Foscolo, Manzoni, Leopardi: saggi - 15

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non ebbe col mondo vegetale la dimestichezza grande ch'ebbe, per citare
un esempio, il Lenau. Non so se in tutti i versi di lui s'incontrino
più di due o tre nomi di fiori. Quanto diverso, per citare un altro
esempio, dal Keats, il quale diceva che il diletto più intenso della
vita egli aveva provato osservando crescere i fiori!
Gli animali tengono nella poesia del Leopardi un po' più di luogo. Le
lepri danzanti al raggio della luna, ricordate nella _Vita solitaria_;
la gallina della _Quiete dopo la tempesta_, che, cessata la pioggia,
torna sulla via e ripete il suo verso; la cauta volpe della canzone
_A un vincitor nel pallone_; la rondinella vigile del _Risorgimento_;
la serpe che si contorce al sole, e il coniglio che torna al covil
cavernoso, e la capra pascente sulle città sepolte, della _Ginestra_;
mostrano una osservazione alquanto più attenta, un animo più impegnato.
Degli uccelli, in più particolar modo, parla il Leopardi con manifesto
compiacimento, e uno de' suoi scritti di prosa s'intitola appunto
_Elogio degli uccelli_. Di questo maggiore interessamento del Leopardi
per gli animali parmi vedere una ragione nel fatto che egli, mentre
riconosceva fra l'uomo e il bruto una certa comunanza, espressa negli
ultimi versi del _Canto notturno di un pastore errante dell'Asia_,
stimava il bruto molto più felice dell'uomo. Non è per questo da
credere ch'egli ricevesse nell'animo quel sentimento di universa
fratellanza a cui giunsero per diversissime vie San Francesco d'Assisi,
lo Schopenhauer, lo Shelley (_cor cordium!_). Nè quello interessamento
giunse mai a inspirargli un canto da poter mettere in qualche modo a
riscontro del bellissimo che lo Swinburne intitolò alla rondine, della
_Mort du loup_ del De Vigny, della _Mort du lion_ e di tant'altri del
Leconte de Lisle. Il Leopardi non manifesta mai in modo esplicito quel
fanatico desiderio, comune a molti poeti, di potersi trasformare in
uccello, in fiore, in nuvola, ecc.[276].
Il Leopardi, quando pure avesse avuto miglior virtù visiva che non
ebbe, non sarebbe mai riuscito un pittor di paese. Le scene che
egli ci fa passare rapidamente davanti agli occhi, sono quasi tutte
assai larghe, hanno alcun che di sbiadito e di vago, son formate di
poche linee e di pochi colori: spaziosi cieli sereni; vasti campi
soleggiati; un'apparita lontana di monti turchini; un lembo di mare
all'orizzonte; una spiaggia fiorita; un lucido fiume serpeggiante
in fondo a una valle; un deserto illuminato dalla luna: tutto ciò
nominato, ma non descritto. Veri paesaggi di un miope che non volle mai
portare gli occhiali, e nel cui animo subito le immagini si trasformano
in sentimenti. La mite scena idilliaca di _ridenti piagge_, che il
poeta benedice nella _Vita solitaria_, era già apparsa nel _Passero
solitario_:
e intanto il guardo
Steso nell'aria aprica
Mi fere il sol che tra lontani monti
Dopo il giorno sereno
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
Sotto il sole
Brillano i tetti e i poggi e le campagne[277].
Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna,
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare.
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Ecco il sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville[278].
La luna empie di sua pallida luce la notte senza vento:
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna[279].
