Foscolo, Manzoni, Leopardi: saggi - 13
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questo proposito. Altra è la bellezza della donna, altra la bellezza
dell'opera d'arte; altre le ragioni della commozione che produce in
noi la prima, altre le ragioni della commozione che produce in noi
la seconda; ma non è possibile avere così vivo senso della bellezza
della persona umana, com'ebbe il Leopardi, senz'avere in pari tempo
un qualche senso delle arti figurative. Al Leopardi, più che il senso
interno, fece difetto l'esterno. Gli occhi vulnerati e stanchi non
concedevano al poeta tutto il godimento di cui l'animo sarebbe stato
capace; e più di una volta, per certo, egli si tenne dallo andar
ricercando ciò che non avrebbe potuto contemplare senza preoccupazione
e tormento. Però scriveva da Firenze a Pietro Brighenti: «Firenze non
sarebbe certamente il luogo ch'io sceglierei per consumar questa vita.
Ma durando ancora la mia debolezza degli occhi, e però non avendo io
ancora potuto vedere le tante cose rare e notabili di questa città,
mi fermo tuttavia qui, perchè, se partissi, il viaggio sarebbe stato
_quasi inutile_»[217]. Lo Schopenhauer che questa miseria non conobbe,
nè la più parte dell'altre che afflissero il cantore della _Ginestra_,
fu, in Germania e in Italia, e pertutto ov'ebbe a trovarsi, un
appassionato e diligente visitatore di chiese, di gallerie, di musei:
e da quadri e da statue, che più d'una volta gl'inspirarono versi,
trasse argomenti a conferma delle proprie dottrine. Alcune arti il
Leopardi amò presso a poco a quel modo che amò le donne, platonicamente
vagheggiandole nella fantasia; ma questo amor gli fu caro, ed egli
pensava con angoscia al tempo in cui
Ogni beltate di natura o d'arte
diverrebbe inanime e muta al suo spirito[218].
Se ricordiamo che l'arte del ballo fu definita una scultura mobile e
vivente; se consideriamo che quest'arte sembra inventata a bella posta
per accrescere seduzione e dare ogni maggiore spicco alla bellezza e
alla grazia muliebre; intenderemo perchè tanto piacesse al Leopardi
lo spettacolo coreografico: nè ci meraviglieremo che al fratello
Carlo scrivesse: «Ti dico in genere che una donna nè col canto nè con
altro qualunque mezzo può tanto innamorare un uomo quanto col ballo;
il quale pare che comunichi alle sue forme un non so che di divino,
ed al suo corpo una forza, una facoltà più che umana... Insomma,
credimi, che se tu vedessi una di queste ballerine in azione, ho tanto
concetto dei tuoi propositi anterotici, che ti darei per cotto al primo
momento...»[219].
Del sentimento che della natura ebbe il nostro poeta intendo parlar
più oltre di proposito, e vedremo allora quanto esteso e di che natura
fosse il godimento estetico di lui rispetto a quella. Vediamo per ora
altre parti del nostro argomento.
Nel campo estetico del Leopardi il passato ha, senz'alcun dubbio,
più parte che il presente; più il pensiero e il sentimento che la
sensazione. Le dolcezze maggiori egli le deriva dai ricordi e dalle
immaginazioni; ma per quanto si sdegni contro il vero, ha pur vivo il
senso di quella che dicesi bellezza intellettuale e non men vivo il
senso della bellezza morale. Nessun poeta mai parlò della virtù con
accento più appassionato e più sincero, pur giudicandola con Bruto una
vana larva, cui si volge a tergo il pentimento. Alla sorella Paolina
scriveva nel gennajo del 1823: «la virtù, la sensibilità, la grandezza
d'animo sono non solamente le uniche consolazioni de' nostri mali, ma
anche i soli beni possibili in questa vita»[220]. Era opinione sua «che
la condizione dei buoni sia migliore di quella de' cattivi, perchè le
grandi e splendide illusioni non appartengono a questa gente»[221]. Ed
è notissima quella stanza dei _Paralipomeni della Batracomiomachia_, i
quali son pure composizione degli ultimi anni del poeta, morto oramai a
ogni altra fede, a ogni altro amore:
Bella virtù, qualor di te s'avvede,
Come per lieto avvenimento esulta
Lo spirto mio: nè da sprezzar ti crede
Se in topi anche sii tu nutrita e culta.
Alla bellezza tua ch'ogni altra eccede,
O nota e chiara, o ti ritrovi occulta,
Sempre si prostra: e non pur vera e salda,
Ma imaginata ancor, di te si scalda[222].
Ecco la virtù intesa come una forma della bellezza, anzi come quella
bellezza che vince ogni altra; ed ecco la morale che il Leopardi
talvolta confuse con la sensitività e la pietà[223], identificata,
quasi alla maniera del Fichte e del Herbart, con la estetica.
Del gusto del Leopardi per la poesia fanno dimostrazion sufficiente
la vita e le opere, e non mancherà altra occasion di discorrerne:
basti qui fare un cenno del piacere vivissimo che quella gli dava, e
sempre gli diede, sino quasi all'estremo suo giorno. Il 30 d'aprile
del 1817 scriveva al Giordani: «Non mi concede ella di leggere
ora Omero, Virgilio, Dante e gli altri sommi? Io non so se potrei
astenermene, perchè leggendoli provo un diletto da non esprimere con
parole, e spessissimo mi succede di starmene tranquillo, e, pensando
a tutt'altro, sentire qualche verso di autor Classico che qualcuno
della mia famiglia mi recita a caso, palpitare immantinente e vedermi
forzato di tener dietro a quella poesia»[224]. Passati da quel tempo
quasi vent'anni, il poeta augurava, come la più grande delle venture,
al Pepoli di poter diventare _canuto amante_ della poesia, cioè di
seguitare ad amarla da vecchio come l'amava da giovane.
Il Leopardi ebbe vivo e profondo il sentimento del sublime. Il _Bruto
Minore_, l'_Infinito_, il _Canto notturno di un pastore errante
dell'Asia_, la _Ginestra_, lasciano nell'anima una impression di
sublime che più non si cancella; e così pure qualcuna delle prose,
come il _Cantico del gallo silvestre_. Sublime il concetto che il
poeta ha del perpetuo flusso delle cose, e il suo rappresentarsi la
vita come un conflitto tragico fra il destino e l'uomo. Fu da qualcuno
asserito che chi ha il senso del sublime non può avere il senso del
ridicolo. Lo Shakespeare li ebbe entrambi in grado eminente. Non dirò
che il Leopardi, attissimo a sentire il tragico, sentisse egualmente
il ridicolo e il comico: le satire sue sono a volte acute e mordaci,
ma non fanno ridere. Tuttavia un certo senso del comico non gli si può
negare, il quale più specialmente si lascia scorgere in taluna delle
sue operette morali, come la _Scommessa di Prometeo_ e il _Copernico_.
Certo, per questo rispetto, ei non si potrebbe paragonare ad Arrigo
Heine. Può essergli in qualche modo paragonato per l'ironia; ma non
conobbe, come il tedesco, sebbene affermi di conoscerla, quella che
si rivolge contro il proprio suo autore. E non si può dire che molto
conoscesse l'umore, il quale potrebb'anche essere definito un senso del
comico nel tragico, e che a giudizio del Bahnsen, il più intero forse e
conseguente dei pessimisti, è la sola forma di pensiero e di sentimento
che convenga all'uomo superiore[225].
