Foscolo, Manzoni, Leopardi: saggi - 18

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L'hymne mélodieux de la sainte Beauté.
Un'altra poesia, intitolata _La source_[384], finisce con questi versi:
Telle que la Naïade en ce bois écarté
Dormant sous l'onde diaphane,
Fuis toujours l'œil impur et la main du profane,
Lumière de l'âme, o Beauté!
Il Leopardi non usa del mito come di un tema di supposta credenza;
ma ne usa talvolta come di una parabola e di un simbolo, nel quale
infonde pensieri e sentimenti moderni; conscio, con lo Schelling,
della universa significazione e del perpetuo valore di esso; conscio
ancora della duttilità sua, la quale lo pone in grado di ricevere,
mutando i tempi e le civiltà, nuova forma e spirito nuovo. Con ciò il
Leopardi fa cosa interamente legittima, e praticata da molti poeti di
questo secolo, che certamente non furono classicisti. Basti ricordare
per tutti Vittore Hugo, del quale è noto il mirabile uso che del
mito antico, in più maniere variato, seppe fare nella _Légende des
siècles_ e altrove. Di sì fatto uso, del resto, il Leopardi non si
giova ne' versi, ma solo in taluna delle prose, quali la _Storia del
genere umano_, il _Dialogo di Ercole e di Atlante_, la _Scommessa di
Prometeo_; e non è possibile non avvertire la diversità grande che
per questo rispetto passa tra lui e alcuni poeti modernissimi, specie
inglesi, ne' cui versi il mito ellenico rifiorisce frequente a canto
alla leggenda arturiana o alla saga settentrionale.
Delle antiche immagini e dell'antico linguaggio mitologico alcune
tracce rimangono nel Leopardi, come per forza di tradizione e di
consuetudine. _Febo, titania lampa, ciprigna luce, offeso Olimpo,
Olimpo che piove a distesa, disperato Erebo, erinni, alto consiglio di
numi_, troviamo qua e là ne' suoi versi: ma sono _rari nantes_, formule
puramente verbali, che non possono far rivivere il mito, e quasi,
passate in una specie di comune linguaggio, più non lo suppongono.
Perciò aveva ragione Giuseppe Belloni, quando, proprio nella sua brutta
_Anti-mitologia_, ricordava con lode il nome del Leopardi, come di uno
che avesse intese le buone ragioni dei romantici, e s'opponesse alle
usanze assurde dei classicisti:
Leopardi,
Forte in alti pensieri, inni già intuona,
Che se fien gravi all'ammollito orecchio
Della plebe vivente, saran fiamma
Alla età che succede; e cammin nuovo
Segna a chiunque la virtude ha cara[385].
E non dimentichiamo che nella _Ginestra_ il poeta si ride della
illusione degli uomini che _favoleggiarono_ gli autori delle universe
cose discesi in terra per cagion loro, e schernisce i _rinovellati
sogni_; dove, se non manca una frecciata al cristianesimo, non ne manca
una nemmeno alla mitologia. E ricordiam di passata che nella _Scommessa
di Prometeo_ si parla con assai poca reverenza delle muse e degli altri
dei, e che di Prometeo si narra un'avventura troppo più realistica che
mitica.
Dopo quanto s'è veduto del sentimento della natura nel Leopardi,
parmi si possa legittimamente concludere che quel sentimento ha
del romantico assai più che del classico, o dobbiam lasciare di
distinguere fra sentimento classico e sentimento romantico della
natura. Romantica quella tenerezza accorata, che potrebb'essere una
variante del _délire champêtre_ del Rousseau; romantica, più tardi,
quella diffidenza angosciosa che il Leopardi manifesta a fronte
della natura; e sconosciute, così l'una, come l'altra, agli antichi,
sebbene per tutt'altra ragione che quella immaginata dallo Schiller.
I classicisti, sebbene si sciacquassero sempre la bocca con quel
loro canone dalla imitazione della natura, sentirono, generalmente
parlando, la natura assai poco. E qui vien forse opportuna un'altra
osservazione. Un uomo del settentrione e un uomo del mezzodì, un
germano e un latino, non gustano la natura alla stessa maniera.