C'è uniformità, c'è indeterminazione nel descritto, ma non povertà
nel sentito. Più che lo spettacolo della natura, il Leopardi ci dice
il sentimento che quello spettacolo suscita in lui: e quel sentimento
è vivo. Dal notare più particolarmente e determinatamente gli aspetti
delle cose lo ritenne, senz'alcun dubbio, una condizione del senso,
ma anche una condizione dell'animo, e forse in notabile misura quella
preoccupazione dell'infinito e dell'eterno che da molti luoghi de' suoi
scritti si vede essere stata in lui profonda e prepotente. Indugiamoci
alcuni istanti a considerare questo punto. Tutti hanno a mente quei
pochi versi dell'_Infinito_, composti dal poeta nell'anno ventunesimo
di sua età. Appena ha egli fermati gli occhi su quella siepe, porto
l'orecchio allo stormire di quelle piante, che il suo pensiero si leva
a volo attraverso il tempo e lo spazio, e che la sua mente si riempie,
spaurita, di quello che il Pascal diceva _silence éternel des espaces
infinis_. Il Leopardi ha molto viva ed intensa la nozione astratta del
tempo e dello spazio. In una nota giovanile del poeta trovasi questo
curioso cenno, che si riferisce agl'_Idillii_: «Galline che tornano
spontaneamente la sera alla loro stanza al coperto. Passero solitario.
Campagna in gran declivio veduta alquanti passi in lontano, e villani
che scendono per essa si perdono tosto di vista; altra immagine dell
infinito»[280]; ove merita considerazione quella idea d'infinito così
accostata a immagini concrete e minute. Un canto che si allontani per
la via richiama alla mente del poeta la forza eterna del tempo e il
dileguare di tutte le cose[281]; e il _tacito infinito andar del tempo_
è tormento al pensiero dell'errante pastore dell'Asia. La vanità del
tutto è infinita.
L'amore del Leopardi per la natura fu, in quegli anni, un amore parte
idilliaco, parte elegiaco, molto diverso da quello tutto impetuoso e
tragico del Byron, e molto diverso ancora da quello tutto tripudiante e
ditirambico dell'Hugo. Le cose gli parlavano sommessamente all'anima un
arcano linguaggio, penetrato di dolce e tenera mestizia; ed egli nelle
cose trasfondeva, con effusione ignota agli antichi, l'anima propria.
E in natura non era altro oggetto che così traesse a sè gli occhi e
l'anima del poeta come faceva la luna. Sono pochi i canti di lui per
entro ai quali non ispanda la luna il suo pallido e mesto chiarore
e l'irresistibile fascino; nè questo avviene fortuitamente, o per
forza di esempii; ma è effetto di naturali armonie, di corrispondenze
secrete. Sonvi stati dell'anima nostra i quali trovano rispondenza
meglio adeguata in uno sfolgorante meriggio, e stati che meglio
adeguata la trovano nel placido irradiamento lunare. Il sole, scoprendo
troppe cose alla vista, e troppo contornate e rilevate, e i sensi tutti
quasi sopraffacendo con quel fervore e tumulto di vita ch'ei suscita,
nuoce al raccoglimento e alla meditazione, impedisce, sino ad un certo
segno, il moto degli affetti teneri e delicati. In contrario modo
opera la luna. Lasciando immerse le cose in una semiombra diafana,
che, con renderle meno vistose, di quanto attenua l'azione loro sul
senso, di tanto l'accresce sulla fantasia, la luna, parte scoprendo,
parte velando, non solo favorisce il moto di quegli affetti, e suscita,
insieme con le ricordanze, il popolo alato dei sogni, e inclina a
quella mite melanconia che sempre ci penetra, ogni qual volta l'anima
nostra si ritrovi con sè medesima e come disgiunta dal mondo; ma
ancora, spiccando presso che sola, fra le sembianze semispente e
confuse, ne' cieli solitarii, pare che attiri a sè gli occhi e lo
spirito, inviti alla effusione e alla confidenza. Il sole, divinità
vittoriosa e superba, fa chinar gli occhi al suo adoratore. La luna
si lascia guardare e par che ci guardi. Il sole è luce più universale
e più pubblica (_immensi lux publica mundi_, disse Ovidio), e sembra
aver troppe faccende, e che non possa, padre della vita e suscitator
delle opere (_vivo cuncta calore fovens_), dar retta a noi. Quand'egli
appare sull'orizzonte, tutto si desta, si commuove, si agita. La luna
regna sulla quiete della natura, e non pare abbia altra occupazione che
di risplendere in cielo. Il silenzio delle cose a noi sembra silenzio
di lei (_amica silentia lunae_), atta ad intenderci, disposta ad
ascoltarci. Ed è per questa ragione che la poesia dolce e melanconica,
la poesia dei dubbiosi desiri e dei rimpianti soavi ed amari, vagheggiò
sempre la luna; ed è per questo che gl'innamorati e gl'infelici di
tutti i tempi l'ebbero cara, e piansero, contemplando il suo candido
volto, lacrime di tenerezza o d'affanno; dacchè la luna ha un volto che
il sole non ha[282].