Il campo estetico di ciascun di noi varia continuamente, si allarga, si
restringe, si offusca, si rischiara, è in istrettissima relazione con
l'età, le occupazioni, lo stato d'animo, la salute, l'ambiente fisico e
morale. Quello del Leopardi variò molto e spesso, e s'andò restringendo
e offuscando più presto di quanto suole avvenire nel corso normale
della vita. E con esso variò la natura e la misura del godimento
estetico.
Il Leopardi, sebbene fu infelicissimo, non fu però di quegli estremi
infelici che non pajono aver senso se non del dolore, e tanto solamente
vivono quanto soffrono. Il Leopardi fu, per non breve numero d'anni,
e anche sotto l'aggravarsi del male, largamente capace di quelli che
si addimandano piaceri superiori; e giustamente così si addimandano,
perchè, come già osservava il Maupertuis, durano più degli altri,
e perchè (come nota uno scrittore contemporaneo) si possono più
agevolmente e più a lungo far rivivere nella memoria[226]. Dalla stessa
sua complessione il Leopardi, a cui gli stoici del resto insegnavano
a disprezzare i piaceri volgari, era inclinato a cercare soltanto i
piaceri superiori: e qui si vede come certo stato abituale di debolezza
organica, e certo grado di malattia, possano, dando certo necessario
indirizzo alle occupazioni e alla vita, favorire il genio e le sue
manifestazioni.
Senza voler punto escludere i piaceri inferiori, gli è tuttavia fuor
di dubbio che i piaceri superiori sono in estetica i più importanti,
sono i piaceri estetici per eccellenza. Il Leopardi non gustò tutto il
possibile piacere estetico, nè v'è uomo atto a tutto gustarlo; ma quel
tanto, e fu pur molto, ch'egli gustò, gustò lungamente, profondamente.
E da ciò ebbe a venire non poco sollievo a' suoi mali; e fors'egli,
che ogni altro piacere ebbe in conto di negativo, non fu lontano dalla
opinione del Hartmann che, contraddicendo allo Schopenhauer, assevera
l'indole positiva del piacere estetico. Non m'indugerò a noverare gli
elementi di sì fatto piacere nel Leopardi, bastandomi di avvertire
che il fantastico, il sentimentale, l'associativo, prevalgono, a mio
credere, su tutti gli altri.
Nel terzo e quarto capitolo del _Parini_ il Leopardi considera ed
enumera le condizioni che si richiedono a poter gustare il piacere
estetico. Ci vuole innanzi tutto quella interezza d'animo e quella
sensitività, che, non solamente vengono a mancare con gli anni in
ciascun uomo, ma sono ancora scemate, secondo l'opinion del poeta,
dalla scienza, dalla esperienza, dalle infermità e dalle altre
traversie della vita. Gli antichi gustarono quel piacere assai meglio
di noi, perchè «ad essere gagliardamente mosso dal bello e dal grande
immaginato, fa mestieri credere che vi abbia nella vita umana alcun
che di grande e di bello vero, e che il poetico del mondo non sia
tutto favola»[227]. Chi vive in città grande difficilmente potrà
ricevere dalla natura o dalle arti «alcun sentimento tenero o generoso,
alcun'immagine sublime o leggiadra. Perciocchè poche cose sono tanto
contrarie a quello stato dell'animo che ci fa capaci di tali diletti,
quanto la conversazione di questi uomini, lo strepito di questi luoghi,
lo spettacolo della magnificenza vana, della leggerezza delle menti,
della falsità perpetua, delle cure misere, e dell'ozio più misero,
che vi regnano»[228]. Ancora, per essere capace di quel godimento,
l'animo dev'essere riposato, sgombro di male passioni e di basse
preoccupazioni, e sopra tutto aperto e penetrabile. Il poeta ebbe ad
osservare più di una volta che anche agli animi meglio disposti da
natura a ricevere que' sentimenti teneri e generosi, quelle immagini
sublimi e leggiadre, «intervengono moltissimi tempi di freddezza,
noncuranza, languidezza d'animo, impenetrabilità, e disposizione tale,
che, mentre dura, li rende o conformi o simili agli altri detti dianzi,
e ciò per diversissime cause, intrinseche o estrinseche, appartenenti
allo spirito o al corpo, transitorie o durevoli»[229]. Di ciò ebbe
a fare esperienza lo stesso poeta, e ne lasciò documento così nelle
lettere come nei versi, e più di proposito nel _Risorgimento_.
A chiudere questo capitolo possono venire opportune alcune brevissime
considerazioni generali suggerite dal detto sin qui. Il Leopardi è
in estetica un intellettualista. La dottrina del puro bello formale,
quale comunemente s'intende, non può essere dottrina sua. Per lui, ciò
che dicesi contenenza, non solo non può essere, com'è per la scuola
realistica in genere, e per la herbartiana in ispecie, indifferente;
ma è anzi la cosa capitale, il proprio subbietto dell'arte; sebbene
poi egli curi tanto la forma e la tecnica quanto la neglesse la scuola
hegeliana. Per questo rispetto egli si accorda con lo Schopenhauer
e col Hartmann. Agli hegeliani si accosta quando pone il bello della
fantasia, o vogliam dire dell'arte, sopra il bello della natura; ma
se ne allontana di molto quando al bello astratto e generale prepone
l'individuato e concreto. Egli è anche da dire un ottimista estetico
tutte le volte che giudica bello il mondo considerato in se stesso;
tale cioè, secondo il concetto dello Schopenhauer e del Hartmann, che,
preso quale oggetto di pura e disinteressata contemplazione, produce
in noi più impressioni piacevoli che dispiacevoli. Il Bahnsen è un
pessimista anche in estetica. Da ultimo è da notare che pel Leopardi
l'estetica e l'edonistica sono strettamente congiunte: le care
illusioni hanno un doppio valore, eudemonistico ed estetico; le arti
non hanno altro fine che di mitigare l'umana infelicità.
CAPITOLO III.
IL LEOPARDI E LA MUSICA.
Di tutte le arti, la musica forse è quella che più vale a temperare
ed assopire il dolore, a rasserenar l'animo, e a trarlo in certa
quale maniera fuori del mondo e fuor di sè stesso. Gli antichi
simboleggiarono la sua virtù di penetrazione e la quasi onnipotenza del
fascino nel mito di Orfeo, che si trae dietro, al suono della lira, le
fiere e le piante e i sassi; e nei miti affini di Amfione e di Arione.
Pitagora conobbe in lei una possente medicina, non meno del corpo che
dell'anima; e molti riscontri ha nelle storie il caso di Saulle, di
cui Davide calmava le furie con le note dell'arpa. Platone e Aristotele
la giudicarono parte nobile ed importante della educazione; e tutte le
religioni se ne giovarono più e meno; e più che tutte il cristianesimo,
in quell'arduo e delicato suo magistero di allacciare, penetrare,
conquidere gli animi. Gli antichi Egizii posero la musica tra le
divinità. Apollo inventò la lira, Minerva il flauto, Pane la siringa;
Santa Cecilia divenne l'avvocata e la protettrice dei musici. Le sfere
si girano al suono di una armonia ineffabile: il paradiso cristiano
echeggia di perpetui e dolcissimi canti; e dalla terra talvolta i puri
e gli eletti gli ascoltano in un rapimento, e nell'ora della morte ne
ricevono consolazione e letizia suprema.