Quegli sente in più particolar modo ciò che parla all'anima; questi
in più particolar modo ciò che parla ai sensi: per il primo la natura
è quasi un simbolo o un'allegoria; pel secondo è, sopratutto, una
festa e uno spettacolo. Il primo sogna di più; il secondo vede di
più. Il sentimento che il Leopardi ha della natura è, parmi, più
settentrionale che meridionale, più germanico che latino, e, per
ciò appunto, più romantico che classico: ed è curioso notare come in
quelle terzine dell'_Appressamento della morte_, che sono del 1816,
tendesse all'ossianico. Che quella quasi adorazione che per la luna
ebbe il Leopardi è cosa romanticissima sotto ogni aspetto, non fa
quasi bisogno di avvertire, bastando ricordare come le origini di
quel nuovo culto sieno legate ai nomi di Ossian, di Edoardo Young e di
Werther. Romantica finalmente è, in un certo senso, una delle ragioni
che muovono il Leopardi a cercar la natura; ed è quella stessa che già
aveva mosso il Rousseau, Werther, lo Chateaubriand, Obermann, ecc., e
cioè l'avversione all'umano consorzio e il disgusto della civiltà.
Fermiamoci a considerare un istante questo sentimento. La misantropia
non fu trovata certo dai moderni; anzi doveva già essere antica
nel mondo quando l'ateniese Timone ne diede un esempio rimasto
memorabile nelle storie. I cristiani, più tardi, trovarono modo di
conciliarla con l'amor del prossimo, e nei deserti e nei chiostri se
ne fecero strumento e via di salute. I sentimenti umani hanno tutti
uno svolgimento e una storia, ma è disagevole talvolta conoscerne le
variazioni e seguirne i trapassi. E così di questo sentimento della
misantropia. Direi che nel pagano antico esso dovesse nascere di regola
da esperienza di nocumento sofferto nella persona o negli averi,
o da timore di tal nocumento. Plutarco e Luciano ci rappresentano
Timone spinto alla misantropia dalla ingratitudine e malvagità degli
amici. Nel cristiano nasceva piuttosto da timore di seduzione e di
contaminazione. _Quoties inter homines fui, minor homo redii_, lasciò
scritto Seneca, che doveva, nella leggenda, diventare un amico di San
Paolo, e quasi un seguace della dottrina dell'Evangelo. Il cristiano,
certo, non odiò il proprio simile, ma lo temè, come quello che
poteva toglierlo a Dio, e s'allontanò volentieri dalla creatura per
meglio accostarsi al creatore; e son senza numero quegli asceti che
abbandonarono i genitori, il conjuge, i figliuoli per essere più sicuri
di ritrovarsi con loro nel regno dei cieli. L'uomo moderno, divenuto
troppo eccitabile e sensitivo, e diciam pure troppo soggettivo, pare
che de' proprii simili tema più che altro il rude e disaggradevole
contatto, e si offenda della disformità loro, e aborrisca da quella
conversazione che lo toglie a sè stesso e non lo lascia gustare tutto
quel godimento di sè, di cui posson farlo capace l'alta e squisita
cultura, la contemplazione e l'analisi. Facilmente ancora egli
s'immagina d'essere troppo superiore a quella condizione di civiltà e a
quelle istituzioni in mezzo alle quali la fortuna l'ha fatto nascere,
e prende a disamare un consorzio pel quale stima di non essere fatto,
immaginandone un altro più amabile e degno.
Dar giudizio della misantropia del Leopardi non è cosa facile, chè
anche per questa parte sono molte contraddizioni nel nostro poeta.
