Foscolo, Manzoni, Leopardi: saggi - 06

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Riconosciamo pure (e dopo quanto s'è detto innanzi non ci costerà
troppa fatica) che le potenze dello spirito più particolarmente
richieste al poetico officio non sono quelle che primeggiano nel
Manzoni; riconosciamo ch'esse sono in qualche modo soggiogate da altre;
ma riconosciamo, in pari tempo, che quelle potenze ci sono, e han molto
vigore, ed operano molto speditamente. L'anima del Manzoni fu certo
più aperta alla luce del vero che alla luce del bello, sebbene anche a
questa sia stata aperta assai bene; e la condizione di poeta pare che
voglia piuttosto il contrario, o almeno, che l'anima le riceva entrambe
egualmente: e dico entrambe, perchè le son due propriamente, e non una,
come s'è voluto far credere.
Da giovane il Manzoni sentì ancor egli la vocazione poetica (dico
vocazione e non fregola) e rifuggendo dalle tetre scuole mortificatrici
dell'ingegno e corruttrici del gusto, e da maestri che più tardi
sarebbesi vergognato d'avere a discepoli, s'addusse franco al _sorso de
l'Ascrea fontana_, e cercò dei _prischi sommi_, e ne fu preso di tanto
amore che gli pareva di vederli e conversare con loro. Lo rodeva il
dubbio che Carlo Imbonati, la cui memoria egli onorava allora di quasi
religioso ossequio, come un esempio impareggiabile di umanità virtuosa
e gentile, avesse curata poco da vivo la _divina de le Muse armonia_, e
da lui si faceva rispondere in sogno:
Qualunque
Di chiaro esemplo, o di veraci carte
Giovasse altrui, fu da me sempre avuto
In onor sommo;
e nella sua bocca poneva le lodi dell'Alfieri e del Parini, e di quel
sovrano
D'occhi cieco, e divin raggio di mente,
Che per la Grecia mendicò cantando[56].
Dell'anno 1809 è l'_Urania_, ch'è tutto un inno alla poesia, e dove
il poeta si consacra tutto alle muse, le quali, _fuggitive dai laureti
achei_, presero stanza in Italia:
A queste alme d'Italia abitatrici
Di lodi un serto in pria non colte or tesso;
Chè vil fra 'l volgo odo vagar parola
Che le Dive sorelle osa insultando
Interrogar che valga a l'infelice
Mortal del canto il dono. Onde una brama
In cor mi sorge di cantar gli antichi
Beneficj che prodighe a l'ingrato
Recâr le Muse[57].
Allora il suo desiderio più vivo e la più cara speranza erano di
vedersi aggiunto un giorno _al drappel sacro_ dei poeti d'Italia[58],
al quale fu poi aggiunto veramente, ma senza che il suo desiderio ci
entrasse per molto; anzi un pochino contro sua voglia, s'è vero che
a farvelo aggiungere ajutarono per la parte loro anche quelle poesie
giovanili ch'egli rifiutò più per le cose che dicevano che pel modo,
meno perfetto, con cui le dicevano.
Quand'è che l'animo di questo innamorato cominciò a raffreddarsi?
Sarebbe difficile il dirlo. Da giovanissimo, e poi per certo tempo più
tardi, egli vagheggiò una specie di poesia realistica, molto diversa
da quella di cui il Cerretti seguitava a predicare essere il furore la
suprema ragione. Nel sermone a Giovanni Battista Pagani, ch'è del 1804,
il poeta così si confessa all'amico:
Or ti dirò perchè piuttosto io scelga,
Notar la plebe con sermon pedestre,
Che far soggetto ai numeri sonanti
Opre antiche d'eroi. Fatti e costumi
Altri da quei ch'io veggio a me ritrosa
Nega esprimer Talia[59].