Chi ama la natura come il Leopardi l'amò, con la disposizione d'animo
che nel Leopardi abbiam conosciuta, amerà di particolare amore la
luna, perchè in lei, più facilmente che in qualsiasi altro oggetto
della natura, immaginerà quel senso umano, quella reciprocazione
d'affetto a cui agogna il suo cuore. Nei versi e nelle prose del
nostro poeta non troviamo, a dir vero, nessuna di quelle meravigliose,
affascinanti pitture di scene illuminate dalla luna alle quali sono
indissolubilmente legati i nomi di Bernardino De Saint-Pierre e dello
Chateaubriand; ma nessun altro poeta al mondo fu più invaghito di
lei, nè con più grazia e sentimento parlò della sua casta e dolce
bellezza. _Graziosa, cara, diletta, aurea, benigna, candida, vezzosa,
intatta, vereconda_, sono gli epiteti con cui egli la saluta ed invoca.
Lo _spectral moon_ dei poeti inglesi sembra essergli sconosciuto;
sconosciuta la luna ipocondriaca, lugubre e diabolica del Lenau, e
la sfregiata e grottesca, derisa dal De Musset. Agli occhi suoi, come
agli occhi del contemporaneo suo Enrico Neele, la luna è eternamente
bella, _for ever beautiful_. Non mai stanco di contemplarla, egli la
vede pendere sulla selva, veleggiare fra le nubi, guardar giù dai cieli
sereni,
Dominatrice dell'etereo campo[283],
questa _flebile umana sede_; vede il bianco suo raggio (_Il
biancheggiar della recente luna_), al cui mite splendore _danzan le
lepri nelle selve_, posar queto, per entro la notte _chiara e senza
vento_, sui _tetti e in mezzo agli orti_, e scoprire alla vista _lieti
colli e spaziosi campi_. Quasi fanciullo ancora, egli veniva, già piena
l'anima d'angoscia, e velati gli occhi di pianto, a intrattenersi con
lei:
O graziosa luna, io mi rammento
Che or volge l'anno, sovra questo colle
Io venia pien d'angoscia a rimirarti:
. . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . chè travagliosa
Era mia vita: ed è, nè cangia stile,
O mia diletta luna[284].
Loderà egli sempre il _vezzoso_ suo raggio, e lunge dagli _abitati
lochi_ e dall'umano consorzio, avrà lei sola compagna ed amica:
Me spesso rivedrai solingo e muto
Errar pe' boschi e per le verdi rive,
O seder sovra l'erbe, assai contento
Se core e lena a sospirar m'avanza[285].
Quanta più dolcezza e intimità in questi versi che in quelli di
Labindo, che non molt'anni innanzi aveva esclamato:
L'amica luna con l'argenteo raggio
Placidamente mi percuote il ciglio,
E d'ignota dolcezza il cuor mi cinge[286]!
Quanta più che nei versi del Pindemonte:
Steso sul verde margo
D'obblio soave ogn'altro loco io spargo.
Quai care ivi memorie
Trovo de' miei prim'anni,
Quai trovo antiche storie
De' miei giocondi affanni![287]
Per trovar cosa che loro somigli, bisogna andarla a cercare in alcune
stanze di versi brevi, dove il Goethe saluta la luna, che lo accarezza
con lo sguardo amico[288].
E come il poeta, così le creature della sua fantasia, ch'egli viene
avvivando del proprio spirito. Bruto, presso a darsi la morte,
apostrofa la luna, che placida sorge dal mare irrigato di sangue[289];
e Saffo saluta, per l'ultima volta, il
verecondo raggio
Della cadente luna[290].