Il Leopardi sentì vivamente, squisitamente la musica; ma poichè non
tutti coloro che la sentono molto la sentono a un modo, bisogna vedere
in che modo il Leopardi l'abbia sentita. Nessun'altr'arte sembra gli
procurasse mai emozioni così profonde, godimento così pieno ed intenso.
«La musica, se non è la mia prima, è certo una mia gran passione, e
dev'esserlo di tutte le anime capaci di entusiasmo», scriveva egli
nell'aprile del 1820 al Brighenti[230]. Tale passione non fu conosciuta
dal padre, il quale anzi ostentava un certo disprezzo pei _trilli e
le cavatine_; nè si sa che l'abbia conosciuta la madre, la quale, del
resto, dovendo attendere al governo non meno del patrimonio che della
famiglia, non avrebbe di certo potuto secondarla, quando pure l'avesse
avuta; ma fu passione comune alla più parte dei figliuoli. Di Carlo
sappiamo che una volta corse a piedi (e c'è un bel tratto) da Recanati
ad Ancona pel solo gusto di udirvi la Malibran; e in una sua lettera
al fratello leggiamo: «A Sinigaglia io bolliva d'idee e di sensazioni,
e il canto della Lorenzani m'insegnava nuovi segreti del cuore»[231].
E di questa o di altra cantante pare s'innamorasse[232]. La Paolina
si dilettò molto di musica e ne fu anche molto intendente. Luigi, il
quartogenito, che non ebbe mai il capo allo studio, e morì giovane di
ventun anno, accoppiava il gusto della musica a quello del tornio, e
sonava, dicono, molto bene un flauto di bossolo che s'era fabbricato da
sè.
Della virtù pressochè soprannaturale della musica parla più
distintamente il Leopardi in due delle sue poesie; cioè nell'_Aspasia_,
e in quella intitolata _Sopra il ritratto di una bella donna, scolpito
nel monumento sepolcrale della medesima_. Nella prima leggiamo:
Raggio divino al mio pensiero apparve,
Donna, la tua beltà. Simile effetto
Fan la bellezza e i musicali accordi,
Ch'alto mistero d'ignorati Elisi
Paion sovente rivelar.
Nella seconda:
Desiderii infiniti
E visïoni altere
Crea nel vago pensiere,
Per natural virtù, dotto concento;
Onde per mar delizioso, arcano
Erra lo spirto umano,
Quasi come a diporto
Ardito notator per l'Oceàno:
Ma se un discorde accento
Fere l'orecchio, in nulla
Torna quel paradiso in un momento.
In entrambi i componimenti il poeta accosta la musica alla bellezza,
e all'una e all'altra attribuisce la stessa virtù. Nel primo
l'accostamento è immediato: nel secondo il poeta accenna agli effetti
della musica dopo aver detto di quelli della bellezza che pajon _segno
e sicura spene_
Di sovrumani fati,
Di fortunati regni e d'aurei mondi.
Disse il Leibniz la musica essere un secreto esercizio aritmetico
dell'anima, la quale conta senza saper di contare[233]; e il Kant
poneva fra le arti belle la musica solo in grazia dei rapporti
matematici che passan fra i suoni, e dall'occulto apprendimento di tali
rapporti credeva nascesse il piacere. Lo Stendhal affermò quello della
musica essere piacere puramente fisiologico. Uno scrittore musicale
di molto grido, Edoardo Hanslick, ebbe a sostenere, ora è quasi mezzo
secolo, in un libro che fece molto romore, e suscitò molte dispute, non
ancora finite, la musica non avere altra sostanza e altro contenuto che
di suoni, e non doversi proporre, nè di esprimere, nè di far nascere
sentimenti[234]. Senza voler punto entrare nella difficilissima e forse
mal posta questione[235], gli è certo che il Leopardi non si accorda
con nessuno di costoro, mentre s'accorda con altri, ch'ebbero della
musica altro sentimento ed altro concetto. Lo Schiller disse la musica
esprimere l'anima; lo Schelling, contener essa le forme delle idee
eterne; Giorgio Hegel, essere il suo dominio superiore a quello della
vita reale; il Lamennais, significare la musica i tipi eterni delle
cose; il Vischer, esser essa lo stesso ideale. Il Beethoven giudicava
le rivelazioni della musica superiori a quelle della filosofia; e il
Gounod, ricordando una rappresentazione dell'_Otello_ del Rossini, alla
quale aveva assistito nella sua fanciullezza, scriveva: «Il me sembla
que je me trouvais dans un temple, et que quelque chose de divin allait
m'être révélé». Il Carlyle definì la musica una specie di linguaggio
inarticolato e imperscrutabile, il quale ci guida sino all'orlo
dell'infinito, e ci lascia, per un istante, spingere nell'abisso lo
sguardo; e il Poe disse che nella musica vien fatto all'animo umano di
creare bellezza soprannaturale.
Con tutti costoro ben s'accorda il Leopardi; e più ancora s'accorda
forse con lo Schumann e col Berlioz, nella fantasia dei quali
l'immagine della donna amata si compenetrava e fondeva con la immagine
musicale. Ma più che con essi tutti consente (ed è cosa che vuol
essere da noi particolarmente notata) con lo Schopenhauer, col quale
in tante altre cose, senza saperlo, consente. Lo Schopenhauer fu
appassionatissimo di musica, e ne scrisse con mente di filosofo e
cuore di artista. La disse arte meravigliosa; la più possente delle
arti; quella che immediatamente esprime il volere, cioè il principio
essenziale ed universale che si appalesa nelle singole e individuate
esistenze; quella che ci fa penetrare sino al cuore delle cose; occulta
filosofia. Egli disse ancora il mondo potersi chiamare una musica
corporata; e la musica _parlare a noi di altri mondi e migliori;
rivelarci da lungi un paradiso inaccessibile; essere la panacea di
tutti i mali_[236]. Poeta e filosofo esprimon quasi le stesse idee,
parlan quasi lo stesso linguaggio.
Notiam di passata che di tutte le arti la musica è quella che deve
meglio confarsi allo spirito e al sentimento dei pessimisti, se pure
la inclinazione dell'animo non è scemata in essi dalla imperfezione
degli organi. Le altre arti, senza poterne escludere nemmen la poesia,
troppo ritengono dell'aborrita realtà, e, per quanto facciano, non
è possibile mai che se ne emancipino in tutto. La musica si scioglie
da ogni servaggio d'imitazione, e crea un mondo libero e nuovo ch'è
tutto in lei, e realizza ed esprime, con magistero miracoloso, tutto
ciò che negli animi nostri è più vago, più lieve, più occulto. Sembra
davvero talvolta che essa si redima, se non dal tempo, dallo spazio,
dalla ferrea legge di causalità, dalle condizioni tutte dell'essere
transitorio e finito. Alcune vecchie leggende, ove si narra di rapiti
e di estatici che, ascoltando una musica arcana, vissero secoli,
stimandoli ore, esprimono immaginosamente questa cara illusione.
