Foscolo, Manzoni, Leopardi: saggi - 11

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dice di non sapere se i sentimenti suoi nascano, o meno, da malattia,
ma soggiunge che _il corpo è l'uomo_[121]; e già molt'anni innanzi, ne'
versi alla sorella, il poeta aveva esclamato che in gracile petto non
si chiude anima pura. Contro l'opinion di coloro che stimano il genio
consistere in un temperamento e in un equilibrio di tutte le potenze
interiori, egli stimava difficilmente potersi far cose grandi dall'uomo
«in cui le qualità dello spirito sieno bilanciate e proporzionate fra
loro; se bene elle fossero o straordinarie o grandi oltre modo»[122]; e
però sembra credesse essere certa sproporzione, o eccesso, o deformità
che si voglia dire, se non la condizione essenziale del genio, una
delle condizioni sue più principali e necessarie.
Degno di lode mi sembra ancora il libro del Patrizi in quanto obbedisce
a _intendimenti naturalistici_, e oppone una critica informata a soli
principii scientifici (comunque erronea talvolta nella pratica) alla
critica sentimentale, ch'è la peggiore delle critiche, anzi la negazion
d'ogni critica; e non esito a dire che un utile avvertimento viene
da esso ai letterati di professione, i quali s'avrebbero a persuadere
oramai che la storia, la biografia e la critica letteraria non possono
d'ora in avanti far di meno dei lumi e degli ajuti della psicologia
normale e patologica, e, più in generale ancora, della biologia.
Dal Patrizi dissento in parte nella questione, ancor essa tanto
controversa, del pessimismo leopardiano. Ho detto già di non credere
che il pessimismo sia, tutto e sempre, una _suggestion metafisica
della impotenza fisica_, un puro fenomeno _psicastenico_; sebbene
riconosca assai volentieri _l'inevitabile riverbero delle condizioni
organiche sul colore della filosofia_[123]. Che tale sia stato in
parte e, se si vuole, in molta parte, il pessimismo del Leopardi,
consento, e in qualche modo fu consentito anche da lui; perchè non fu
egli così saldo in ribattere la opinion di coloro che prima cagione
d'ogni sua filosofia dicevano essere i proprii suoi mali, che una
consimile opinione non portasse alcuna volta egli stesso. Nel _Dialogo
di Plotino e di Porfirio_, questi, ch'è pur sempre, sott'altro nome,
il poeta, parla della propria _disposizione_, cioè dell'avere in
fastidio la vita, e del conoscere che tutto è menzogna, illusione e
vanità, come di cosa che a lui proviene, _in buona parte, da qualche
mal essere corporale_[124]. E al Giordani aveva scritto sino dal
giugno del 1820, durante un breve tempo, in cui gli era sembrato di
potersi pur riavere: «Ma se bene anche oggi io mi sento il cuore come
uno stecco o uno spino, contuttociò sono migliorato in questo ch'io
giudico risolutamente di poter guarire, e che il mio travaglio deriva
più dal sentimento dell'infelicità mia particolare, che dalla certezza
dell'infelicità universale e necessaria»[125].