Il pastore errante per le sconfinate pianure dell'Asia parla ancor egli
alla _eterna peregrina_, alla _giovinetta immortale_, alla _vergine
luna_ (_fanciulla_, nei poemi di Ossian), ch'è sì pensosa; e immagina
ch'ella possa intendere il perchè delle cose, sapere che sieno, ed a
che, vita, morte, dolore, vicenda, e quale il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito infinito andar del tempo[291].
Già prossimo a quella fine cui tanto aveva sospirata, il poeta,
riandando col pensiero l'età giovanile, e volendo dare immagine del
come la giovinezza, dileguando, si lasci dietro oscura e desolata la
vita, prese argomento dalla _giovinetta immortale_, dalla compagna
e consolatrice antica, e il _Tramonto della luna_ fu il penultimo, e
forse l'ultimo canto che gli uscì dal petto affaticato.
V'è una poesia del Leopardi, in cui tutto ciò che io sono venuto
dicendo sin qui vedesi attestato dallo stesso poeta, brevemente, ma
chiaramente; ed è quella che s'intitola _Il risorgimento_. Il giovane,
non ancora trentenne, era caduto in una specie di sonnolenza, che
facevalo, non _turbato_, ma _tristo_, e _vedovo d'ogni dolcezza_, morto
al dolore, morto all'amore, voto di desiderio e di speranza, simile,
nell'april degli anni, a chi trascini
dell'età decrepita
L'avanzo ignudo e vile.
La vita gli apparve allora dispogliata ed esanime, la terra inaridita,
chiusa in un gelo eterno, deserto il giorno, più che mai buja e
solitaria la notte, spenta in cielo la luna, spente le stelle. Più non
gli toccavano, come per lo passato, il core, il verso della rondine,
il canto dell'usignolo, il suono della squilla vespertina, l'ultimo
raggio del sole fuggitivo; nè valevano a trarlo dal duro torpore due
pupille tenere e il tocco di una mano candida e ignuda. In un sol punto
ei s'era chiuso all'amor della donna, all'amore della natura, alla
vita: fatto estraneo agli esseri tutti, languiva e moriva di quella
solitudine e di quel gelo, nella disperata impotenza di amare. Pure
si scosse e si riebbe, e l'anima rinata, in cui s'era miracolosamente
raccesa la _luce de' giorni e degli affetti giovanili_, incontanente
corse a riabbracciar la natura e a bearsi degli antichi amori.
Siete pur voi quell'unica
Luce de' giorni miei?
Gli affetti ch'io perdei
Nella novella età?
Se al ciel, s'ai verdi margini,
Ovunque il guardo mira,
Tutto un dolor mi spira,
Tutto un piacer mi dà.
Meco ritorna a vivere
La piaggia, il bosco, il monte,
Parla al mio core il fonte,
Meco favella il mar.
Il Leopardi era nato con questo amore nell'anima; e questo amore doveva
diventare per lui, come ogni altro amor suo, fontana di amaritudine.
Ma finchè tal non divenne, fu per lui fontana di consolazione. Non
era ancor giunto il tempo in cui egli doveva fermarsi nella credenza
che poco bello ne offre la natura, e porre la bellezza creata dalla
fantasia sopra
Il bel che raro e scarso e fuggitivo
Appar nel mondo[292]:
anzi poteva con Saffo esclamare:
Bello il tuo manto, o divo cielo; e bella
Sei tu, rorida terra;
e giudicar _vezzose_ le forme, anzi _infinita_ la beltà della sempre
verde natura[293]. Sia qui ricordato che lo Schopenhauer, come fu
un ardentissimo ammiratore della bellezza dell'arte, così ancora fu
un ardentissimo ammiratore della bellezza della natura[294]; e che
di questa seconda bellezza il Leopardi sentì la virtù consolatrice e
serenatrice, come la sentì lo Schopenhauer, che la celebrò con calde
parole[295]. Un tempo fu veramente il Leopardi un ottimista estetico.