Di ventun anno scriveva degli uomini: «Vorrei non conoscerli, così
scellerati come sono»[386]. Più tardi, per bocca di Tristano, giudicava
gli uomini «codardi, deboli, d'animo ignobile e angusto»[387]: e,
rinnovando la sentenza dell'Hobbes, diceva la vita sociale una lotta
di ciascuno contro tutti e di tutti contro ciascuno[388]; e che la
natura ha inspirato negli animali l'odio de' proprii simili, e che
naturalmente l'animale odia il suo simile[389]. Il _Dialogo di Ercole
e di Atlante_ è tutto in disprezzo delle cose umane; la _Scommessa di
Prometeo_ vuol fare intendere che l'uomo è il più imperfetto, malvagio
e spregevole degli esseri creati. Il poeta chiama il proprio secolo
il secolo della morte[390], deride i trovati e le macchine[391], dice
il mondo presente essere nelle mani dei mediocri[392], anzi tenere
il campo la nullità[393], si burla della sapienza dei giornali, delle
masse, della perfettibilità infinita, delle scienze economiche, morali
e politiche e di tutte le altre belle creazioni di questo _secolo di
ragazzi_[394]. Definito «il mondo una lega di birbanti contro gli
uomini da bene e di vili contro i generosi[395],» voleva guerra ad
oltranza; e già sino dal giugno del 1821 aveva scritto al Brighenti:
«Ciascuno è nemico di ciascuno e dalla sua parte non ha altri che
sè stesso... Del resto, o vinto, o vincitore, non bisogna stancarsi
mai di combattere e lottare e insultare e calpestare chiunque vi
ceda anche per un momento... Il mondo è fatto al rovescio, come quei
dannati di Dante... E ben sarebbe più ridicolo il volerlo raddrizzare,
che il contentarsi di stare a guardarlo e fischiarlo»[396]. E chi
sa quant'altro ci sarebbe da aggiungere se si conoscessero quelle
parecchie centurie di Pensieri che rimangono ancora inedite e occulte.
Ma a questi giudizii e a questi sfoghi altri se ne possono opporre
di carattere affatto contrario. Il 17 dicembre 1819 scriveva al
Giordani: «Era un tempo che la malvagità umana e le sciagure della
virtù mi movevano a sdegno, e il dolore nasceva dalla considerazione
della scelleraggine. Ma ora io piango l'infelicità degli schiavi e de'
tiranni, degli oppressi e degli oppressori, de' buoni e de' cattivi;
e nella mia tristezza non è più scintilla d'ira, e questa vita non mi
par più degna di esser contesa»[397]. Negli sciolti al Pepoli biasima
l'egoismo. Nel _Dialogo di Timandro e di Eleandro_ dice di non poter
odiare nessuno, nemmeno chi l'offende, anzi di essere «del tutto
inabile e impenetrabile all'odio»[398]. In una lettera al Brighenti
si legge: «Ma viviamo, giacchè dobbiamo vivere, e confortiamoci
scambievolmente, e amiamoci di cuore, chè forse è la miglior fortuna
di questo mondo. La freddezza e l'egoismo d'oggidì, l'ambizione,
l'interesse, la perfidia, l'insensibilità delle donne che io definisco
_un animale senza cuore_, sono cose che mi spaventano»[399]. E nel
XXXII dei _Pensieri_ si dice che chi ha più intelletto ed esperienza
meno disprezza; che sciocchi sono coloro i quali per troppa stima
di sè disprezzano gli altri; e che «l'uso del mondo insegna più a
pregiare che a dispregiare». Quale luogo l'idea umanitaria tenga
nella _Ginestra_ non è bisogno di ricordare: bensì parmi voglia essere
ricordato che pel Leopardi, come per lo Shelley, unico fondamento della
morale è la simpatia, che nasce dalla sensitività.
Contraddizioni in tutto simili a queste sono frequentissime nei
romantici, a cominciare da quel Gian Giacomo Rousseau che del
romanticismo dee dirsi il massimo institutore: e nel romanticismo
sono da distinguere come due correnti, che talvolta vanno disgiunte e
in direzioni contrarie, tal'altra in assai strano modo si confondono
insieme; una corrente che diremo filantropica, e una corrente che
diremo misantropica. Il _bel tenebroso_ fugge la compagnia de' proprii
simili; non parla di essi se non con amarezza e con disdegno; come
molti altri degli eroi di quel Byron che difficilmente si potrebbe dire
se fu più filantropo che misantropo, o più misantropo che filantropo.
René disse: _La foule, ce vaste désert d'hommes_. Saint-Preux aveva
detto: _J'entre avec une secrète horreur dans ce vaste désert du
monde_. E l'Adolphe del Constant soggiunse: «Je ne me trouvais à
mon aise que tout seul, et tel est, même à présent, l'effet de cette
disposition d'âme, que dans les circonstances les moins importantes,
quand je dois choisir entre deux partis, la figure humaine me trouble,
et mon mouvement naturel est de la fuir pour délibérer en paix»[400].