Ma il pessimismo non è di una sola maniera, nè ha, checchè possa
dirsi in contrario, una origine sola: e se quello del Leopardi è
prodotto, per una parte assai rilevante, dalla stessa sua complessione
fisica e psichica, e per un'altra parte, certo non piccola, dai casi
della vita, è pur prodotto in qualche misura dall'intelletto e dalla
ragione. Ciò non dovrebbe, parmi, essere così recisamente negato da
quegli scienziati, che avendo fatto il possibile per provare che non
v'è intelligenza nelle origini e nella universa vita del mondo, hanno
per ciò stesso contribuito a far sì che il mondo appaja spregevole e
divenga intollerabile all'intelletto. Dall'affrontarsi del razionale e
dell'irrazionale nasce una forma di pessimismo immediata e necessaria,
perchè la ragione, che non può negare sè stessa, non può, nell'atto
in cui si afferma, non negare il suo contrario. Un mondo irrazionale,
o tale presunto, deve di necessità apparir cattivo alla ragione; come
deve apparir cattivo al sentimento un mondo spoglio di sensitività;
e cattivo, se non pessimo, a tutto l'uomo un mondo che contrasta
agl'istinti e alle aspirazioni proprie della umana natura. Questo
pessimismo prorompe immediatamente dalla coscienza, e non v'è mente
che, pervenuta a certo grado di elevatezza e di amplitudine, non ne
sia capace, e può accompagnarsi con un'indole naturalmente gioconda, e
durare in mezzo a condizioni di vita, per quanto è possibile, riposate
e felici. Quando lo Shakespeare definisce la vita un'ombra che cammina;
e l'assomiglia a un povero commediante, che si pavoneggia e struscia
sulla scena un momento, e poi più non s'ode; e la dice una favola
recitata da un idiota, tutta piena di frastuono e di furore, vuota di
senso e di ragione; e quando afferma che noi siam fatti di quello onde
son fatti i sogni, e che la nostra picciola vita è tutta fasciata di
sonno[126]; è egli proprio necessario ch'altri sia un paranoico, un
lipemaniaco, un ipocondriaco, un degenerato per intendere le parole di
lui e assentire al giudizio? Un certo pessimismo nasce spontaneamente
dall'intelletto fatto autonomo[127]; e se a questo pessimismo non
diamo, per distinguerlo da ogni altro, lirico, religioso, politico,
il nome di filosofico, che molti in fatti gli ricusano, non so davvero
con qual altro nome e' si possa ragionevolmente chiamare. Che si possa
anche questo ridurre, così senz'altro, alla malattia e all'impotenza,
non vedo e non credo[128].
Il pessimismo del Leopardi fu, in parte, pessimismo filosofico. La
contraddizione fra l'idea e la realtà, fra la ragione e la natura fu
da lui chiaramente espressa in una lettera al Giordani, con queste
notabili e testuali parole: «.... questa è la miserabile condizione
dell'uomo e il barbaro insegnamento della ragione, che, i piaceri e
i dolori umani essendo meri inganni, quel travaglio che deriva dalla
certezza della nullità delle cose sia sempre solamente giusto e vero.
E se bene, regolando tutta quanta la nostra vita secondo il sentimento
di questa nullità, finirebbe il mondo, e giustamente saremmo chiamati
pazzi, in ogni modo è formalmente certo che questa sarebbe una pazzia
ragionevole per ogni verso, anzi che a petto suo tutte le saviezze
sarebbero pazzie, giacchè tutto a questo mondo si fa per la semplice e
continua dimenticanza di quella verità universale, che tutto è nulla.
Queste considerazioni io vorrei che facessero arrossire quei poveri
filosofastri che si consolano dello smisurato accrescimento della
ragione, e pensano che la felicità umana sia riposta nella cognizione
del vero, quando non c'è altro vero che il nulla; e questo pensiero,
ed averlo continuamente nell'animo, come la ragione vorrebbe, ci dee
condurre «necessariamente e direttamente a questa disposizione che ho
detto; la quale sarebbe pazzia secondo la natura, e saviezza assoluta e
perfetta secondo la ragione»[129].
Perciò non mi pajono aver ragione nemmanco coloro i quali asseriscono
il pessimismo del Leopardi essere pessimismo lirico puro e semplice,
tutto formato cioè di quel sentimento, o di quella mescolanza di
sentimenti, che i Tedeschi dicono _Weltschmerz_, e da taluno in Italia
fu chiamato dolore universale. Il pessimismo del Leopardi è moltiforme:
lirico, empirico, civile, filosofico; e negli schemi d'inni cristiani
che il poeta tracciava negli anni dell'adolescenza sono segni patenti
di pessimismo religioso. Lirico è il pessimismo che il poeta esprime
in tanti suoi versi, e quando per bocca di un pastore errante dell'Asia
esclama:
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.