Allorchè noi ci abbandoniamo all'incantamento della natura, e ci
sentiamo in viva e stretta comunione con lei, siamo tratti, senza
quasi avvedercene, ad attribuire ad ogni suo aspetto un valore di
simbolo. La natura allora non parla più ai sensi soltanto; parla ancora
all'intelletto ed al sentimento; e mentre così penetra in noi, sembra
che ci riveli a noi stessi. In nessun'altra poesia, forse, questa
simbolica della natura appare così varia e spiegata, e diciam pure
insistente e tormentosa, come in quella del Wordsworth; ma non è poeta
che in qualche maniera non l'abbia avvertita e significata. Nè poteva
mancar nel Leopardi. Il passero solitario è un simbolo del solitario
poeta. La quiete che succede alla tempesta vuol dire che il piacere
è figlio d'affanno, che uscir di pena è diletto fra noi, che la vana
gioja è frutto del passato timore,
onde si scosse
E paventò la morte
Chi la vita aborria.
Il tramonto della luna è un simbolo del dileguare della giovinezza,
dopo la quale
Abbandonata, oscura
Resta la vita;
e già il medesimo simbolo aveva scorto il poeta nel tramonto del sole,
il quale tra lontani monti
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
La lenta ginestra è una immagine dell'uom forte e saggio, che non
mentisce a sè stesso, non si umilia codardamente, nè stoltamente
insuperbisce; non sogna meravigliosi destini, troppo impari all'esser
suo, alle sue deboli forze.
Il sentimento che della natura ebbe nella prima sua giovinezza il
Leopardi, non poteva perpetuarsi nell'animo di lui, non poteva nemmeno
durar molto a lungo; chè troppo lo venivan tentando e premendo,
dall'una parte la malattia, dall'altra la riflessione. Se il tempo
lo concedesse, potrei venir dimostrando come pur negli anni in cui
serbava il carattere idilliaco ed elegiaco, esso fosse assai diverso,
per esempio, dal sentimento ingenuamente credulo del Wordsworth, e da
quello tutto pieno di misticità e di unzione, e un po' melodrammatico,
del Lamartine. Sin da quegli anni primi, il Leopardi meditava troppo,
scrutava troppo, era troppo inquieto interiormente. Per godere della
natura in modo schietto e pieno, non bisogna interrogarla con soverchia
insistenza, non bisogna volerle strappare a forza il suo secreto. Il
pastore errante dell'Asia manifesta, fra il 1829 e il 1830, uno stato
d'animo che doveva già essere antico nel nostro poeta:
E quando miro in ciel arder le stelle,
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
L'inquietudine che prova il pastore, il poeta l'aveva, già da tempo,
provata:
Ed io pur seggio sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente; ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Ma, s'io giaccio in riposo, il tedio assale.
Per godere della natura in modo schietto e pieno, bisogna che Fausto
possa dire: _Indugiati, o istante: tu sei così bello!_
Nell'animo del Leopardi, all'antico entusiasmo tenne dietro ben presto
la delusione: l'amatore s'avvide di esser solo ad amare, e che quel
seno a cui stringevasi delirando era immobile e freddo. La natura,
già da lui per errore immaginata benefica e saggia, dispensatrice di
libertà e di letizia agl'inquieti suoi figli[296]; la natura, salutata
da Gian Paolo Richter col nome di amante, dal Byron con quello di
tenerissima fra le madri; la natura è indifferente, se pure non è
malefica. Quest'amara parola, questo grido angoscioso, corre per mezzo
i versi e le prose del poeta come un soffio di vento per mezzo una
selva sonora, che tutta la riempie di gemiti e di querele.
Nè scolorò le stelle umana cura[297].
Ma da natura
Altro negli atti suoi
Che nostro male o nostro ben si cura[298].
Dalle mie vaghe immagini
So ben ch'ella discorda:
So che natura è sorda,
Che miserar non sa.
Che non del ben sollecita
Fu, ma dell'esser solo;
Purchè ci serbi al duolo,
Or d'altro a lei non cal[299].
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Ch'alla formica.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede[300].
