lagni, divenuti forse un pochino un vezzo, o usati talvolta a
schermo di qualche noja, quale quella dello scriver lettere, o l'altra
di comporre a richiesta altrui. Anche in tempi pessimi qualche cosa
faceva. Il 20 marzo 1820 scriveva al Giordani: «Mi domandi che cosa
io pensi e che scriva. Ma io da gran tempo non penso, nè scrivo, nè
leggo cosa veruna per l'ostinata imbecillità de' nervi degli occhi
e della testa; e forse non lascerò altro che gli schizzi delle opere
ch'io vo meditando, e ne' quali sono andato esercitando alla meglio la
facoltà dell'invenzione, che ora è spenta negli ingegni italiani». Se
non che, detto ciò, poche linee più sotto soggiunge: «Delle Canzoni di
cui mi domandi, la prima e l'ultima sono scritte un anno addietro, e
per questo i miei sentimenti d'oggidì non gli troverai fuorchè nella
seconda uscitami per miracolo dalla penna in questi giorni»[482]. Di
tali miracoli ne succedettero parecchi. L'anno 1829, mentre scriveva da
Recanati agli amici di non potere far nulla, d'essere un uomo finito, e
si riduceva, nel settembre, a farsi scrivere le lettere dalla sorella;
il Leopardi componeva, proprio nei mesi peggiori, le _Ricordanze_, la
_Quiete dopo la tempesta_, il _Sabato del villaggio_, e, in parte, il
_Canto notturno di un pastore errante dell'Asia_.
Quanto al concepire poi, l'alacrità sua fu pressochè in ogni tempo
meravigliosa: i disegni innumerevoli di scritture da lui lasciati
o menzionati fanno testimonianza di uno spirito agile e avventuroso
che non si quetava mai. Al Giordani scriveva: «Leggo e scrivo e fo
tanti disegni, che a voler colorire e terminare quei soli che ho, non
solamente schizzati, ma delineati, fo conto che non mi basterebbero
quattro vite»[483]. E al Brighenti: «... i pensieri che mi si affollano
tutto giorno nella mente, in questa mia continua solitudine, e a' quali
io voglio in ogni modo tener dietro con la penna, non mi lasciano
un'ora di bene»[484]. E al Colletta: «I miei disegni letterari sono
tanto più in numero, quanto è minore la facoltà che ho di metterli ad
esecuzione; perchè, non potendo fare, passo il tempo a disegnare. I
titoli soli delle opere che vorrei scrivere, pigliano più pagine; e
per tutto ho materiali in gran copia, parte in capo, e parte gittati
in carta così alla peggio»[485]. E di nuovo al Colletta, dopo un
elenco non breve di alcuni de' suoi _castelli in aria_: «Voi riderete
di tanta quantità di titoli; e ancor io ne rido, e veggo che due vite
non basterebbero a colorire tanti disegni. E questi non sono anche una
quinta parte degli altri, ch'io lascio stare per non seccarvi di più,
e perchè in quelli non potrei darvi ad intendere il mio pensiero senza
molte parole»[486].
Gian Giacomo Rousseau lasciò scritto di sè: «Je n'ai jamais pu rien
faire la plume à la main vis-à-vis d'une table et de mon papier; c'est
à la promenade, au milieu des rochers et des bois, c'est la nuit dans
mon lit et durant mes insomnies, que j'écris dans mon cerveau»[487].
Così sogliono comporre i poeti, e così, di solito deve avere composto
il Leopardi, se non le prose, i versi; specie ne' tempi in cui,
aggravandoglisi l'infermità degli occhi, più gli riusciva malagevole
e increscioso lo scrivere. Come il Rousseau, egli fu lentissimo nel
comporre; del che fanno prova, oltre alle parole di lui riferite più
sopra, anche alcune altre di una lettera al Giordani, ove accenna
alla _sudatissima e minutissima perfezione nello scrivere_, di cui era
sommamente studioso, e senza la quale di scrivere non si curava[488].
Ma mentre nel Rousseau quella lentezza fu effetto di certa naturale
tardità di pensiero, onde egli stesso si lagna; nel Leopardi fu
piuttosto effetto di certa incontentabilità esacerbata; la quale non
lascia che il poeta lavori di getto, rimandando a tempo più riposato i
racconci; ma, nell'atto stesso del formar l'opera, lo forza a tentare
ogni via di ridurla perfetta, sì che poi il lavoro della lima si
ristringa alla parte più superficiale e minuta, e sia lavoro, più che
altro, di ripulitura. Sappiamo, del resto, che il Leopardi rivedeva
con diligentissima cura i proprii manoscritti, e quand'erano troppo
infrascati di correzioni, li faceva copiare o li copiava egli stesso.