Ma civile era apparso il pessimismo dei primi canti; e il pessimismo
che si serba empirico finchè si contenta di affermare l'eccesso e
la universalità del male, diventa filosofico allorquando passa ad
affermare la necessità ineluttabile di esso e la impossibilità del
rimedio. Perciò mi pare avesse ragione il Caro quando diceva che il
Leopardi dà del problema della vita una soluzione da cui è cancellato,
per quanto è possibile, il sentimento prettamente individuale, e che
quella soluzione egli innalza ed allarga sin là dove incomincia la
filosofia; e conclude con questo giudizio: «Par ce trait, que nous
voulions mettre en lumière, il se distingue nettement de l'école
des lyriques et des désespérés, où l'on a prétendu le confondre; il
n'a qu'une parenté lointaine avec les Rolla qui l'ont réclamé pour
leur frère: il les dépasse par la hauteur du point de vue cosmique
auquel il s'élève; il a voulu être philosophe, il a mérité de l'être,
il l'est»[130]. Di questa stessa opinione doveva essere ancora lo
Schopenhauer, quando giudicava nessuno mai aver trattato il tema del
dolore e della nullità della vita così profondamente ed interamente
come fece il Leopardi[131]. Resterebbe a vedersi se il Leopardi,
il quale notò «che molte conclusioni cavate da ottimi discorsi
non reggono all'esperienza»[132]; e si fece beffe della filosofia
aprioristica[133]; e disse di non ignorare «che l'ultima conclusione
che si ricava dalla filosofia vera e perfetta si è, che non bisogna
filosofare»[134]; e non immaginò nessuna metafisica; e non iscrisse
nè il romanzo dell'io, nè quello dell'idea, nè quello della volontà; e
disse tutto essere arcano fuor che il nostro dolore; non sia più vero
e maggior filosofo di molti che tengono largo, e forse troppo largo,
posto nella storia della filosofia antica e moderna.
Se, togliendoci fuori dalle angustie e dalle intolleranze delle
scuole, noi teniamo essere filosofo colui che si affatica a formarsi un
concetto generale della vita e del mondo; colui che, avido di verità,
si sforza di conoscerla, senza riguardo alcuno al vantaggio proprio o
d'altrui, e che, conosciutala, ancorchè se ne senta offeso, ancorchè
se ne lagni, la manifesta e mantiene, sfidando biasimi, dileggi e
pericoli; se, dico, tale sia il nostro giudizio, dovremo dire che
il Leopardi, a dispetto di ogni mancamento o incertezza della sua
dottrina, fu un filosofo, e che non si può, senza ingiustizia, negargli
di filosofo il nome[135].

CAPITOLO II.
ESTETICA GENERALE DEL LEOPARDI.
L'uomo non ha veramente altro desiderio che della felicità, e non
desidera e non ama la vita se non quanto la reputa strumento o
subbietto di quella. Scopo, non pur principale, ma unico della vita è
il piacere; e il vivere, per sè stesso, non è bisogno, perchè disgiunto
dalla felicità non è bene. Tale in sostanza il pensiero del Leopardi,
quale si trova chiaramente espresso in molti luoghi delle poesie e
delle prose[136]: e questo pensiero bisogna aver presente per ben
intendere la estetica di lui.
Quanto è naturale nell'uomo il desiderio della felicità, altrettanto
la infelicità è necessaria. «Certo l'ultima causa dell'essere non è
la felicità; perocchè niuna cosa è felice»[137]. «Nessuna cosa credo
sia più manifesta e palpabile, che l'infelicità necessaria di tutti i
viventi. Se questa infelicità non è vera, tutto è falso, e lasciamo pur
questo e qualunque altro discorso»[138]. Il poeta credette alcun tempo
che della infelicità propria fossero in tutto o in parte colpevoli gli
uomini stessi[139]; ma la opinione in cui da ultimo si fermò fu che
la infelicità nasce, non già da umano pervertimento, ma da necessità
di natura[140]. La sciagura umana è irreparabile, e non ha conforto
altro che il riso[141]. La felicità è impossibile anche per un momento
solo; tale il concetto del _Dialogo di Malambruno e di Farfarello_.
Non è possibile non patir sempre, sia per fatto degli uomini, o per
fatto della natura; tale il concetto del _Dialogo della natura e di un
Islandese_. La infelicità è maggiore negli animi più eccellenti; tale
il concetto del _Dialogo della natura e di un'anima_. E la vita è così
fatta che non si potrebbe per nessun modo sopportare, se non fosse
ogni poco interrotta dal sonno: «Tal cosa è la vita, che a portarla,
fa di bisogno ad ora ad ora, deponendola, ripigliare un poco di lena,
e ristorarsi con un gusto e quasi una particella di morte»[142]. Ciò
nondimeno, dicendo che tutti gl'intervalli della vita umana frapposti
ai piaceri e ai dispiaceri sono occupati dalla noja[143]; e che la vita
allora riesce veramente cara, quando, scampatala da un pericolo, ci par
quasi di ricuperarla[144]; e che il solo modo che gli uomini abbiano
di gustare quella tanta felicità che può loro toccare in sorte si è di
rinunziare alla felicità[145]; il poeta viene a riconoscere che sono
nella vita alcuni piaceri (sebbene affermi il piacere esser figlio
d'affanno e il diletto non altro che un uscire di pena[146]), e che la
vita può essere, sia pure in qualche menoma parte, goduta, e che una
qualche felicità, sia pure scarsa, stentata, fuggevole, vi può trovar
luogo.