Queste ultime parole in ispecie son degne di qualsiasi più risoluto
e più rigoroso realista. Diciasette anni più tardi, nel gennajo del
1821, e in una lettera al Fauriel, il Manzoni esprime la opinione che
la poesia debba dire ciò che si pensa e ciò che si sente nella vita
reale[60]; e in altra lettera, senza data, al medesimo amico, parla
ironicamente del _bel principio_ «que tout ce qui est vague, fabuleux,
confus est poétique de sa nature, et que lorsqu'on ne sait rien sur
un sujet, il faut en parler en vers»[61]. O prima o poi egli dovette
vagheggiare una poesia ragionevole, come la voleva il Johnson. Leggasi
questa sua riflessione: «A chi dicesse che la poesia è fondata sulla
immaginazione e sul sentimento e che la riflessione la raffredda, si
può rispondere, che più si va addentro a scoprire il vero nel cuore
dell'uomo, più si trova poesia vera»[62]. Se non che, molto per tempo
egli dovette cominciare a negar credenza a quel detto dello Shelley,
che i poeti possono significare il vero al pari e meglio di coloro che
scrivono in prosa; e al giudizio di Aristotele, quando sentenziò essere
la poesia più filosofica e, in un certo senso ideale, più vera della
storia[63]. Onde, sino dal 1829, nella _Storia della Colonna Infame_,
si burlava del privilegio arrogatosi dai signori poeti di dire ogni
cosa che loro salti in capo, o vera o falsa che sia[64]; e nel giugno
del 1832 scriveva ad un Coen, il quale s'era fissato di lasciare i
negozii per darsi alle lettere: «E, come le storture trovan meglio da
appigliarsi e da spiegarsi in un linguaggio straordinario, fantastico e
di convenzione, così i poeti hanno in questa miseria (_del fare d'una
passione una virtù_) la maggior parte e il più cospicuo luogo»[65].
Vero è che poi, nel 1845, dirà la poesia usare un linguaggio insolito
perchè ha cose insolite da dire[66].
Come intendesse il Manzoni la unione, o l'alleanza della poesia con la
storia, abbiamo già in parte veduto. Quella deve conformarsi e obbedire
a questa. Se nel Michelet il poeta nuoce allo storico, nel Manzoni lo
storico nuoce al poeta.
A poco a poco l'antico amore, non solo s'intepidiva, ma diventava,
prima indifferenza, poi avversione. Ecco il Manzoni trovar gusto
in notare i difetti, i peccati, gli svantaggi della poesia, e
l'irreparabile e non lacrimabile suo decadimento. «La poesia ha anche
questo bel vantaggio, d'essere come forzata a prendersi delle licenze»,
dirà egli in una delle citate lettere al Borghi[67]. E in quella
lettera al Coen: «Badi che i poeti vanno scemando d'autorità come di
numero (_di numero poi!_); e l'essere con tutto ciò cresciuto quello
de' lettori fa sì che alla venerazione sottentri il giudizio; e son
giudicati ogni dì più con questa ragione, che, se le cose dette da
loro fanno per loro soli e non importano all'umanità, son cose da non
curarsene; se importano, bisogna veder come sien vere»[68]. Altro che
la _divina armonia_ del carme in morte dell'Imbonati, e gli entusiasmi
e gli ardori dell'_Urania_! Altro che la _divina concitazione del
genio_ e la _sapienza ispirata_ decantata dal Foscolo! Ed era il
tempo felice e memorabile in cui i romantici francesi andavano in
gloria perchè dicevano di aver ritrovate le fonti vive della poesia,
e sgombratene le scaturigini dagli sterpi e dai sassi, ne lasciavano
correre in copia, fra le turbe assetate, le onde vivificatrici e
sonore. Nel novembre del 1845 il Manzoni, in una lettera al Giusti, del
quale pure ammirava l'arte e l'ingegno, par che si spassi a fare il
novero di tutti gli scapiti a cui la poesia, la _signorona vecchia_,
andò soggetta nel corso dei tempi, e fattolo, soggiunge, burlandosi:
«Dunque lavora, _chè fai sul tuo_; e accresci l'entrata della padrona,
agl'interessi della quale prendo una gran parte, anche per il gran bene
che le ho voluto in gioventù»[69]. In gioventù, avete inteso?