Inspirazione e riflessione si esercitarono nel Leopardi disgiuntamente,
senza che l'una intralciasse o turbasse l'altra, come in molti
poeti suole avvenire. Nessuno meglio di lui comprese il valore della
inspirazione; ma egli ben conobbe, per altro, che la poesia, ancorchè
il genio v'inclini naturalmente, «vuole infinito studio e fatica, e
che l'arte poetica è tanto profonda che come più si va innanzi più si
conosce che la perfezione sta in un luogo al quale da principio nè pure
si pensava»[489].
La poesia del Leopardi è tutta poesia d'occasione; ma non già nel senso
che comunemente s'intende, bensì nel senso che s'intendeva dal Goethe,
il quale soleva fare poesia di tutto quanto lo colpisse e lo commovesse
dentro. Non solo il Leopardi non volle mai far versi a richiesta
altrui[490]; ma certamente ancora non _si propose_ mai di far versi,
nè mai andò in cerca di argomenti da far poesia. Come abbiam veduto, se
l'inspirazione non gli nasceva dentro da sè, più facilmente si sarebbe
tratta acqua da un tronco che un solo verso dal suo cervello. È questo
uno dei più sicuri segni della vera e grande vocazione poetica; mentre
è segno sicurissimo del contrario l'andare a caccia di temi poetici,
e il rimanersi irresoluto fra più, e l'aprirsene troppo con altrui, e
chieder troppi consigli. Quanti epici e tragici nostri, che da prima
deliberarono di comporre epopea oppure tragedia; poi, fermato così
in generale il proposito, cominciarono a disputare seco stessi o con
altri, se dovesse essere epopea eroica o cavalleresca, se tragedia di
soggetto greco o latino o moderno, e quanto potessero emanciparsi dalle
regole, quanto ad esse dovessero sottostare! La vera e grande poesia
nasce dalla plenitudine della mente e del cuore, e come vena d'acqua
che venga su dal profondo, scaturisce e zampilla in alto da sè. Perciò
diceva il Leopardi che la _smania violentissima di comporre_ non gliela
davano altri che la natura e le passioni[491].
Studiamoci ora d'intendere per qual modo si formi e cresca nell'animo
del nostro poeta l'organismo poetico.
Nel breve scritto, già citato, che il Leopardi dettò intorno alle
proprie poesie stampate in Bologna nel 1824, leggiamo: «nessun potrebbe
indovinare i soggetti delle Canzoni dai titoli; anzi per lo più il
poeta fino dal primo verso entra in materie differentissime da quello
che il lettore si sarebbe aspettato»[492]. Non è questo, come altri
potrebbe credere, un vanto di singolarità vanagloriosa e studiata; è lo
schietto riconoscimento di una qualità veramente precipua della poesia
di esso Leopardi. Si scorrano con l'occhio quei titoli e si vedrà che
assai volte essi sono derivati da cose reali, determinate, concrete, da
fatti particolari o anche minuti, mentre poi ne' versi il sentimento si
allarga a dismisura, il pensiero s'innalza rapidamente e l'animo del
lettore spazia in una immensità alla quale non prevedeva di accedere.