E in fatti il poeta, ancorchè dica la vita _inutile miseria_ e spoglia
di qualsiasi frutto[147], pure enumera alcuni beni ond'essa vita è
consolata: primo fra tutti la giovinezza, poi l'amore, poi ancora le
dolci illusioni, i felicissimi inganni, i fantasmi consolatori. Qui ci
s'apre naturalmente il passo a discorrere delle idee estetiche di lui.
L'amore fu pel Leopardi, più che altro, una fervente, ossequiosa ed
estatica ammirazione della bellezza sensibile; e in ciò si differenzia
notabilmente da altre forme dell'amore ideale, o, come suol dirsi,
platonico, ove si ostenta di non curare e di non istimare la veste
corporea e caduca dell'anima. Tale ammirazione può raccogliersi da
molti luoghi degli scritti del poeta, cui l'amore della bellezza già
faceva scordare negli anni giovanili l'amor della gloria[148]. _Beltade
onnipossente è maestra d'alto affetto_[149]; sembra rivelare _alto
mistero d'ignorati Elisi_[150]; però che un _caro sguardo_ è tra le
cose mortali la più degna del cielo[151], e la bellezza è, fra noi,
come una _viva immagine_ del cielo, e una fonte inenarrabile d'eccelsi,
immensi pensieri e sensi.
Beltà grandeggia, e pare,
Quale splendor vibrato
Da natura immortal su queste arene,
Di sovrumani fati,
Di fortunati regni e d'aurei mondi
Segno e sicura spene
Dare al mortale stato[152].
E' pare dunque che il Leopardi, il quale sino dall'aprile del 1819
scriveva al Giordani non trovare altra cosa desiderabile nella vita
_se non i diletti del cuore e la contemplazione della bellezza_[153],
giudicasse spettare alla bellezza la dignità suprema, sopra quanto può
essere dall'uomo sentito, compreso, immaginato, ammirato. In ciò egli
si rivela indubitabilmente poeta, e molti furono in ogni tempo i poeti,
e generalmente parlando, gli artisti, che giudicarono nel medesimo
modo. Udiamo Alfredo De Musset:
Or la beauté, c'est tout. Platon l'a dit lui-même:
La beauté sur la terre, est la chose suprême.
C'est pour nous la montrer qu'est faite la clarté.
Rien n'est beau que le vrai, dit un vers respecté;
Et moi, je lui réponds, sans crainte d'un blasphème:
Rien n'est vrai que le beau, rien n'est vrai sans beauté[154].
E udiamo il Baudelaire: «C'est cet admirable, et immortel instinct
du beau, qui nous fait considérer la terre et ses spectacles comme un
aperçu, comme une _correspondance_ du ciel... Ainsi le principe de la
poésie est, strictement et simplement, l'aspiration humaine vers une
beauté supérieure...»[155]. Un filosofo pessimista, il Hartmann, dice
la bellezza essere come l'aureola della vita, e non potere avere altro
scopo se non di consolare della sventura necessaria e irreparabile.
Qual altro scopo è più grande e più _utile_?
Emanuele Kant scopriva maggior bellezza in un semplice ornato che nella
bellissima fra le donne, perchè la bellezza di costei è perturbata
da un elemento di finalità. Oh aberrazioni del preconcetto e del
sistema! Certamente il Leopardi non vide a quel modo. Per lui la più
alta forma della bellezza è per l'appunto la bellezza muliebre. Ma qui
è subito necessaria un'avvertenza, molto importante a ciò che dovrà
esser detto più innanzi. La bellezza che il Leopardi vagheggia nella
donna non è cosa esistente per sè ed in sè; è anzi il riflesso, e come
la individuazione, di una bellezza più alta, che il poeta ateo chiama
divina; di una vera e propria idea di bellezza, che sarebbe senz'altro
una delle idee di Platone, se il poeta non la dicesse talora figlia
della propria mente. Se come Dante fosse stato credente, il Leopardi,
come Dante, avrebbe detto essere la donna adorata
una cosa venuta
Dal cielo in terra a miracol mostrare.