Abbiamo veduto come il Leopardi accompagni insieme la bellezza muliebre
e la musica, e ne faccia quasi una coppia estetica. Se la donna appare
agli occhi suoi più seducente nella danza che nel canto, non è già che
anche nel canto non gli appaja seducentissima. Egli non può ripensare
alla Silvia senza riudire quel dolce canto di lei, onde
Sonavan le quïete
Stanze e le vie dintorno;
e se ricorda come la Nerina (non importa ora cercare se la Nerina e la
Silvia sieno due persone diverse o una sola) iva _danzando_, splendente
di gioja e del caro lume di giovinezza, si duole di non più udir quella
voce, di cui bastava un lontano accento a scolorargli il viso. Vagando
per la campagna la notte, il giovane poeta aveva sussultato, udendo
improvvisamente l'arguto canto d'ignota fanciulla:
qualor nella placida quïete
D'estiva notte, il vagabondo passo
Di rincontro alle ville soffermando,
L'erma terra contemplo, e di fanciulla
Che all'opre di sua man la notte aggiunge
Odo sonar nelle romite stanze
L'arguto canto, a palpitar si move
Questo mio cor di sasso[237].
E se più tardi il poeta ebbe ad innamorarsi di Marianna Brighenti,
valentissima cantatrice che lasciò le scene quando appunto la
fama di lei più veniva crescendo, chi vorrà non credere che in
quell'innamoramento avesse parte la musica, che fu _galeotta_ di tanti
altri amori?
Il Leopardi non ebbe voce da spendere nel canto, non sonò nessuno
strumento, non conobbe punto la tecnica musicale; e non tanto godette
di ciò onde assai volte più sogliono godere i musicisti di professione,
cioè a dire dei suoni per sè e della composizione e degli accenti loro,
quanto delle idee e dei sentimenti che quelli possono mettere in moto.
Il piacer suo nasceva, la più gran parte, dal complicato e secreto
lavoro delle associazioni psichiche, e la musica egli giudicava con i
soli criterii del sentimento e della fantasia: ciò che spiega alcune
particolarità del suo gusto.
Certo, un'anima dotata d'intenso e profondo sentimento musicale non può
non rimanere offesa da tutto che offende l'arte diletta; onde,
se un discorde accento
Fere l'orecchio, in nulla
Torna quel paradiso in un momento;
ma quell'anima può anche, in determinate condizioni, compiacersi
di una musica rudimentale e difettosa, purchè gliene vengano le
suggestioni opportune, purchè si lasci tradurre in linguaggio di
associazioni. Secondo congiunture di tempi, di luoghi, di sentimenti
e d'immaginazioni, uno di questi organetti che vanno scerpando per
le vie le composizioni dei grandi e piccoli maestri, può straziare
o accarezzare un orecchio delicato; può strappare altrui un grido
d'indegnazione, o spremere dagli occhi le lacrime. Il Leopardi fu,
sembra, prontissimo a ricevere la suggestion musicale, anche quando
provenisse da povera fonte, e tenace poi nel serbarne il ricordo. Ne
abbiamo un bello e curioso esempio in questi versi della _Sera del dì
di festa_:
Ahi per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell'artigian che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello:
E fieramente mi si stringe il core,
Al pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia.
. . . . . . . . . . . . . . .
Nella mia prima età, quando s'aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s'udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.
Notisi come quel rozzo canto che passa nella via, e lontanando muore,
súbito sollevi la mente del poeta alla considerazione di tutto ciò che
passa e muore nel mondo; ond'egli ricorda gli avi famosi e il grande
impero di Roma, e finalmente conclude:
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Errerebbe a mio giudizio di grosso chi in tutto questo, invece di un
procedimento di associazioni, che nell'animo del Leopardi è spontaneo e
naturalissimo, non vedesse altro che una volata lirica e un artifizio
retorico. Qui l'impression musicale deriva la massima parte del suo
valore estetico dall'abituale contenuto della coscienza[238].
E così in molti altri casi. Nelle _Ricordanze_, udendo il suon dell'ora
che dalla torre del borgo gli arreca il vento, il poeta rammenta:
Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin.
Nella canzone _Alla sua donna_ sono ricordate
le valli ove suona
Del faticoso agricoltore il canto;
e nel _Tramonto della luna_ il canto del carrettiere che saluta
con mesta melodia
L'estremo albor della fuggente luce
Che dianzi gli fu duce.
Egli è certo dunque che nella musica il Leopardi dovette pregiare,
non tanto i miracoli di una maestria consumata, la ostentazion di
una virtuosità rigogliosa, creatrice e vincitrice di ostacoli, le
complicazioni e le pompe teatrali; quanto l'arcano e dolce linguaggio
che parla alle anime, l'intima virtù suscitatrice di sentimenti
ineffabili e di estatici sogni: non tanto un'arte governata da
principii e da regole, quanto una magia atta a celare o trasfigurare
l'aborrito vero. In Roma, in Firenze, altrove, egli ebbe molte
occasioni di assistere allo spettacolo dell'opera, e ne fa ricordo
in taluna delle sue lettere; ma non ne parla con quell'ammirazione
con cui parla del ballo. Da Roma scrisse una volta al fratello Carlo:
«Abbiamo in Argentina la _Donna del Lago_, la qual musica eseguita da
voci sorprendenti è una cosa stupenda, e potrei piangere ancor io, se
il dono delle lagrime non mi fosse stato sospeso»; ma si lagnava della
_intollerabile e mortale_ lunghezza dello spettacolo, che durava sei
ore[239]. A Bologna, dagli amici si lasciava _tirare_ all'opera[240];
ma a Firenze non andò ad ascoltare il _Danao_ del suo concittadino
Persiani, perchè i suoi occhi in teatro pativano troppo[241]. Ma oltre
il disagio degli occhi, c'erano probabilmente altre ragioni. L'animo
del poeta doveva sentirsi meno aperto alle impressioni dell'arte divina
in un pubblico teatro, in mezzo al barbaglio dei lumi, al cinguettio
di un uditorio frivolo e distratto, alle indecorose pompe della vanità;
in luogo insomma dove non è possibile vero raccoglimento: e più di una
volta forse gli parve quella una profanazione. A creder questo m'induce
un luogo del _Parini_, notabile, non solo rispetto al sentimento
che il poeta ebbe della musica in particolare, ma ancora rispetto
al sentimento ch'ebbe dell'arte in generale. Quivi egli comincia
dicendo: «Io penso che le opere ragguardevoli di pittura, scultura ed
architettura, sarebbero godute assai meglio se fossero distribuite per
le province, nelle città mediocri e piccole; che accumulate, come sono,
nelle metropoli: dove gli uomini, parte pieni d'infiniti pensieri,
parte occupati in mille spassi, e coll'animo connaturato, o costretto,
anche mal suo grado, allo svagamento, alla frivolezza e alla vanità,
rarissime volte sono capaci dei piaceri intimi dello spirito». Poi,
dopo un'altra giusta osservazione circa la sazietà che producono troppe
bellezze adunate insieme[242], soggiunge: «Il simile dico della musica:
la quale nelle altre città non si trova esercitata così perfettamente,
e con tale apparato come nelle grandi; dove gli animi sono meno
disposti alle commozioni mirabili di quell'arte, e meno, per dir così,
musicali, che in ogni altro luogo»[243].