Quando, nei _Promessi Sposi_. detto che cosa s'intenda per poeta dal
volgo di Milano e del contado (e, si poteva aggiungere, d'altri siti:
_populus sanos negat esse poetas_, scriveva melanconicamente Ovidio dal
Ponto): quando, dico, il Manzoni butta lì quella sua interrogazione
biricchina: «Perchè, vi domando io, cosa ci ha che fare poeta con
cervello balzano?»[70] ognuno capisce che nella opinione del Manzoni
ci ha che fare non poco; e più lo capisce, quando in un altro luogo del
romanzo legge, in coda a un ricordo del famoso sonetto dell'Achillini:
_Sudate o fuochi_, ecc., queste parole: «Ma è un destino che i pareri
dei poeti non siano ascoltati: e se nella storia trovate de' fatti
conformi a qualche loro suggerimento, dite pur francamente ch'eran
cose risolute prima»[71]. Altro che i veggenti, e i precursori, e gli
apostoli! Altro che i convertitori delle folle in popolo! Altro che il
_drappel sacro_!
Ma, quando scriveva il romanzo, il Manzoni era ancora in vena di
scherzo: più tardi non credo che in sì fatto argomento avrebbe
scherzato a quel modo. Più tardi egli nutrì per la poesia un po' (non
saprei dir quanta) di quell'avversione sospetta e stizzosa che brontola
nelle parole del Bossuet e del Pascal, e la nutrì, in parte almeno,
per le ragioni medesime. Orazio disse la poesia _amabilis insania_:
venne tempo in cui quell'_amabilis_ dovette parer di troppo all'autore
della _Morale cattolica_. Perciò io penso che sieno del Manzoni assai
giovane questi pensieri, tolti di tra i suoi _Pensieri varii_: «La
poesia, stromento di criterio della bontà delle azioni. Alcuni fatti
giustificati in prosa, non potrebbero mai divenir soggetto di encomio
poetico. Fate un po' dei versi in lode della tratta dei negri, della
St-Barthélemy, degli _auto da fé_, del tribunal rivoluzionario del '93,
ecc., cose in favor delle quali si è pur ragionato in prosa. La poesia
sembra allontanarsi dalla vita reale più della prosa, e all'opposto,
rigettando le formule generali, convenute di quella, essa sovente si
move, e si addirizza insieme alle più intime, primitive sensazioni, ai
particolari in cui quelle si risolvono, che quelle non rappresentano.
E appunto nei casi del genere suddetto, la prosa giustificatrice si
serve di quelle formole, ecc.»[72]. La _prosa giustificatrice_! quale
attributo! dunque la poesia direbbe il vero meglio della prosa?
Se al detto sin qui voi aggiungete che il Manzoni, non solo ebbe in
uggia il romanzesco, lo stravagante, il mostruoso, ma ancora ogni
meraviglioso soprannaturale, da quello della fede in fuori; ch'egli
non sentì punto il bisogno, tanto sentito dai romantici, di sostituire
all'antica una nuova mitologia; che si mostrò sempre molto severo
per tutte le credenze superstiziose, poetiche o non poetiche; se
osservate ch'egli non si diletta punto di portenti e di miracoli; che
nei _Promessi Sposi_ non v'è altro meraviglioso, se non quello di un
ordine divino che si lascia scorgere dietro al disordine umano; che il
miracolo vi è sempre interno, occulto, immanente, e si compie nelle
anime o pervade la storia; che però quello delle noci narrato da fra
Galdino si risolve in ironia manifesta; voi avete sott'occhio tutti
gli elementi, le movenze e i caratteri dell'arte manzoniana, quali sono
prodotti, determinati, condizionati da quel vero che il Manzoni aveva
preso a fondamento dell'arte sua, e che fedele al monito dell'Imbonati:
Il santo vero
Mai non tradir,
egli osservò sempre nei pensieri, nelle parole, nelle opere.