Rileggansi quei noti versi dell'_Aspasia_:
Raggio divino al mio pensiero apparve,
Donna, la tua beltà!
Vagheggia
Il piagato mortal quindi la figlia
Della sua mente, l'amorosa idea.
Che gran parte d'Olimpo in sè racchiude,
Tutta al volto, ai costumi, alla favella
Pari alla donna che il rapito amante
Vagheggiare ed amar confuso estima.
Or questa egli non già, ma quella, ancora
Nei corporali amplessi inchina ed ama.
Da questi versi già si rileva che il Leopardi, in estetica, fu un
idealista, a quello stesso modo (conformità notevole) che fu un
idealista Alfredo De Vigny.
E non poteva esser altro. Il giovinetto che, ignaro ancora dell'_acerbo
indegno mistero delle cose_,
La sua vita ingannevole vagheggia,
E celeste beltà fingendo ammira[156].
s'avvede ben presto che la vita è vedova di bellezza, che il vero è
brutto; e quello stesso bello ch'egli aveva pur tanto ammirato nella
natura, gli si sforma ed offusca allo sguardo. Alfredo De Musset, nella
poesia testè citata, loda il Leopardi di _casto amore per l'aspra
verità_, e di questo amore dice ispirato il poeta; ma noi abbiam
veduto come fluttui l'animo del Leopardi nel far giudizio del vero;
e qui è pur forza riconoscere che, più particolarmente come poeta,
egli pone in diretto contrasto il vero col bello, e questo esalta,
quello deprime[157]. Il vero distrugge i sogni leggiadri, spoglia il
verde alle cose, dic'egli nella canzone al Mai; il vero è il maggior
contrario del bello, soggiunge nella _Comparazione delle sentenze di
Bruto minore e di Teofrasto_[158]. Altrove, alquanto più remissivo,
scriveva: «Certamente il vero non è bello. Nondimeno anche il vero può
spesse volte porgere qualche diletto: e se nelle cose umane il bello
è da preporre al vero, questo, dove manchi il bello, è da preferire ad
ogni altra cosa»[159].
Ma che è insomma il bello? Il Leopardi non s'arrischiò mai di darne
una definizione, e certo vide essere impossibile di trovarne una
che appaghi così il sentimento come la ragione. Non tentò nemmeno di
scoprire o d'inventare un canone di bellezza, e non indagò a quali
condizioni dell'organismo fisico per un verso, dell'organismo psichico
per un altro, risponda la impressione che produce in noi la bellezza
e il godimento che ne deriva. L'estetica non aveva ancora cercato
nella fisiologia e nella psicologia le nuove sue basi; e quella che,
fondata tutta nella metafisica, era sorta e fioriva in Germania, si
può dire che nemmen di nome fosse nota in Italia; dove opera capitale
in sì fatta materia erano pur sempre i ragionamenti _Del bello_, di
Leopoldo Cicognara, stampati la prima volta in Firenze l'anno 1808. In
questo libro si dà qualche contezza delle dottrine del Kant, ma così
scarsa e superficiale come poteva darla un uomo che diceva desiderabile
_un'esatta versione dal tedesco delle opere metafisiche del sig.
Kant per poter bene conoscere le sue idee su questo argomento_: e
il Lessing, il Winckelmann, lo Schiller vi sono nominati appena. La
estetica tedesca cominciò a penetrare in Italia soltanto verso il 1820,
per opera dei romantici[160].