Il Leopardi chiama il mondo _formidabile deserto_[401]. Il nano
misterioso di Gualtiero Scott non può sopportare la vista de' proprii
simili: il Leopardi accusa la luna se umani aspetti scopre al suo
sguardo[402].
Di tale disposizione dell'animo lo stesso Leopardi ebbe a notare
alcuna cagione quando disse che gli antichi non considerarono mai «la
generalità degli uomini civili, che noi chiamiamo società o mondo»,
quale «nemica virtù», e «certa corruttrice d'ogni buona indole, e
d'ogni animo ben avviato»; e che la educazione presso gli antichi
era pubblica e comune; presso i moderni, per contro, segregata
e solitaria[403]; e ancora quando disse essersi la stirpe umana,
per gl'insegnamenti della verità, dissipata in tanti popoli quanti
uomini[404]; ov'è manifesto accenno al soverchiante individualismo.
Checchè sia di ciò, certo si è che quella disposizione dell'animo
fu propria di moltissimi romantici. Il Taine fa cenno di uno scritto
della _Edinburg Review_ dell'ottobre 1802, nel quale si attribuivano
comunemente ai romantici «les principes antisociaux et la sensibilité
maladive de Rousseau, bref un mécontentement stérile et mysanthropique
contre les institutions présentes de la société»[405].
Fu già notata da molti la somiglianza morale che il Leopardi ha con
Werther, con René, con Jacopo Ortis, con Obermann, persino con Rolla,
e con quanti sono i rappresentanti maggiori di quella modernissima
disposizione e temperie d'animo che nel presente secolo fu detta
appunto malattia del secolo. Gli è certo che il Leopardi ha comuni con
essi molti sentimenti, molti gusti e molte idee; e poichè essi sono,
con più o meno consapevolezza di chi gl'immaginò e descrisse, vere e
predilette creature del romanticismo, ne viene di conseguenza che anche
il Leopardi, se fosse personaggio immaginario anzichè reale, potrebbe
essere una creatura del romanticismo. Facciamo una rapida enumerazione
di questi altri comuni stati di animo. Trattandosi di cose che ogni
colto lettore ha presenti allo spirito, e che nulla hanno d'astruso e
di recondito, non sarà necessario d'indugiarsi troppo per via, nè di
far molti raffronti.
Ho già toccato della sentimentalità del Leopardi. Se accettiamo la
distinzione che lo Schiller fece della poesia ingenua e sentimentale,
quella attribuendo agli antichi, questa ai moderni; distinzione che può
dar luogo ad alcune obbiezioni, ma che non è nè arbitraria, nè vana;
non possiamo non riconoscere che la poesia del Leopardi appartiene
piuttosto alla seconda che alla prima specie: e se ricordiamo che
la sentimentalità fu sempre considerata come una delle più spiccate
qualità dei romantici e dell'arte loro, dovremo pur riconoscere che
il Leopardi, per la forma generale e, dirò così, diffusa e vaga del
sentimento, è assai più romantico che classico. Gli è vero che una
certa forma di sentimentalità fu nel secolo scorso (e pare strano a
dire) favorita dalla stessa filosofia della ragione, almeno in quanto
voleva essere filosofia umanitaria; ma è da notare altresì che la
filosofia del secolo scorso favorì in più maniere il romanticismo,
un pezzo prima che questo si stringesse in alleanza con l'idealismo
tedesco o col cristianesimo; del che si potrebbero recare le prove,
non fosse il rischio di andar troppo per le lunghe. Il Rousseau fu
un gran ragionatore, un gran sentimentale e, come s'è detto, uno
degl'institutori massimi del romanticismo; e Giuseppe Montani, che
fu uno dei romantici nostri più intelligenti e ferventi, fu pure un
grandissimo ammiratore del Leopardi, e, come il Leopardi, un discepolo
dei filosofi francesi.