Ippocrate serbò ricordo di un certo Nicanore, che cadeva in deliquio
alle note di un flauto. Una sensitività musicale così esagerata è assai
rara, sebbene se ne conosca qualch'altro esempio; ma dovrebbe, sembra,
dell'opera d'arte; altre le ragioni della commozione che produce in
noi la prima, altre le ragioni della commozione che produce in noi
la seconda; ma non è possibile avere così vivo senso della bellezza
della persona umana, com'ebbe il Leopardi, senz'avere in pari tempo
un qualche senso delle arti figurative. Al Leopardi, più che il senso
interno, fece difetto l'esterno. Gli occhi vulnerati e stanchi non
concedevano al poeta tutto il godimento di cui l'animo sarebbe stato
capace; e più di una volta, per certo, egli si tenne dallo andar
ricercando ciò che non avrebbe potuto contemplare senza preoccupazione
e tormento. Però scriveva da Firenze a Pietro Brighenti: «Firenze non
sarebbe certamente il luogo ch'io sceglierei per consumar questa vita.
Ma durando ancora la mia debolezza degli occhi, e però non avendo io
ancora potuto vedere le tante cose rare e notabili di questa città,
mi fermo tuttavia qui, perchè, se partissi, il viaggio sarebbe stato
_quasi inutile_»[217]. Lo Schopenhauer che questa miseria non conobbe,
nè la più parte dell'altre che afflissero il cantore della _Ginestra_,
fu, in Germania e in Italia, e pertutto ov'ebbe a trovarsi, un
appassionato e diligente visitatore di chiese, di gallerie, di musei:
e da quadri e da statue, che più d'una volta gl'inspirarono versi,
trasse argomenti a conferma delle proprie dottrine. Alcune arti il
Leopardi amò presso a poco a quel modo che amò le donne, platonicamente
vagheggiandole nella fantasia; ma questo amor gli fu caro, ed egli
pensava con angoscia al tempo in cui
Ogni beltate di natura o d'arte
diverrebbe inanime e muta al suo spirito[218].
Se ricordiamo che l'arte del ballo fu definita una scultura mobile e
vivente; se consideriamo che quest'arte sembra inventata a bella posta
per accrescere seduzione e dare ogni maggiore spicco alla bellezza e
alla grazia muliebre; intenderemo perchè tanto piacesse al Leopardi
lo spettacolo coreografico: nè ci meraviglieremo che al fratello
Carlo scrivesse: «Ti dico in genere che una donna nè col canto nè con
altro qualunque mezzo può tanto innamorare un uomo quanto col ballo;
il quale pare che comunichi alle sue forme un non so che di divino,
ed al suo corpo una forza, una facoltà più che umana... Insomma,
credimi, che se tu vedessi una di queste ballerine in azione, ho tanto
concetto dei tuoi propositi anterotici, che ti darei per cotto al primo
momento...»[219].
Del sentimento che della natura ebbe il nostro poeta intendo parlar
più oltre di proposito, e vedremo allora quanto esteso e di che natura
fosse il godimento estetico di lui rispetto a quella. Vediamo per ora
altre parti del nostro argomento.
Nel campo estetico del Leopardi il passato ha, senz'alcun dubbio,
più parte che il presente; più il pensiero e il sentimento che la
sensazione. Le dolcezze maggiori egli le deriva dai ricordi e dalle
immaginazioni; ma per quanto si sdegni contro il vero, ha pur vivo il
senso di quella che dicesi bellezza intellettuale e non men vivo il
senso della bellezza morale. Nessun poeta mai parlò della virtù con
accento più appassionato e più sincero, pur giudicandola con Bruto una
vana larva, cui si volge a tergo il pentimento. Alla sorella Paolina
scriveva nel gennajo del 1823: «la virtù, la sensibilità, la grandezza
d'animo sono non solamente le uniche consolazioni de' nostri mali, ma
anche i soli beni possibili in questa vita»[220]. Era opinione sua «che
la condizione dei buoni sia migliore di quella de' cattivi, perchè le
grandi e splendide illusioni non appartengono a questa gente»[221]. Ed
è notissima quella stanza dei _Paralipomeni della Batracomiomachia_, i
quali son pure composizione degli ultimi anni del poeta, morto oramai a
ogni altra fede, a ogni altro amore:
Bella virtù, qualor di te s'avvede,
Come per lieto avvenimento esulta
Lo spirto mio: nè da sprezzar ti crede
Se in topi anche sii tu nutrita e culta.
Alla bellezza tua ch'ogni altra eccede,
O nota e chiara, o ti ritrovi occulta,
Sempre si prostra: e non pur vera e salda,
Ma imaginata ancor, di te si scalda[222].
Ecco la virtù intesa come una forma della bellezza, anzi come quella
bellezza che vince ogni altra; ed ecco la morale che il Leopardi
talvolta confuse con la sensitività e la pietà[223], identificata,
quasi alla maniera del Fichte e del Herbart, con la estetica.
Del gusto del Leopardi per la poesia fanno dimostrazion sufficiente
la vita e le opere, e non mancherà altra occasion di discorrerne:
basti qui fare un cenno del piacere vivissimo che quella gli dava, e
sempre gli diede, sino quasi all'estremo suo giorno. Il 30 d'aprile
del 1817 scriveva al Giordani: «Non mi concede ella di leggere
ora Omero, Virgilio, Dante e gli altri sommi? Io non so se potrei
astenermene, perchè leggendoli provo un diletto da non esprimere con
parole, e spessissimo mi succede di starmene tranquillo, e, pensando
a tutt'altro, sentire qualche verso di autor Classico che qualcuno
della mia famiglia mi recita a caso, palpitare immantinente e vedermi
forzato di tener dietro a quella poesia»[224]. Passati da quel tempo
quasi vent'anni, il poeta augurava, come la più grande delle venture,
al Pepoli di poter diventare _canuto amante_ della poesia, cioè di
seguitare ad amarla da vecchio come l'amava da giovane.
Il Leopardi ebbe vivo e profondo il sentimento del sublime. Il _Bruto
Minore_, l'_Infinito_, il _Canto notturno di un pastore errante
dell'Asia_, la _Ginestra_, lasciano nell'anima una impression di
sublime che più non si cancella; e così pure qualcuna delle prose,
come il _Cantico del gallo silvestre_. Sublime il concetto che il
poeta ha del perpetuo flusso delle cose, e il suo rappresentarsi la
vita come un conflitto tragico fra il destino e l'uomo. Fu da qualcuno
asserito che chi ha il senso del sublime non può avere il senso del
ridicolo. Lo Shakespeare li ebbe entrambi in grado eminente. Non dirò
che il Leopardi, attissimo a sentire il tragico, sentisse egualmente
il ridicolo e il comico: le satire sue sono a volte acute e mordaci,
ma non fanno ridere. Tuttavia un certo senso del comico non gli si può
negare, il quale più specialmente si lascia scorgere in taluna delle
sue operette morali, come la _Scommessa di Prometeo_ e il _Copernico_.
Certo, per questo rispetto, ei non si potrebbe paragonare ad Arrigo
Heine. Può essergli in qualche modo paragonato per l'ironia; ma non
conobbe, come il tedesco, sebbene affermi di conoscerla, quella che
si rivolge contro il proprio suo autore. E non si può dire che molto
conoscesse l'umore, il quale potrebb'anche essere definito un senso del
comico nel tragico, e che a giudizio del Bahnsen, il più intero forse e
conseguente dei pessimisti, è la sola forma di pensiero e di sentimento
che convenga all'uomo superiore[225].