Il Leopardi non muove mai dall'astratto, sebbene assai volte vi giunga;
nè si vede che la rima o il ritmo, che molto suggeriscono ad altri
poeti, a lui suggeriscano cosa di qualche rilievo; nè accade di leggere
versi suoi composti a solo fine di svolgere una movenza di stile, o per
inquadrarvi una immagine ovvero una formola. La parola, che ha tanta
presa sull'animo di tanti poeti; la parola che l'Hugo considerava come
una creatura vivente:
Car le mot, qu'on le sache, est un être vivant;
sull'animo del Leopardi può poco, sebbene ei l'abbia in grandissimo
conto, e le usi ogni possibil riguardo. Ciò che di solito mette in
movimento l'animo di lui, è una impressione viva, un fatto d'esperienza
immediata e presente, un sentimento particolare, un particolare
ricordo. Per intendere l'effetto, a prima vista sproporzionato, che
ne consegue, bisogna por mente alla condizione di quell'animo e alla
ordinaria sua contenenza; e, cioè, alla eccitabilità e penetrabilità
affatto insolita ond'esso è dotato, e a quel vasto e concatenato ordine
di sentimenti e d'idee che ne forma come la trama vivente. Non così
tosto si produce in quella psiche uno stimolo, che incontanente vi si
propaga per ogni verso, e corre a suscitare i sentimenti dominatori
e le idee madri, tutta ponendola in agitazione e in fermento, e
provocando di quelle e di queste figurazioni più o meno nuove e
complesse: onde avviene che il verso di un passero solitario svegli nel
poeta il sentimento angoscioso della solitudine propria, il rimpianto
della giovinezza senza frutto consunta, l'apprensione di un tetro
e doloroso avvenire; e la vista di una siepe e lo stormire di poche
piante siengli eccitamento a fingersi nella mente interminati spazii
e sovrumani silenzii, e a meditare insieme il passato e il presente,
l'infinito e l'eterno; e il tramonto della luna lo faccia pensoso del
dileguare della giovinezza, e, insieme con quella, d'ogni dolce diletto
e d'ogni inganno
Ove s'appoggia la mortal natura.
Dicesi che al Beethoven bastasse udire tre note di un uccelletto per
isvolgerne tutto un motivo musicale: similmente basta al Leopardi
una impressione, un ricordo, una immagine, per isvolgerne tutto un
tema poetico; e come non è possibile discernere nel germe la pianta
fiorita, così non è possibile in quel primo elemento delle poesie
leopardiane divinare di queste gli svolgimenti e i rigogli. E in ciò
appunto risiede una delle loro maggiori attrattive, e il secreto di
una parte di quel fascino ch'esse esercitano sull'animo del lettore; in
quella novità, cioè, e inopinabilità di relazioni remote, che ne dànno
come il sentimento di un mondo allargato, ove cessi la oppressione
del contiguo, e della causalità insistente e immediata. Ciò può
vedersi in tutte quasi le poesie del Leopardi; e se ne potrebbe fare
dimostrazione, se il farlo non richiedesse troppo lungo discorso;
ma in nessuna si vede così spiccatamente come nella _Ginestra_; la
qual poesia, essendo per più ragioni inferiore a molt'altre, è forse
per questa superiore a tutte. Non ve n'è altra, in fatti, in cui la
suggestion operi con più forza, e in cui da così modesto principio si
svolgano conseguenze così vaste e meravigliose. L'umile pianta che dà
il titolo alla poesia è pur quella che da prima eccita l'anima del
poeta, il quale dalla contemplazione di lei si leva da ultimo alla
contemplazione universa delle storie e dei destini umani e della natura
indifferente ed eterna. Se disse il vero lo Schopenhauer, quando disse
la poesia esser l'arte di muovere la fantasia con le parole[493],
bisognerà riconoscere che pochi poeti furono più poeti del Leopardi,
e bisognerà pur riconoscere che, se quanto a ricchezza di fantasia la
cede a più d'uno, quanto a vigore ed agilità l'autore della _Ginestra_
non la cede a nessuno.
Qui un dubbio può affacciarsi alla mente: in quale condizione d'animo
fu il Leopardi più inclinato a poetare? allorquando più lo premeva il
sentimento della propria infelicità, o ne' tempi in cui si sentiva
meno infelice? Fu asserito che il poeta fa poesia del dolore che
ricorda e non di quello che sente; ch'egli comincia a creare quando
cessa di soffrire: ma concedendo che questo avvenga assai volte, non