Il Leopardi non dice che cosa sia il bello: egli si contenta di dire
che cosa il bello non è. Il bello non è il vero. Ma poichè il vero
è _ben altra cosa che la natura_[161], potrebbe darsi che il bello
fosse la natura. Questo credette il Leopardi nel tempo in cui scriveva
al Giordani: «Iddio ha fatto tanto bello questo nostro mondo»[162];
e questo ancora seguitò a credere per un pezzo; ma come più ebbe a
riconoscere nel mondo la scena ove si esercita
il brutto
Poter che ascoso a comun danno impera,
e nella natura una nemica; più si tolse da quella credenza, e finì
che disse poco essere il bello che la natura ci offre[163]. E il
bello non è l'utile, anzi è il suo contrario; almeno finchè per utile
s'intende ciò che dagli uomini comunemente s'intende: e qui è curioso
notare come il Leopardi venga a trovarsi d'accordo col Kant, con lo
Schiller, con lo Spencer, per non nominarne altri. Quello _Spettatore
Fiorentino_ che il poeta ebbe un tratto in animo di pubblicare, doveva
esser formato tutto d'idee negative e riuscire un giornale affatto
inutile[164]. Ma qui, per una inversione di ragionamento che trova la
sua piena giustificazione nella dottrina pessimistica del poeta (in
altre dottrine pessimistiche non la troverebbe, o la troverebbe più
difficilmente), l'utile diventa inutile e l'inutile utile. La vita
tutta quanta essendo, insieme col mondo in cui si produce e si agita,
una grandissima e disperatissima inutilità, ne viene di conseguenza
che inutilissime sono le operazioni e preoccupazioni tutte in cui gli
uomini si vengono tuttodì travagliando, con isperanza di far guadagno
e di fruire da ultimo della felicità faticosamente acquistata; e che
solamente utili sono quelle cose e fatiche, le quali arrecando qualche
diletto, fanno sì che gli uomini scordino i mali loro e quasi non
sappian di vivere. Non avendo la vita, per sè medesima, pregio alcuno,
è stolta affatto l'opera di coloro che, senza giovarla altrimenti, si
studiano di farla più lunga[165]; e solo meritano gratitudine coloro
che riescono ad alleviarne in qualche misura il peso e il fastidio. I
travagli hanno questo di buono, che non lasciano luogo alla noja, e non
dan tempo all'uomo di considerare la nullità della vita; ma poi hanno
questo di reo, che a prezzo di dolore ricomperano il benefizio; la qual
cosa non fanno i diletti che diconsi inutili. Sì fatti pensieri sono
dal poeta espressi con molta frequenza, con parole pronte e incisive.
Rileggansi tra l'altro, a questo proposito, i primi venticinque o
trenta versi della poesia _A Carlo Pepoli_, e un passo di lettera al
Giordani, ov'è affermato che il dilettevole è _utile sopra tutti gli
utili_[166], e il già citato preambolo allo _Spettatore Fiorentino_,
ove occorrono queste parole: «Lasciamo stare che, lo scopo finale di
ogni cosa utile essendo il piacere, il quale poi all'ultimo si ottiene
rarissime volte, la nostra privata opinione è che il dilettevole sia
più utile che l'utile»[167].
Ammesso ciò, non solo la letteratura sarà da stimare più utile che
tutte, quante sono, le scienze politiche e sociali, dette dal poeta
_discipline secchissime_[168]; ma le arti in genere saranno da avere
in assai maggior conto che le scienze in genere, e che l'altre forme
tutte, comunque preconizzate, dell'umano lavoro, e dovrannosi riverire
ed amare come sole alleviatrici e consolatrici della nostra sciagura.
Ed ecco che con ciò riman fermato e definito così l'oggetto, come il
fine e l'officio di quelle che il poeta, giovanissimo ancora, aveva
chiamate _care arti divine_[169].
Oggetto principalissimo, per non dire unico, delle arti sarà il
bello; e poichè il bello è il contrario del vero, saranno le vaghe e
dolci immaginazioni che velano il vero, e parano all'uomo, se non la
conoscenza, la _vista impura_[170] di esso. L'artista vive per rivelar
la bellezza. «Lieto, lietissimo vi voglio sempre, o mio Giordani, chè a
questo ci hanno a servire gli studi e la considerazione del Bello che
tutto giorno ci sforziamo d'imitare»[171]. Non è però che il Leopardi
voglia affatto escluso il brutto dall'arte, chè anzi, su questo punto,
egli aveva già contraddetto al Giordani, affermando che l'arte lo deve
pur conoscere e ritrarre, e ricordando che Omero, e Virgilio, ma sopra
tutti Dante, non l'avevano sempre schifato, e che il brutto, _imitato
dall'arte, da questa imitazione piglia facoltà di dilettare_[172]. Ma
insomma, egli mostra di dilettarsene poco, e non ci fissa su l'occhio,
e non ne ragiona volentieri, inconsapevole della nuova importanza
ch'esso stava assumendo nella dialettica di Giorgio Hegel e nella
fantasia e nell'arte dei romantici.