Il campo estetico di ciascun di noi varia continuamente, si allarga, si
restringe, si offusca, si rischiara, è in istrettissima relazione con
l'età, le occupazioni, lo stato d'animo, la salute, l'ambiente fisico e
morale. Quello del Leopardi variò molto e spesso, e s'andò restringendo
e offuscando più presto di quanto suole avvenire nel corso normale
della vita. E con esso variò la natura e la misura del godimento
estetico.
Il Leopardi, sebbene fu infelicissimo, non fu però di quegli estremi
infelici che non pajono aver senso se non del dolore, e tanto solamente
vivono quanto soffrono. Il Leopardi fu, per non breve numero d'anni,
e anche sotto l'aggravarsi del male, largamente capace di quelli che
si addimandano piaceri superiori; e giustamente così si addimandano,
perchè, come già osservava il Maupertuis, durano più degli altri,
e perchè (come nota uno scrittore contemporaneo) si possono più
agevolmente e più a lungo far rivivere nella memoria[226]. Dalla stessa
sua complessione il Leopardi, a cui gli stoici del resto insegnavano
a disprezzare i piaceri volgari, era inclinato a cercare soltanto i
piaceri superiori: e qui si vede come certo stato abituale di debolezza
organica, e certo grado di malattia, possano, dando certo necessario
indirizzo alle occupazioni e alla vita, favorire il genio e le sue
manifestazioni.
Senza voler punto escludere i piaceri inferiori, gli è tuttavia fuor
di dubbio che i piaceri superiori sono in estetica i più importanti,
sono i piaceri estetici per eccellenza. Il Leopardi non gustò tutto il
possibile piacere estetico, nè v'è uomo atto a tutto gustarlo; ma quel
tanto, e fu pur molto, ch'egli gustò, gustò lungamente, profondamente.
E da ciò ebbe a venire non poco sollievo a' suoi mali; e fors'egli,
che ogni altro piacere ebbe in conto di negativo, non fu lontano dalla
opinione del Hartmann che, contraddicendo allo Schopenhauer, assevera
l'indole positiva del piacere estetico. Non m'indugerò a noverare gli
elementi di sì fatto piacere nel Leopardi, bastandomi di avvertire
che il fantastico, il sentimentale, l'associativo, prevalgono, a mio
credere, su tutti gli altri.
Nel terzo e quarto capitolo del _Parini_ il Leopardi considera ed
enumera le condizioni che si richiedono a poter gustare il piacere
estetico. Ci vuole innanzi tutto quella interezza d'animo e quella
sensitività, che, non solamente vengono a mancare con gli anni in
ciascun uomo, ma sono ancora scemate, secondo l'opinion del poeta,
dalla scienza, dalla esperienza, dalle infermità e dalle altre
traversie della vita. Gli antichi gustarono quel piacere assai meglio
di noi, perchè «ad essere gagliardamente mosso dal bello e dal grande
immaginato, fa mestieri credere che vi abbia nella vita umana alcun
che di grande e di bello vero, e che il poetico del mondo non sia
tutto favola»[227]. Chi vive in città grande difficilmente potrà
ricevere dalla natura o dalle arti «alcun sentimento tenero o generoso,
alcun'immagine sublime o leggiadra. Perciocchè poche cose sono tanto
contrarie a quello stato dell'animo che ci fa capaci di tali diletti,
quanto la conversazione di questi uomini, lo strepito di questi luoghi,
lo spettacolo della magnificenza vana, della leggerezza delle menti,
della falsità perpetua, delle cure misere, e dell'ozio più misero,
che vi regnano»[228]. Ancora, per essere capace di quel godimento,
l'animo dev'essere riposato, sgombro di male passioni e di basse
preoccupazioni, e sopra tutto aperto e penetrabile. Il poeta ebbe ad
osservare più di una volta che anche agli animi meglio disposti da
natura a ricevere que' sentimenti teneri e generosi, quelle immagini
sublimi e leggiadre, «intervengono moltissimi tempi di freddezza,
noncuranza, languidezza d'animo, impenetrabilità, e disposizione tale,
che, mentre dura, li rende o conformi o simili agli altri detti dianzi,
e ciò per diversissime cause, intrinseche o estrinseche, appartenenti
allo spirito o al corpo, transitorie o durevoli»[229]. Di ciò ebbe
a fare esperienza lo stesso poeta, e ne lasciò documento così nelle
lettere come nei versi, e più di proposito nel _Risorgimento_.
A chiudere questo capitolo possono venire opportune alcune brevissime
considerazioni generali suggerite dal detto sin qui. Il Leopardi è
in estetica un intellettualista. La dottrina del puro bello formale,
quale comunemente s'intende, non può essere dottrina sua. Per lui, ciò
che dicesi contenenza, non solo non può essere, com'è per la scuola
realistica in genere, e per la herbartiana in ispecie, indifferente;
ma è anzi la cosa capitale, il proprio subbietto dell'arte; sebbene
poi egli curi tanto la forma e la tecnica quanto la neglesse la scuola
hegeliana. Per questo rispetto egli si accorda con lo Schopenhauer
e col Hartmann. Agli hegeliani si accosta quando pone il bello della
fantasia, o vogliam dire dell'arte, sopra il bello della natura; ma
se ne allontana di molto quando al bello astratto e generale prepone
l'individuato e concreto. Egli è anche da dire un ottimista estetico
tutte le volte che giudica bello il mondo considerato in se stesso;
tale cioè, secondo il concetto dello Schopenhauer e del Hartmann, che,
preso quale oggetto di pura e disinteressata contemplazione, produce
in noi più impressioni piacevoli che dispiacevoli. Il Bahnsen è un
pessimista anche in estetica. Da ultimo è da notare che pel Leopardi
l'estetica e l'edonistica sono strettamente congiunte: le care
illusioni hanno un doppio valore, eudemonistico ed estetico; le arti
non hanno altro fine che di mitigare l'umana infelicità.
CAPITOLO III.
IL LEOPARDI E LA MUSICA.
Di tutte le arti, la musica forse è quella che più vale a temperare
ed assopire il dolore, a rasserenar l'animo, e a trarlo in certa
quale maniera fuori del mondo e fuor di sè stesso. Gli antichi
simboleggiarono la sua virtù di penetrazione e la quasi onnipotenza del
fascino nel mito di Orfeo, che si trae dietro, al suono della lira, le
fiere e le piante e i sassi; e nei miti affini di Amfione e di Arione.
Pitagora conobbe in lei una possente medicina, non meno del corpo che
dell'anima; e molti riscontri ha nelle storie il caso di Saulle, di
cui Davide calmava le furie con le note dell'arpa. Platone e Aristotele
la giudicarono parte nobile ed importante della educazione; e tutte le
religioni se ne giovarono più e meno; e più che tutte il cristianesimo,
in quell'arduo e delicato suo magistero di allacciare, penetrare,
conquidere gli animi. Gli antichi Egizii posero la musica tra le
divinità. Apollo inventò la lira, Minerva il flauto, Pane la siringa;
Santa Cecilia divenne l'avvocata e la protettrice dei musici. Le sfere
si girano al suono di una armonia ineffabile: il paradiso cristiano
echeggia di perpetui e dolcissimi canti; e dalla terra talvolta i puri
e gli eletti gli ascoltano in un rapimento, e nell'ora della morte ne
ricevono consolazione e letizia suprema.