però avviene tutte le volte. Accade non di rado che il poeta cessi di
soffrire appunto perchè comincia a creare: nè Ovidio aveva cessato di
piangere sopra sè stesso quando scriveva i _Tristi_; nè Dante aspettò
nuovo sorriso di fortuna per metter mano all'eterno poema; nè quando
s'accinse a scrivere il _Paradiso perduto_, aveva il Milton racquistata
la visione di quella beatifica luce che con tanto ardore di desiderio,
con sì irrefrenabile amore egli invoca in sul principio del terzo
suo libro. Il nostro dolore si ammassa sotto la carezza dell'arte;
e vestendolo delle pure forme della bellezza, e fuor di noi dandogli
vita nell'opra, noi, di tormentatore ch'egli era, ce ne facciamo un
amico, e da esso medesimo otteniamo consolazione e conforto. Ben disse
lo Chateaubriand che le muse, quando piangono, piangono con un secreto
intendimento di farsi belle. Come tanti altri poeti, il Leopardi lenì
l'angoscia col canto. Giovava a lui noverare col verso l'età del suo
dolore; ed egli conobbe che dolce è il ricordo delle passate cose,
Ancor che triste, e che l'affanno duri![494]
Da quanto s'è detto sin qui si può arguire facilmente che nell'intimo
lavoro delle associazioni psichiche il Leopardi riesca, come di fatto
riesce, assai fine e nuovo, avvertendo tra i sentimenti e tra le idee
analogie e colleganze non avvertite da altri, appajando cose a primo
aspetto disparatissime. L'associazione per somiglianza, ch'è la maniera
più comunale e più ovvia, non manca, nè poteva mancar ne' suoi versi;
ma v'è assai meno frequente che non in quelli d'altri poeti; e sempre
lontana dal trito e dal triviale. Il _Tramonto della luna_ poggia tutto
sopra un'associazione per somiglianza, ma somiglianza riposta, che il
poeta discopre sotto il velo delle immediate parvenze, e rende palese
ad altrui. Associazioni consimili abbiamo nel _Passero solitario_,
nella _Quiete dopo la tempesta_, in _Amore e morte_, nella _Ginestra_;
per non rammentare se non le poesie in cui occorre più spiccata e tiene
più luogo. Basta già lo scarso uso della rima a mostrare come l'animo
del Leopardi sia poco inclinato all'associazione per somiglianza;
la qual cosa è poi dimostrata assai più dalla scarsità veramente
notabile delle immagini (qui nel senso retorico), delle metafore,
delle comparazioni, delle personificazioni. Delle metafore più rilevate
che occorrono ne' suoi versi potrebbe farsi un elenco assai succinto,
senza che se ne trovi una sola eccessiva o mostruosa. Eccone alcune
delle più notabili: _Perchè i celesti danni Ristori il sole; e la
fugace ignuda Felicità per l'imo sole incalza; E il naufragar m'è
dolce in questo mare; travagliose strade della vita; onda degli anni;
unico fiore dell'arida vita_. Più scarse ancora le comparazioni. Nella
canzone _All'Italia_ quella dei leoni e dei tori è comune e imperfetta.
Un'altra ne abbiamo nel _Pensiero dominante_:
Come da nudi sassi
Dello scabro Apennino
A un campo verde che lontan sorrida
Volge gli occhi bramosi il pellegrino.
Una terza nella poesia _Sopra un basso rilievo antico sepolcrale_:
Come vapore in nuvoletta accolto
Sotto forme fugaci all'orizzonte.
Dopo la canzone _All'Italia_, dove la patria depressa ed afflitta
è personificata nel vecchio modo tradizionale; e dopo la canzone
_Sopra il monumento di Dante_, dove, insieme con la patria, sono,
tanto o quanto, personificate anche la misericordia e la pace, noi
non troviamo, da quelle dell'amore e della morte in fuori, altre
personificazioni[495]. Il simbolo è frequente nella poesia del
Leopardi, e basterà ricordare quello della ginestra; ma l'allegoria
distesa, vera e propria, non vi si trova.
L'associazione per contiguità, ch'è forma spesso volgare ed oziosa
di associazione, è rara ancor essa in quella poesia; e veramente poco
poteva aggradire a uno spirito critico quale quel del Leopardi, uso a
sceverare i dati immediati della esperienza. Ne abbiamo un esempio, a
mio giudizio, increscevole, nella _Vita solitaria_, là dove il poeta a
quella bellissima immagine:
O cara luna, al cui tranquillo raggio
Danzan le lepri nelle selve,
appicca questo strascico inopportuno:
e duolsi
Alla mattina il cacciator, che trova
L'orme intricate e false, e dai covili
Error vario lo svia.