La delusione provata dal poeta dinanzi a questa indifferenza ingiuriosa
della natura è in tutto simile a quella del _rapito amante_, il
quale s'avvegga non essere nel petto della donna adorata nemmeno una
scintilla d'amore. Ciò che più lo turba e l'offende e lo accora, non
è già l'umana sciagura considerata in sè stessa, ma quell'inganno
fatto all'amore, ma la violazione e il miserabile scempio degli errori
gentili e delle ingenue credenze che ci fioriscon nell'anima. Egli
è l'amante tradito e schernito, cui sanguina il cuore al pensiero
dell'inganno sofferto. Parlando alla Silvia, morta, delle immaginazioni
soavi e delle speranze di un tempo, egli non può frenare un grido
straziante, in cui il rimprovero è vinto e come affogato dal pianto:
O natura, o natura,
Perchè non rendi poi
Quel che prometti allor? perchè di tanto
Inganni i figli tuoi?[301]
Questo stesso pensiero, acuto e doloroso, di una speranza suscitata e
delusa, di una promessa fatta e non mantenuta, rispunta frequente ne'
versi del poeta. Il giovinetto s'affaccia alla vita ed al mondo col
volto ridente, col cuore giubilante, e chiedendo amore, si offre tutto
all'amore; ma lo attende da presso il disinganno, giacchè piacque alla
_madre temuta e pianta_
che delusa
Fosse ancor della vita
La speme giovanil; piena d'affanni
L'onda degli anni: ai mali unico schermo
La morte[302].
La natura è chiusa all'amore e alla pietà, e
In cielo,
In terra amico agl'infelici alcuno
E rifugio non resta altro che il ferro[303].
Ben presto l'offeso amatore si conferma nella opinione che la natura
sia, non solo indifferente, ma a dirittura malvagia. E anche questo
è un effetto dell'amore deluso. Il poeta, quando si contenta di
filosofare, sa che la natura, negli atti suoi, a tutt'altro attende
che a procacciare il bene o il male degli uomini; ma quando porge
l'orecchio al sentimento che gli si rammarica dentro, non regge
più in quel disinteressato giudizio, e immagina un'_antica natura
onnipossente_ che lo fece all'affanno[304] e un cielo che si diletta
delle umane sciagure[305], e un
brutto
Poter che ascoso a comun danno impera[306].
Chiama la natura crudele, _empia madre_[307], _dura matrice_, colei
che de' mortali
È madre in parto ed in voler matrigna[308],
e solo per ironia la dice _cortese_[309] ed _amante_[310]. Lei sola
accusa operatrice e rea d'ogni male, e contro di lei, che _pene_ sparge
_a larga mano_, e che, simile a _fanciullo invitto_,
Il suo capriccio adempie, e senza posa
Distruggendo e formando si trastulla[311],
vuole confederati gli uomini tutti, stolti troppo e scelerati, quando,
invece di stringersi in guerra comune contro la comune nemica, volgono
gli uni in danno degli altri quell'armi che solo dovrebbero adoperarsi
a difesa di tutti. Il poeta ha smesso d'andare dietro al Rousseau. Egli
non rinfaccia più agli uomini la imperdonabile colpa e il grande errore
d'essersi staccati dal materno seno della natura e d'avere trasgredite
le sue santissime leggi.
La delusione tanto è più amara, quanto è più vivo e imperioso il
bisogno della felicità, e luminoso il sogno ch'esso viene suscitando
nell'anima; e spesso accade che quel desiderio, il quale dal giudizio
non si lascia vincere, e, morendo la speranza, non muore, tanto più
trafigga e travagli quanto meno spera e consegue. Le anime alle quali
ciò incontri mal si rassegnano, e il Leopardi mal si rassegna. Desto da
un altro, lungo vaneggiamento, egli esclama:
contento abbraccio
Senno con libertà;
e
Qui neghittoso immobile giacendo,
Il mar, la terra e il ciel miro e sorrido[312];
ma egli mente a sè stesso. I _dilettosi inganni_, partitisi dalla
mente, gli stan pur sempre confitti nel cuore; e s'egli talora li
deride in altrui, in sè lungamente li piange, e quante volte li
richiami nella memoria, e' gli torna a doler di sua sventura.