Il Leopardi sentì vivamente, squisitamente la musica; ma poichè non
tutti coloro che la sentono molto la sentono a un modo, bisogna vedere
in che modo il Leopardi l'abbia sentita. Nessun'altr'arte sembra gli
procurasse mai emozioni così profonde, godimento così pieno ed intenso.
«La musica, se non è la mia prima, è certo una mia gran passione, e
dev'esserlo di tutte le anime capaci di entusiasmo», scriveva egli
nell'aprile del 1820 al Brighenti[230]. Tale passione non fu conosciuta
dal padre, il quale anzi ostentava un certo disprezzo pei _trilli e
le cavatine_; nè si sa che l'abbia conosciuta la madre, la quale, del
resto, dovendo attendere al governo non meno del patrimonio che della
famiglia, non avrebbe di certo potuto secondarla, quando pure l'avesse
avuta; ma fu passione comune alla più parte dei figliuoli. Di Carlo
sappiamo che una volta corse a piedi (e c'è un bel tratto) da Recanati
ad Ancona pel solo gusto di udirvi la Malibran; e in una sua lettera
al fratello leggiamo: «A Sinigaglia io bolliva d'idee e di sensazioni,
e il canto della Lorenzani m'insegnava nuovi segreti del cuore»[231].
E di questa o di altra cantante pare s'innamorasse[232]. La Paolina
si dilettò molto di musica e ne fu anche molto intendente. Luigi, il
quartogenito, che non ebbe mai il capo allo studio, e morì giovane di
ventun anno, accoppiava il gusto della musica a quello del tornio, e
sonava, dicono, molto bene un flauto di bossolo che s'era fabbricato da
sè.
Della virtù pressochè soprannaturale della musica parla più
distintamente il Leopardi in due delle sue poesie; cioè nell'_Aspasia_,
e in quella intitolata _Sopra il ritratto di una bella donna, scolpito
nel monumento sepolcrale della medesima_. Nella prima leggiamo:
Raggio divino al mio pensiero apparve,
Donna, la tua beltà. Simile effetto
Fan la bellezza e i musicali accordi,
Ch'alto mistero d'ignorati Elisi
Paion sovente rivelar.
Nella seconda:
Desiderii infiniti
E visïoni altere
Crea nel vago pensiere,
Per natural virtù, dotto concento;
Onde per mar delizioso, arcano
Erra lo spirto umano,
Quasi come a diporto
Ardito notator per l'Oceàno:
Ma se un discorde accento
Fere l'orecchio, in nulla
Torna quel paradiso in un momento.
In entrambi i componimenti il poeta accosta la musica alla bellezza,
e all'una e all'altra attribuisce la stessa virtù. Nel primo
l'accostamento è immediato: nel secondo il poeta accenna agli effetti
della musica dopo aver detto di quelli della bellezza che pajon _segno
e sicura spene_
Di sovrumani fati,
Di fortunati regni e d'aurei mondi.
Disse il Leibniz la musica essere un secreto esercizio aritmetico
dell'anima, la quale conta senza saper di contare[233]; e il Kant
poneva fra le arti belle la musica solo in grazia dei rapporti
matematici che passan fra i suoni, e dall'occulto apprendimento di tali
rapporti credeva nascesse il piacere. Lo Stendhal affermò quello della
musica essere piacere puramente fisiologico. Uno scrittore musicale
di molto grido, Edoardo Hanslick, ebbe a sostenere, ora è quasi mezzo
secolo, in un libro che fece molto romore, e suscitò molte dispute, non
ancora finite, la musica non avere altra sostanza e altro contenuto che
di suoni, e non doversi proporre, nè di esprimere, nè di far nascere
sentimenti[234]. Senza voler punto entrare nella difficilissima e forse
mal posta questione[235], gli è certo che il Leopardi non si accorda
con nessuno di costoro, mentre s'accorda con altri, ch'ebbero della
musica altro sentimento ed altro concetto. Lo Schiller disse la musica
esprimere l'anima; lo Schelling, contener essa le forme delle idee
eterne; Giorgio Hegel, essere il suo dominio superiore a quello della
vita reale; il Lamennais, significare la musica i tipi eterni delle
cose; il Vischer, esser essa lo stesso ideale. Il Beethoven giudicava
le rivelazioni della musica superiori a quelle della filosofia; e il
Gounod, ricordando una rappresentazione dell'_Otello_ del Rossini, alla
quale aveva assistito nella sua fanciullezza, scriveva: «Il me sembla
que je me trouvais dans un temple, et que quelque chose de divin allait
m'être révélé». Il Carlyle definì la musica una specie di linguaggio
inarticolato e imperscrutabile, il quale ci guida sino all'orlo
dell'infinito, e ci lascia, per un istante, spingere nell'abisso lo
sguardo; e il Poe disse che nella musica vien fatto all'animo umano di
creare bellezza soprannaturale.
Con tutti costoro ben s'accorda il Leopardi; e più ancora s'accorda
forse con lo Schumann e col Berlioz, nella fantasia dei quali
l'immagine della donna amata si compenetrava e fondeva con la immagine
musicale. Ma più che con essi tutti consente (ed è cosa che vuol
essere da noi particolarmente notata) con lo Schopenhauer, col quale
in tante altre cose, senza saperlo, consente. Lo Schopenhauer fu
appassionatissimo di musica, e ne scrisse con mente di filosofo e
cuore di artista. La disse arte meravigliosa; la più possente delle
arti; quella che immediatamente esprime il volere, cioè il principio
essenziale ed universale che si appalesa nelle singole e individuate
esistenze; quella che ci fa penetrare sino al cuore delle cose; occulta
filosofia. Egli disse ancora il mondo potersi chiamare una musica
corporata; e la musica _parlare a noi di altri mondi e migliori;
rivelarci da lungi un paradiso inaccessibile; essere la panacea di
tutti i mali_[236]. Poeta e filosofo esprimon quasi le stesse idee,
parlan quasi lo stesso linguaggio.
Notiam di passata che di tutte le arti la musica è quella che deve
meglio confarsi allo spirito e al sentimento dei pessimisti, se pure
la inclinazione dell'animo non è scemata in essi dalla imperfezione
degli organi. Le altre arti, senza poterne escludere nemmen la poesia,
troppo ritengono dell'aborrita realtà, e, per quanto facciano, non
è possibile mai che se ne emancipino in tutto. La musica si scioglie
da ogni servaggio d'imitazione, e crea un mondo libero e nuovo ch'è
tutto in lei, e realizza ed esprime, con magistero miracoloso, tutto
ciò che negli animi nostri è più vago, più lieve, più occulto. Sembra
davvero talvolta che essa si redima, se non dal tempo, dallo spazio,
dalla ferrea legge di causalità, dalle condizioni tutte dell'essere
transitorio e finito. Alcune vecchie leggende, ove si narra di rapiti
e di estatici che, ascoltando una musica arcana, vissero secoli,
stimandoli ore, esprimono immaginosamente questa cara illusione.