IX.
Nella dottrina romantica il Manzoni distinse molto opportunamente due
parti, l'una negativa, positiva l'altra; quella assai più larga, più
consistente e più precisa; questa assai più ristretta, più sconnessa
e più indeterminata[73]. Per la parte negativa, si può dire ch'egli
s'accordi in tutto con la scuola; per la parte positiva, si accorda
molto meno, e qualche volta non si accorda punto. Del resto, in questa
seconda parte, anche gli altri romantici discordavano spesso fra loro.
Avveniva della dottrina romantica ciò che di tutte le dottrine, dove la
parte critica è sempre più valida e più coerente della dogmatica.
Come ogni altro romantico vero, il Manzoni detesta, ricusa e schernisce
tutte quelle regole d'arte che non sono «fondate sulla natura,
necessarie, immutabili, indipendenti dalla volontà de' critici,
trovate, non fatte»[74]. Con l'acume suo consueto egli scopriva nelle
regole arbitrarie un trovato della pigrizia e della inettitudine:
«C'est une singulière disposition que celle que nous avons à nous
forger des règles abstraites applicables à tous les cas, pour nous
dispenser de chercher dans chaque cas particulier sa raison propre, sa
convenance particulière»[75]. «Il n'y a ni règles, ni modèles», dirà
più tardi l'Hugo, «ou plutôt il n'y a d'autres règles que les lois
générales qui planent sur l'art tout entier, et les lois spéciales qui
pour chaque composition résultent des conditions d'existence propres
à chaque sujet». Il Manzoni aggiungeva: «in fatto d'arte, un precetto
non può essere altro che l'indicazione d'un mezzo»[76]; e con tutti
i romantici credeva che le regole non fondate in natura (alle fondate
in natura chi ha fior di senno non sogna di ribellarsi) fossero state
«un inciampo a quelli che tutto il mondo chiama scrittori di genio;
e un'arme in mano di quelli che tutto il mondo chiama pedanti»[77].
Documento insigne dell'avversione sua a quelle, e, in pari tempo,
dell'acutezza e potenza della sua critica estetica, rimane la lettera
sulle famose unità drammatiche[78].
Il Manzoni è ancora schiettamente e deliberatamente romantico nella
dottrina drammatica, e specialmente quando sostiene che tutta la
struttura del dramma, e il moversi de' personaggi in esso, e la vicenda
degli avvenimenti, devono dipendere dalla natura dell'azione; e quando
ammira ed esalta lo Shakespeare sopra tutti i drammaturghi antichi e
moderni. La sua dottrina drammatica, in sostanza, non è diversa, o è
poco diversa da quella di Guglielmo Schlegel, del De Vigny, dell'Hugo.
Il Manzoni è inoltre romantico risoluto quando vuole si sostituisca
il concreto all'astratto, il particolare al generale, l'uomo vero al
fittizio, ecc.; ma non è più romantico, o è un romantico irresoluto,
e che fa molte riserve, rispetto ad altri postulati, ad altre tendenze
dell'arte nuova.