Non è sempre vero quanto affermano alcuni, che i pessimisti sono poco
disposti a veder bellezza nelle cose reali, e inclinati a cercarla
nelle sole finzioni[173]. Ciò non si potrebbe dire, nè di un filosofo
pessimista quale lo Schopenhauer, nè di un poeta pessimista quale
il Leconte de Lisle; ma si può ben dire con la dovuta misura e
circospezione, di molti; ed è consentaneo alla loro natura e alla loro
credenza. Da giovane il Leopardi pensò (probabilmente senza troppo
discutere con sè stesso e ripetendo opinione divulgatissima) che
_ufficio delle belle arti sia d'imitare la natura nel verisimile_[174];
e vedremo ch'egli a così fatta imitazione non rinunziò mai, e che anzi
ebbe sempre l'occhio alla realtà, per modo da dare ai critici occasione
e motivo di parlare del verismo e del realismo di lui; ma, considerata
debitamente ogni cosa, non si può negare che il Leopardi si compiaccia
più della finzione che della realtà, com'è in più particolar modo
provato dalle _Operette morali_, dove le _posizioni_ e i temi sono,
pressochè sempre, non pure ideali, ma fantastici ed impossibili; e come
è ancora provato dalle parole di quella curiosa confessione che una
volta il poeta fece al Jacopssen, di fuggire, cioè, durante la veglia,
le donne che aveva vagheggiate nel sogno[175].
Studii del bello, affetti, immaginazioni, illusioni, il Leopardi vuole
che tutti insieme si adoperino a conforto della infelicità nostra[176].
Egli vive in un perpetuo desiderio di dilettose immagini, rimpiange
i dolci sogni della fanciullezza, non sa darsi pace della giovinezza
perduta e delle care illusioni perdute con quella. Non v'è poeta che
non abbia pianta la giovinezza; ma le ragioni del pianto non sono
le stesse per tutti: e certo i più lamentarono perduta con essa la
facoltà di godere, anzichè la facoltà d'ingannarsi; e qualcuno, come
lo Chateaubriand, non tanto dilesse la giovinezza, quanto detestò
la vecchiaja, vedendo in essa quasi una ingiuria e uno sfregio alla
dignità ed al decoro della persona. Il Leopardi non altra felicità
propriamente persegue con l'inutile desiderio se non quell'una, in
cui l'anima, soggiogata dal _possente errore_ e dagli ameni inganni,
deliziosamente si abbandona, ignara dell'_acerbo indegno mistero delle
cose_, inconscia quasi di sè.
Era quel dolce
E irrevocabil tempo, allor che s'apre
Al guardo giovanil questa infelice
Scena del mondo e gli sorride in vista
Di paradiso[177].
O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! sempre, parlando,
Ritorno a voi; chè per andar di tempo,
Per variar d'affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so[178].
Senza affetti e senza errori gentili la vita è notte a mezzo il
verno[179]; e dileguata la giovinezza, la vita appare abbandonata e
scura, e non si colora più mai d'altra luce, e l'uomo è fatto estraneo
alla terra[180]. Sopra tutte le cose è da aborrir la vecchiezza,
perchè chiusa alle care illusioni; e da aborrir sono i vecchi,
che la giovinezza già per sè fuggitiva si studiano di spegner nei
giovani[181]. Però Consalvo è lieto di morire in sul fior dell'età.
«Finalmente questo mondo è un nulla, e tutto il bene consiste nelle
_care illusioni_», scriveva in età di ventidue anni il Leopardi al
Brighenti[182]. E non molti giorni innanzi aveva scritto al Giordani:
«Io non tengo le illusioni per mere vanità, ma per cose in certo
modo sostanziali, giacchè non sono capricci particolari di questo o
di quello, ma naturali e ingenite essenzialmente in ciascheduno; e
compongono tutta la nostra vita»[183]. In questa opinione durò egli
poi lungamente, salvo qualche contraddizion passeggiera di tanto in
tanto, e salvo ancora che in certi tempi verità e menzogna egli involse
nello stesso disdegno. Non sarà fuor di luogo notare che il fratello
Carlo fu in ciò dello stesso sentire di Giacomo. In una lettera che
il primo scriveva al secondo ai 16 di dicembre del 1822, si legge:
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