O speranze, speranze, ameni inganni,
Della mia prima età! sempre, parlando,
Ritorno a voi; chè per andar di tempo,
Per variar d'affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so;
e ad essi pensando, e che di cotanta speme ora più non gli avanza
se non la morte, sente che non può consolarsi al tutto del suo
destino[313]. Perito l'inganno estremo, egli così favella al proprio
cuore:
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, nè di sospiri è degna
La terra[314];
ma quei beati errori egli séguita a vagheggiare pur sempre, come in
passato gli aveva vagheggiati. Mosso da un sentimento in cui nulla è di
arcadico, e troppo diverso da quello che al Monti dettava il sermone
_Su la mitologia_, egli aveva rimpianto il sogno antico di una natura
viva e animata, passionata e pensosa, allora quando
Vissero i fiori e l'erbe,
Vissero i boschi,
e
Conscie le molli
Aure, le nubi e la titania lampa
Fur della umana gente, allor che ignuda
Te per le piagge e i colli,
Ciprigna luce, alla deserta notte
Con gli occhi intenti il viator seguendo,
Te compagna alla via, te de' mortali
Pensosa immaginò[315].
Allora alla natura il poeta chiedeva s'ella fosse ancor viva:
Vivi tu, vivi, o santa
Natura? vivi e il dissueto orecchio
Della materna voce il suono accoglie?
e a lei raccomandò, _poscia che vote erano le stanze d'Olimpo_, questa
dolorosa famiglia umana:
Tu le cure infelici e i fati indegni
Tu de' mortali ascolta,
Vaga natura, e la favilla antica
Rendi allo spirto mio; se tu pur vivi.
E se de' nostri affanni
Cosa veruna in ciel, se nell'aprica
Terra s'alberga o nell'equoreo seno,
Pietosa no, ma spettatrice almeno[316].
Intorno a quel medesimo tempo un altro poeta poneva in bocca a una
creatura della sua fantasia presso a poco la stessa domanda:
Quoi donc! n'aimes-tu pas au moins celui qui t'aime?
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Mes yeux moins tristement verraient ma dernière heure,
Si je pensais qu'en toi quelque chose me pleure.
Chi parla così è un adoratore della natura, giunto al suo ultimo
dì. Egli sta per passare, ma sa che la natura non passa; e scioglie,
morendo, un inno alla vita immortale e universa.
Triomphe, . . . . . . . . immortelle Nature,
Tandis que devant toi ta frêle créature,
Élevant ses regards de ta beauté ravis,
Va passer et mourir! Triomphe! Tu survis!
Que t'importe? En ton sein, que tant de vie inonde,
L'être succède à l'être, et la mort est féconde!
Egli vorrebbe sì che la natura fosse conscia di lui, dacchè nessuno
spirito mortale mai intese meglio e comprese la gran voce di lei.
Plus je fus malheureux, plus tu me fus sacrée!
Plus l'homme s'éloigna de mon âme ulcérée,
Plus dans la solitude, asile du malheur,
Ta voix consolatrice enchanta ma douleur.
Ma egli non si duole di avere a dissolversi in quella che lo produsse
alla vita, alla luce; anzi quasi voluttuosamente abbraccia la morte
che all'onde, all'aria, alla terra, agli elementi tutti, restituirà il
corpo e l'anima insieme. Il poeta non pensava come la creatura della
sua fantasia. Per lui non erano _vote le stanze d'Olimpo_. Egli si
chiamava Alfonso De Lamartine[317].
Tuttochè conscio della indifferenza della natura, il Leopardi non mai
cessò in tutto d'amarla. Ben sa il poeta ch'ella discorda dal pensier
suo, che è sorda e vota d'affetto; ma pur da lei ebb'egli il vago
immaginare e la virtù de' beati errori: e il dono di lei nè dal tempo,
nè dal fato, nè dalla stessa verità gli può più esser rapito.
Proprii mi diede i palpiti
Natura, e i dolci inganni.
Sopiro in me gli affanni
L'ingenita virtù;
Non l'annullâr: non vinsela
Il fato e la sventura;
Non con la vista impura
L'infausta verità[318].
E ancora di tanto in tanto, dopo così lunga esperienza e convinzion del
contrario, ripullula in lui l'antica immaginazione di una natura dotata
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