Così rispetto a quella mescolanza del tragico e del comico, dello
scherzevole e del serio, che preconizzata nel secolo XVII da Lope de
Vega, nel secolo XVIII dal Diderot, dal Voltaire e dal Lessing, de'
quali tre, il secondo la biasimò dopo averla lodata e il terzo la lodò
dopo averla biasimata; effettuata nel dramma lacrimoso, o commedia
patetica, o tragedia borghese che voglia dirsi, era divenuta un canone
principale dell'estetica romantica, un pezzo prima che l'Hugo scoprisse
nel cristianesimo la fusione armonica del grottesco e del sublime. Il
Manzoni, prudente sempre, non la condanna; ma esprime un dubbio: «je
pense», scrive egli nella già tante volte citata lettera sulle unità,
«comme un bon et loyal partisan du classique, que le mélange de deux
effets contraires détruit l'unité d'impression nécessaire pour produire
l'émotion et la sympathie; ou, pour parler plus raisonnablement, il
me semble que ce mélange, tel qu'il a été employé par Shakespeare, a
tout-à-fait cet inconvénient. Car qu'il soit réellement et à jamais
impossible de produire une impression harmonique et agréable par le
rapprochement de ces deux moyens, c'est ce que je n'ai ni le courage
d'affirmer, ni la docilité de répéter... Mais, pour rester plus
strictement dans la question, le mélange du plaisant et du sérieux
pourra-t-il être transporté heureusement dans le genre dramatique d'une
manière stable, et dans des ouvrages qui ne soient pas une exception?
C'est, encore une fois, ce que je n'ose pas savoir»[79]. Nei _Promessi
Sposi_, per altro, la mescolanza c'è, ed è anzi carattere notabile di
quel libro, che ne ha tanti altri notabili; e se ne potrebbe discorrere
a lungo, se il tempo lo concedesse.
Si sa che i romantici furono più che mediocremente presi da quella
dolce mania descrittiva che il Mérimée pose così argutamente in
canzone, e che i realisti ebbero dai romantici in fedecommesso. Al
Manzoni quella mania non s'attaccò. Si sa pure che i romantici, stanchi
di quello che chiamavano vaniloquio classico, formarono il proposito
di dire, non più parole, ma cose, e fermi in esso cominciarono alcuni,
anzi molti, a curar le parole un po' meno di quanto si richieda alla
giusta ed efficace significazion delle cose. Il Manzoni, che anche in
ciò la sa lunga, cura moltissimo le cose, e per curarle a dovere, cura
anche moltissimo le parole.
Chi legge le opere del Manzoni con l'attenzione dovuta, ogni po'
incontra pensieri che un romantico dei soliti non vorrebbe far suoi,
parole che un romantico dei soliti non direbbe. E così dev'essere;
perchè, come s'è veduto, il Manzoni ha una costituzione di mente molto
diversa da quella dei romantici presi in generale e il Manzoni si tiene
stretto e fedele ai soli principii fondamentali del romanticismo; e il
Manzoni riman fuori affatto dei traviamenti della dottrina romantica e
dell'arte romantica. Perciò s'indovina che moltissimi romantici, dei
maggiori e dei minori, non gli dovevano andar troppo a sangue[80].
Riservato e benevolo come egli è, non lo dice; ma si capisce che
avrebbe avuto da dir per un pezzo, se avesse voluto incominciare e non
fermarsi. Solo una volta, scrivendo al Cantù, che nel 1833 aveva dato
fuori il saggio intorno a _Victor Hugo e il romanticismo in Francia_,
uscì sul conto del grande poeta francese in queste moderate parole: «I
giudizii vostri sono benevoli, ma non adulatorii, come troppi altri.
È un ingegno forte, ma disordinato. Le situazioni, le sa trovare; e,
trovate, le sa usare (come dite voi _exploiter_?), ma non guarda se
siano ragionevoli.... Voi dite all'autore delle parole savie: facciano
almeno frutto su certi giovani di qui, e principalmente di oltre
Enza»[81]. Queste sono parole piene di temperanza e modestia mirabile,
perchè non si può immaginare diversità, anzi contrarietà di natura
maggior di quella che passa tra colui che le pronunziava e colui per
cui erano pronunziate; e si sa che i diversi, e più i contrarii sono da
natura pochissimo disposti a giudicarsi vicendevolmente con temperanza
e con modestia, anzi pur con giustizia. L'Hugo è capo incontestato del
romanticismo francese; il Manzoni è considerato capo del romanticismo
italiano: ora, chi leggesse le opere dell'uno e dell'altro, e non
sapesse più là, non immaginerebbe mai e poi mai che le due scuole che
li acclamano capi possano denominarsi col medesimo nome.