Il Leopardi predilige, come alla natura dell'ingegno suo si conviene,
l'associazione per contrasto, senza però cadere in quell'abuso
dell'antitesi e delle opposizioni violente, che forma uno dei caratteri
più spiccati della poesia dell'Hugo. Che il Leopardi avesse vivo
il senso de' contrarii è mostrato anche dalle sue contraddizioni
frequenti; e molte delle sue poesie traggono da un contrasto
inspirazione e argomento: nei canti di soggetto patrio e civile,
contrasto fra la grandezza passata e la presente abiezione d'Italia,
tra la fortuna e la virtù, ecc.; nel canto _Alla primavera_, e in
altri, contrasto fra la felicità degli antichi e la infelicità dei
moderni; nell'_Ultimo canto di Saffo_, nel _Consalvo_, nell'_Aspasia_,
contrasto fra l'amore e la sorte o la malignità; nella _Sera del
dì di festa_, contrasto fra il desiderio e la speranza del piacere
e il disinganno; nella _Ginestra_, contrasto fra la superbia e la
miseria degli uomini: pressochè per tutto e sempre contrasto fra la
natura e l'uomo, fra il pensiero e il sentimento, fra la illusione e
il vero[496]. Bruto stupisce, vedendo così placida in cielo la luna,
mentre Roma precipita:
Cognati petti il vincitor calpesta,
Fremono i poggi, dalle somme vette
Roma antica ruina;
Tu sì placida sei?
Seduto presso a una siepe che gli toglie la vista di molta parte
dell'orizzonte, il poeta corre con la mente allo spazio infinito, e a
un susurrare di fronde va comparando l'infinito silenzio, e contrappone
al presente il passato. L'anima sua, combattuta da un perpetuo
dissidio, vede il mondo sotto l'apparenza di un perpetuo dissidio.
E qui è una delle ragioni per cui il poeta così sovente, e così
volentieri, si dilunga con la fantasia nel remoto del tempo e
dello spazio, risalendo alle prime storie del genere umano e agli
antichissimi miti, smarrendosi nella vastità de' cieli stellati;
dacchè il remoto, per una facile illusione del sentimento e della
immaginativa, ci appare, non solo diverso dal prossimo, ma pure in
contrasto con esso, e quasi una negazione di esso. Nessuno meglio del
Leopardi conobbe l'affascinante poesia di quel lontano in cui l'anima,
prosciogliendosi dalle cure angustiose, sottraendosi alla tirannide
delle cose presenti e prementi, ritrova e sente tutta sè stessa, e
rinnovata e libera si muove e si espande. E qui ancora è una delle
ragioni di quel suo quasi culto delle rimembranze, dacchè ciò che
l'uomo ricorda con più tenerezza e di desiderio, sempre contrasta, in
una certa misura, con ciò che l'uomo ha o sperimenta attualmente. Se
non che s'è dovuto notar da altra banda quanto alle volte il Leopardi
si tenga stretto alla realtà immediata e presente. Questa facoltà
ch'egli ha di accostarsele e di scostarsene a suo talento acuisce
mirabilmente in lui il senso dei contrasti; e dal contemperamento e
dalla fusione di qualità che a primo aspetto non sembra si possono
insieme accordare, viene alla sua poesia un'attrattiva assai nuova e
rara.
L'intellettualità del Leopardi si appalesa ancora nell'uso degli
epiteti. Pel versajuolo gli epiteti sono elementi fonici e metrici,
che servono sopratutto a compiere e arrotondare il verso: pel poeta
più particolarmente sensuale e immaginativo, sono elementi pittorici
e musicali che servono a ornare l'idea e a rendere la espressione
rigogliosa e sonora: pel poeta più particolarmente intellettuale, sono
elementi determinativi che servono a dare all'idea espressa giusta
misura e giusto carattere. Il Leopardi non usa mai dell'epiteto come di
semplice ripieno o di zeppa. Lascia vedere, bensì, ma più propriamente
nelle prime poesie, alcuni esempii di epiteti ripetuti per usanza e
per tradizione, dovuti ad automatismo della memoria; ma in generale gli
epiteti suoi, in cui è quella parsimonia e quella castigatezza che gli
psicologi e gli psichiatri notano come un segno di sanità mentale, sono
appropriati ed efficaci. Alcuni, che ricorrono con maggiore frequenza,
come _ermo_, _solitario_, _deserto_, _romito_, _quieto_, _ignudo_,
_eterno_, _infinito_, riflettono la preoccupazion consueta dell'animo
suo, e porgono un indice (ma poco sicuro) dello stato somatico,
della vita fisica del poeta. Il quale non va mai fanciullescamente
alla caccia di quella colorata farfalla ch'è, il più delle volte,
l'_épithète rare_; nè mai usa un solo di quegli epiteti mostruosi ed
usurpatori che violentano o contraffanno le cose. Quello che Teofilo
Gautier disse trasposizione delle sensazioni è artifizio presso che
ignoto al nostro poeta.
Non è questo il luogo per fare uno studio minuto dello stile del
Leopardi, studio che richiederebbe, oltrechè molta diligenza e fatica,
anche assai tempo: a noi basterà notare di quello stile i caratteri
principali.