Abbiamo veduto come il Leopardi accompagni insieme la bellezza muliebre
e la musica, e ne faccia quasi una coppia estetica. Se la donna appare
agli occhi suoi più seducente nella danza che nel canto, non è già che
anche nel canto non gli appaja seducentissima. Egli non può ripensare
alla Silvia senza riudire quel dolce canto di lei, onde
Sonavan le quïete
Stanze e le vie dintorno;
e se ricorda come la Nerina (non importa ora cercare se la Nerina e la
Silvia sieno due persone diverse o una sola) iva _danzando_, splendente
di gioja e del caro lume di giovinezza, si duole di non più udir quella
voce, di cui bastava un lontano accento a scolorargli il viso. Vagando
per la campagna la notte, il giovane poeta aveva sussultato, udendo
improvvisamente l'arguto canto d'ignota fanciulla:
qualor nella placida quïete
D'estiva notte, il vagabondo passo
Di rincontro alle ville soffermando,
L'erma terra contemplo, e di fanciulla
Che all'opre di sua man la notte aggiunge
Odo sonar nelle romite stanze
L'arguto canto, a palpitar si move
Questo mio cor di sasso[237].
E se più tardi il poeta ebbe ad innamorarsi di Marianna Brighenti,
valentissima cantatrice che lasciò le scene quando appunto la
fama di lei più veniva crescendo, chi vorrà non credere che in
quell'innamoramento avesse parte la musica, che fu _galeotta_ di tanti
altri amori?
Il Leopardi non ebbe voce da spendere nel canto, non sonò nessuno
strumento, non conobbe punto la tecnica musicale; e non tanto godette
di ciò onde assai volte più sogliono godere i musicisti di professione,
cioè a dire dei suoni per sè e della composizione e degli accenti loro,
quanto delle idee e dei sentimenti che quelli possono mettere in moto.
Il piacer suo nasceva, la più gran parte, dal complicato e secreto
lavoro delle associazioni psichiche, e la musica egli giudicava con i
soli criterii del sentimento e della fantasia: ciò che spiega alcune
particolarità del suo gusto.
Certo, un'anima dotata d'intenso e profondo sentimento musicale non può
non rimanere offesa da tutto che offende l'arte diletta; onde,
se un discorde accento
Fere l'orecchio, in nulla
Torna quel paradiso in un momento;
ma quell'anima può anche, in determinate condizioni, compiacersi
di una musica rudimentale e difettosa, purchè gliene vengano le
suggestioni opportune, purchè si lasci tradurre in linguaggio di
associazioni. Secondo congiunture di tempi, di luoghi, di sentimenti
e d'immaginazioni, uno di questi organetti che vanno scerpando per
le vie le composizioni dei grandi e piccoli maestri, può straziare
o accarezzare un orecchio delicato; può strappare altrui un grido
d'indegnazione, o spremere dagli occhi le lacrime. Il Leopardi fu,
sembra, prontissimo a ricevere la suggestion musicale, anche quando
provenisse da povera fonte, e tenace poi nel serbarne il ricordo. Ne
abbiamo un bello e curioso esempio in questi versi della _Sera del dì
di festa_:
Ahi per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell'artigian che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello:
E fieramente mi si stringe il core,
Al pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia.
. . . . . . . . . . . . . . .
Nella mia prima età, quando s'aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s'udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.
Notisi come quel rozzo canto che passa nella via, e lontanando muore,
súbito sollevi la mente del poeta alla considerazione di tutto ciò che
passa e muore nel mondo; ond'egli ricorda gli avi famosi e il grande
impero di Roma, e finalmente conclude:
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Errerebbe a mio giudizio di grosso chi in tutto questo, invece di un
procedimento di associazioni, che nell'animo del Leopardi è spontaneo e
naturalissimo, non vedesse altro che una volata lirica e un artifizio
retorico. Qui l'impression musicale deriva la massima parte del suo
valore estetico dall'abituale contenuto della coscienza[238].
E così in molti altri casi. Nelle _Ricordanze_, udendo il suon dell'ora
che dalla torre del borgo gli arreca il vento, il poeta rammenta:
Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin.
Nella canzone _Alla sua donna_ sono ricordate
le valli ove suona
Del faticoso agricoltore il canto;
e nel _Tramonto della luna_ il canto del carrettiere che saluta
con mesta melodia
L'estremo albor della fuggente luce
Che dianzi gli fu duce.
Egli è certo dunque che nella musica il Leopardi dovette pregiare,
non tanto i miracoli di una maestria consumata, la ostentazion di
una virtuosità rigogliosa, creatrice e vincitrice di ostacoli, le
complicazioni e le pompe teatrali; quanto l'arcano e dolce linguaggio
che parla alle anime, l'intima virtù suscitatrice di sentimenti
ineffabili e di estatici sogni: non tanto un'arte governata da
principii e da regole, quanto una magia atta a celare o trasfigurare
l'aborrito vero. In Roma, in Firenze, altrove, egli ebbe molte
occasioni di assistere allo spettacolo dell'opera, e ne fa ricordo
in taluna delle sue lettere; ma non ne parla con quell'ammirazione
con cui parla del ballo. Da Roma scrisse una volta al fratello Carlo:
«Abbiamo in Argentina la _Donna del Lago_, la qual musica eseguita da
voci sorprendenti è una cosa stupenda, e potrei piangere ancor io, se
il dono delle lagrime non mi fosse stato sospeso»; ma si lagnava della
_intollerabile e mortale_ lunghezza dello spettacolo, che durava sei
ore[239]. A Bologna, dagli amici si lasciava _tirare_ all'opera[240];
ma a Firenze non andò ad ascoltare il _Danao_ del suo concittadino
Persiani, perchè i suoi occhi in teatro pativano troppo[241]. Ma oltre
il disagio degli occhi, c'erano probabilmente altre ragioni. L'animo
del poeta doveva sentirsi meno aperto alle impressioni dell'arte divina
in un pubblico teatro, in mezzo al barbaglio dei lumi, al cinguettio
di un uditorio frivolo e distratto, alle indecorose pompe della vanità;
in luogo insomma dove non è possibile vero raccoglimento: e più di una
volta forse gli parve quella una profanazione. A creder questo m'induce
un luogo del _Parini_, notabile, non solo rispetto al sentimento
che il poeta ebbe della musica in particolare, ma ancora rispetto
al sentimento ch'ebbe dell'arte in generale. Quivi egli comincia
dicendo: «Io penso che le opere ragguardevoli di pittura, scultura ed
architettura, sarebbero godute assai meglio se fossero distribuite per
le province, nelle città mediocri e piccole; che accumulate, come sono,
nelle metropoli: dove gli uomini, parte pieni d'infiniti pensieri,
parte occupati in mille spassi, e coll'animo connaturato, o costretto,
anche mal suo grado, allo svagamento, alla frivolezza e alla vanità,
rarissime volte sono capaci dei piaceri intimi dello spirito». Poi,
dopo un'altra giusta osservazione circa la sazietà che producono troppe
bellezze adunate insieme[242], soggiunge: «Il simile dico della musica:
la quale nelle altre città non si trova esercitata così perfettamente,
e con tale apparato come nelle grandi; dove gli animi sono meno
disposti alle commozioni mirabili di quell'arte, e meno, per dir così,
musicali, che in ogni altro luogo»[243].
Ippocrate serbò ricordo di un certo Nicanore, che cadeva in deliquio
alle note di un flauto. Una sensitività musicale così esagerata è assai
rara, sebbene se ne conosca qualch'altro esempio; ma dovrebbe, sembra,
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