Per definire vie meglio l'indole del Manzoni e dell'arte sua, non
sarà male che ci soffermiamo alcuni istanti a fare tra l'Italiano e il
Francese un po' di raffronto.

X.
Ma prima di tutto una dichiarazione e una protesta, come usavano farne
que' buoni autori del tempo andato che, non dalle parole dei censori
soltanto, ma anche dalle lor proprie, volevano assicurati i leggenti
non esservi nelle opere loro nulla _contro la santa fede cattolica, nè
contro prencipi, nè contro buoni costumi_.
Io ammiro profondamente il Manzoni, e ammiro, non meno profondamente,
l'Hugo; e fo così poco conto dei detrattori morti del primo come dei
detrattori vivi del secondo. Entrambi mi pajono grandi; e se talvolta
l'uno mi par più grande dell'altro, ciò avviene solo perchè fissando
io un po' troppo intentamente lo sguardo nell'uno dei due, l'altro
lo perdo un pochino di vista. Facciamo una supposizione. Supponiamo
che per decreto di un nuovo fato il Manzoni e l'Hugo non fossero più
entrambi concessi alla gloria di questa povera umanità, ma l'uno di
essi soltanto, e che quest'uno dovess'essere da noi prescelto: io, per
la mia parte, come cittadino di questa patria italiana, non potrei
non dire: _Ebbene, ci sia lasciato il Manzoni_; ma, come cittadino
del mondo, non saprei che risolvere. E dopo ciò, veniamo al proposito
nostro.
L'Hugo è di temperamento sanguigno; il Manzoni è di temperamento
nervoso. Quegli serba e mostra in tutto il poderoso suo essere come
un resto di esuberanza e d'impetuosità primitiva, certe come vestigia
di una umanità non ancora attenuata e ammansita dal lento lavoro
dei secoli; questi dà a conoscere in tutto il delicato suo essere
l'ostinato lavoro della disciplina, gli effetti dell'adattamento
e dell'assuefazione; e si può quasi dire che ogni antico istinto
è perduto in lui. L'Hugo fu rassomigliato a un titano, e non
infelicemente; se non che, qualche volta par che si sformi e degradi
nel ciclope: il Manzoni par quasi un santo, ma un santo che, qualche
volta, pende verso l'asceta.
L'Hugo ebbe uno spirito audace, turbolento e superbo; il Manzoni, come
fu osservato argutamente dal Tenca, «un'intelligenza che si schermisce
quasi paurosa di sè medesima». Quegli fu sempre sicuro di sè, ed ebbe
per incontrastabile e per sacra ogni sua opinione, ogni parola; questi
sempre dubbioso, e sempre restio a profferir giudizii e sentenze; _di
maniera che, in molti casi, e singolarmente ne' più importanti_, il
costrutto del suo ragionare era questo: nego tutto, e non propongo
nulla[82]. Quegli fu (chi nol sa?) vanissimo, e nella ostentazion di
sè stesso attinse almeno i primi gradi del ridicolo: pensò d'essere, e
così si denominò, una fiaccola accesa dinanzi alla umanità brancolante
nel bujo, un preparatore di nuovi destini, un redentore di mondi; ed
accettò, anzi chiese l'adorazione: questi spinse la modestia inaudita e
favolosa sino a dirsi inetto a cosa alla quale tutti si stimano idonei,
a fare, cioè, il deputato, e da sè si chiamò _uomo inconcludente_,
e ricusò gli omaggi, e fu, nel ricusarli, più d'una volta sgarbato.