Lo stile è la fisonomia dello spirito, disse lo Schopenhauer; e
di nessun altro scrittore può dirsi questo con più verità che del
Leopardi. Qual è, guardato in generale, e tralasciata per ora ogni
distinzione fra prosa e poesia, lo stile del Leopardi? «Il suo
stile», sentenziò un tempo il De Sanctis, «è come il suo mondo, un
deserto inamabile, dove invano cerchi un fiore»[497]. Ma chi mai
vorrà acquetarsi a così recisa sentenza? Che i fiori non abbondano in
quello stile (e qui, veramente, bisognerebbe distinguere fra prosa e
poesia) è verissimo; ma non altrettanto vero che sia quello stile un
deserto inamabile. Parecchi anni innanzi il Giordani aveva scritto: «Un
perfetto stile dovrebbe avere geometria, pittura, musica. — Nelle prose
del Pallavicino e di Leopardi prevale il geometrico. Nel Pallavicino
più visibile; meno visibile ma non meno vigoroso nel Leopardi»[498].
Il Giordani diceva più giusto, massime che parlava della sola prosa.
Più tardi si vede che il De Sanctis ebbe a considerar meglio questo
punto, perchè trovò che il Leopardi introdusse nella prosa italiana
quel vigore logico onde troppo aveva difettato insino allora, e le
diede «una forma limpida ed evidente, fondata su di una ossatura solida
e intimamente connessa, come in un corpo organico»; e scrisse insomma
eccellente prosa di tipo intellettuale[499]. Ma ancora parmi si scosti
dal vero e dal giusto quando lo stile del Leopardi paragona a uno
scheletro ignudo, mentre è scheletro coperto di buone polpe, se non
vestito di panni pomposi e di gale. Rimane verissimo che non solamente
nella prosa, ma nel verso ancora, è stile costruito essenzialmente
dalla ragione, e costruito con quel vigoroso e difficile antivedimento
che abbraccia e coordina tutta una lunga consecuzione di frasi e di
periodi. Doti principalissime, ma non però sole, di quello stile sono
la proprietà, la coerenza, la sodezza, la proporzione, la chiarezza;
doti attiche per eccellenza, che non si trovano in quello che dicesi
stile florido, ma sono proprie di quello che dovrebbe dirsi stile
organico; e che sole pongono lo scrittore in grado di conseguire ciò
che, secondo lo Schopenhauer, più si richiede a scrittore veramente
buono: forzare il lettore a intendere per lo appunto quel medesimo
ch'egli ebbe in mente e volle esprimere con le parole. Il Leopardi
considerò «la proprietà de' concetti e delle espressioni» come «quella
cosa che discerne lo scrittore classico dal dozzinale», e della
chiarezza disse esser essa il primo _debito dello scrittore_[500].
Ma di queste doti, per quanto importanti, non poteva contentarsi chi
voleva rifatto _il di fuori e il di dentro della prosa_.
Si bada a notare ciò che il Leopardi derivò nel suo scrivere dai Greci,
dai Latini, dai Trecentisti (i Cinquecentisti, meno poche eccezioni,
egli ebbe in conto di _miserabili_)[501]; ma si tace del nuovo ch'egli
introdusse nello stile italiano, e specie dell'ardimento con cui
seppe, più ancora nel verso che nella prosa, scomporre le vecchie
forme tradizionali del periodo. A tale proposito egli scriveva al
Giordani: «L'arte di rompere il discorso, senza però slegarlo, come
fanno i Francesi, conviene impararla dai Greci e dai Trecentisti; ma
i Cinquecentisti non pensarono che si trovasse, nè che, volendo esser
letti, bisognasse adoperarla»[502].
Abbiamo veduto che cosa il Leopardi pensasse della prosa poetica[503]:
notiamo ora che egli espresse grande aborrimento per la prosa
«geometrica, arida, sparuta, dura, asciutta, ossuta, e dirò così
somigliante a una persona magra che abbia le punte dell'ossa tutte in
fuori»; e predilezione grandissima per «quella freschezza e carnosità
morbida, sana, vermiglia, vegeta, florida..... che s'ammira in tutte
quelle prose che sanno d'antico»[504]. Che se per entro alle prose di
lui non ispesseggiano, anzi son rari, i versi; e se non vi si ritrova
la varietà di tono e di struttura, la magnificenza, la copia che
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