L'uno fu l'uomo di tutte le pubblicità, di tutti gli ardimenti, e
mescolò la fragorosa voce tra di profeta e di tribuno a tutte le voci
e a tutte le bufere del secolo, e più d'una volta le dominò tutte
dall'alto; e apparve bello e splendente d'antico eroismo quando dalla
sommità di uno scoglio, di mezzo al tumulto di un oceano perpetuamente
sconvolto, osò sfidare, maledire, deridere l'avversario coronato e
onnipotente; l'altro fu uomo di solitudine e di silenzio, e solo con
mano circospetta e parco gesto sparse negli animi alcuni semi che poi
germogliarono. Ebbero entrambi alto senso di pietà per tutte le umane
miserie; ma la pietà del poeta che gridava ai quattro venti:
Je hais l'oppression d'une haine profonde,
e che scrisse questo mirabile verso:
Fais en priant le tour des misères du monde,
fu più operosa: quella dell'altro fu forse più caritatevole, perchè
abbracciava oppressi ed oppressori ad un tempo.
L'Hugo fu così cattivo ragionatore come fu buon poeta, e volle far del
filosofo a dispetto della natura, che avevagli dato il pensar vasto e
magnifico, non il pensar chiaro e preciso; e però la sua metafisica
rimase sempre, come fu detto, _une métaphysique rudimentaire_. Come
il Manzoni avesse per questo rispetto, e mirabili, le qualità che
mancarono all'Hugo, abbiam veduto a suo luogo. Ciò nondimeno bisogna
pur riconoscere che l'Hugo, non solo comprese molte cose, ma molte
ancora ne presentì; che egli riuscì a tradurre meravigliosamente in
fantasmi parecchi concetti filosofici; e che il suo pensiero si muove
attraverso la intera creazione con una forza e un'agilità di cui sono
pochissimi esempii. Chi vuol vedere la differenza che passa tra la
virtù critica dell'Hugo e la virtù critica del Manzoni, confronti il
Saggio del primo sopra Shakespeare con la Lettera del secondo sopra le
unità drammatiche, o col Discorso intorno al romanzo storico.
In arte l'Hugo tende al romanzesco, al paradossale, al mostruoso;
trionfa nell'antitesi; dice che la vera poesia consiste nell'armonia
dei contrarii; fa cominciare dall'apparizion del grottesco una nuova
èra del mondo; detesta la sobrietà, che gli pare virtù da servitore
e non da poeta; produce, fin che vive, con abbondanza miracolosa, e
lascia, morendo, tanto d'inedito quanto potrebbe bastare a più d'un
vivo; il Manzoni detesta il romanzesco, il paradossale, il mostruoso;
fugge l'antitesi; dice che la poesia dev'essere tratta dal cuore,
deve esprimersi non solo con sincerità, ma, ancora, con semplicità,
e che una delle più belle facoltà sue si esercita nell'attirar
l'attenzione sopra fatti morali che non si potrebbero osservare senza
ripugnanza[83]; non s'impaccia col grottesco, bastandogli il brutto;
ha la sobrietà, anche letteraria, in conto di assai buona virtù;
produce poco, e cessa quasi di produrre essendo ancor giovane, e quando
molt'altro si aspettava ancora da lui.
I _Promessi Sposi_ vincono, a mio parere, e di molto, _Notre Dame de
Paris_, i _Misérables_, i _Travailleurs de la mer_ e tutti gli altri
romanzi dell'Hugo; ma l'Hugo è, sempre a parer mio, e sebbene ci sia in
lui non poco del Cavalier Marino, assai maggior poeta del Manzoni; ed
è tale perchè la sua coscienza è una coscienza essenzialmente poetica,
perchè egli pensa consuetamente per via d'immagini e di fantasmi,
perchè sente e giudica poeticamente la vita ed il mondo. L'anima del
poeta, quale egli l'ha e la vuole, partecipa della natura del dio
panteistico, penetra e si spande in tutte le cose, attraverso ai tempi
e agli spazii.
O poëtes sacrés, échevelés, sublimes,
Allez et répandez vos âmes sur les cimes,
Sur les sommets de neige en butte aux aquilons,
Sur les déserts pieux où l'esprit se recueille,
Sur les bois que l'automne emporte feuille à feuille,
Sur les lacs endormis dans l'ombre des vallons!
. . . . . . . . . . . . . . .
Si vous avez en vous, vivantes et pressées,
Un monde intérieur d'images, et de pensées.
De sentiments, d'amour, d'ardente passion,
Pour féconder ce monde échangez-le sans cesse
Avec l'autre univers visible qui vous presse!
Mêlez toute votre âme à la création.
Perciò egli non ha nè ripugnanze nè ritrosie che gli facciano escludere
cosa alcuna dagli sterminati dominii della poesia. Adora la natura
con quello stesso fervor religioso con cui adora l'umanità, e spazia
attraverso a tutti i secoli, a tutti i climi, a tutte le storie,
raccogliendo con egual reverenza e con egual compiacimento, nello
instancabile verso, le voci e gli echi della Giudea e dell'ultimo
Oriente, di Grecia e di Roma, dei castelli e delle corti medievali,
della odierna piazza tumultuante, accoppiando miti classici a leggende
cristiane, spingendo dietro ai passi degli antichi Re e degli antichi
profeti i cavalieri erranti e le lacere plebi.
E quanto al romanticismo più propriamente, l'Hugo voleva che l'arte
romantica fosse una specie di foresta vergine, quanto più si possa dire
diversa da quel bene spartito e ben pettinato giardino di Versailles, a
cui paragonava l'arte classica: il Manzoni non voleva foresta vergine
e non voleva nemmeno il giardino di Versailles; voleva, direi, un
giardino inglese.
Giunti a questo punto possiam fare, in due parole, un po' d'epilogo,
e dire, o piuttosto ripetere, che il romanticismo del Manzoni non è
quello che d'ordinario si crede; che esso è più e meno del comune,
secondo che si guardi ai principii o alle deviazioni; che far del
Manzoni il capo del romanticismo italiano è, per molti rispetti,
giusto, ma non così giusto come lasciarlo solo nel luogo ov'egli stesso
s'è posto, e dove, pur troppo, sembra che abbia a rimaner solo un bel
pezzo.

XI.
Questo _pur troppo_, che m'è sdrucciolato dalla penna, si trascina
dietro un po' di coda.
Col vento che tira non ci sarebbe da meravigliare se qualcheduno
saltasse su un dì o l'altro a gridare di punto in bianco: Già che
si torna a tante cose, torniamo anche al Manzoni, cioè al suo modo
d'intender l'arte e di praticarla. Un tal grido potrebbe trovare molte
orecchie aperte, ed echeggiare in molti spiriti, per più ragioni, e tra
l'altre per questa, che in fatto di letteratura, e non di letteratura
soltanto, noi (dico noi, così di qua come di là dall'Alpi) siamo
finalmente riusciti alla confusione babelica. Il realismo, con le sue
due varietà del verismo e del naturalismo, dopo aver tutto occupato
il traffico nazionale ed internazionale, s'è ammazzato da sè, a furia
d'intemperanza e d'insensatezza. Il plasticismo dei Parnassiani fu
rovinato il giorno in cui si fece, o, per dir meglio, si rifece la non
difficile scoperta che le arti di cui esso aveva voluto appropriarsi
il magistero e l'officio, fanno molto meglio ciò ch'esso fa molto
peggio. Lo psicologismo dei così detti anatomisti d'anime è venuto
terribilmente a noja a furia di analisi infinitesimali, di rilievi
micrometrici, di arzigogoli e di sofismi. I decadenti sono forse
decaduti un po' troppo. Gl'impressionisti non impressionano abbastanza.
Il preraffaellismo pittorico e letterario è, più che altro, un
capriccio e un giuoco di artisti a spasso. Il simbolismo, fra tanti
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