Se da questo sentimento generale e diffuso passiamo ai sentimenti
specificati e definiti, ne troviamo nel Leopardi parecchi, che certo
non appartengono ai soli romantici, dacchè nessun sentimento può
tutto appartenere a un tempo solo, a una generazione sola; ma sono,
specialmente se contrassegnati da certi caratteri, assai più proprii
dei romantici che dei classici.
Della melanconia del Leopardi non dirò altro, avendone già detto a
sufficienza in altro luogo. Ricorderò solo che la _melanconia dolce_;
quella che già da oltre mezzo secolo i romantici levavano a cielo
con le lodi; quella che lo stesso Goethe gustò con delizia (_Wonne
der Wehmuth; Trost in Thränen_), fu detta dal Leopardi più _dolce
dell'allegria_[406].
Il rimpianto, quello che i francesi dicono _regret_, non fu molto
famigliare agli antichi, i quali, se poco vissero con la fantasia
nel futuro, meno ancora vissero nel passato. Ulisse si scioglie
in lacrime udendo dalla bocca di Demodoco la propria sua storia;
e così Enea, ricordando la patria; ma la loro è commozion viva e
passeggiera, che non aduggia l'animo, non lo svigora nel desiderio
vano dell'irrevocabile. Ovidio, dal Ponto, evoca senza fine il ricordo
di Roma e de' suoi gaudii; ma Ovidio fu detto un romantico del secolo
d'Augusto. L'animo del Leopardi si strugge nel rimpianto. Gli antichi
ebbero in pregio e in onore, più che ogni altra età della vita, la
virilità gagliarda e operosa: i romantici per contro, e con essi
il Leopardi, predilessero e celebrarono gli anni in cui più può la
illusione, e l'anima, non ancora allacciata e vinta dalla realtà, può
abbandonarsi liberamente nelle braccia del sogno. Lo Chateaubriand
adorò la propria giovinezza, e inconsolabilmente ne pianse la perdita.
Il Leopardi pianse la propria quando, _amara e deserta_, era ancora
presente; la pianse anche più quando fu dileguata; ma sopratutto pianse
la fanciullezza e colla fanciullezza disse finita la vita «per tutti
quelli che pensano e sentono»[407].
Il Leopardi che patì terribilmente la noja, disse nessuna cosa essere
della noja più ragionevole; e che «la noia non è se non di quelli in
cui lo spirito è qualche cosa»; e che «la noia è in qualche modo il più
sublime dei sentimenti umani»[408]. Opinione che avrebbe scandalizzato
un antico, ma non il Pascal[409], non i romantici. Non ci fu quasi
romantico che non volesse essere partecipe di questa sublimità. «Je
crois que je me suis ennuyé dès le ventre de ma mère», gemeva, non
senza compiacimento, lo Chateaubriand; e René: «je ne m'apercevais de
mon existence que par un profond sentiment d'ennui». Del tedio della
vita, che comincia, si può dire, a prender forma moderna nell'anima
di messer Francesco Petrarca, non accade discorrere. Il Leopardi
l'ebbe comune con tutta una schiera numerosissima di romantici; e
questo sentimento, quanto lo avvicina senza ch'egli se ne avvegga,
ai cristiani, tanto lo discosta dai pagani. Il Leopardi non espresse
per l'ascetismo cristiano l'ammirazione di cui lo stimò degno lo
Schopenhauer; ma giudicò degnissimi di lode i pensieri e le sentenze di
Cristo intorno al mondo, e in più particolar modo avvertì: «Il mondo
nemico del bene, è un concetto, quanto celebre nel Vangelo, e negli
scrittori moderni, tanto o poco meno sconosciuto agli antichi»[410]. E
all'ascetismo cristiano lo raccostano ancora l'avversione alla scienza,
ch'egli ha comune col Werther, e l'opinione che sia vana, e oziosa
veramente, ogni umana operazione.
Se alla sentimentalità vaga e diffusa, al particolar sentimento della
natura, al rimpianto abituale, aggiungiamo quel desiderio smanioso ed
acuto che il Leopardi ha dell'amore, considerato da lui, e dalla più
parte dei romantici, come unica o suprema fonte di felicità sopra la
terra, si vede che il Leopardi dà al _cuore_ una preminenza che gli
antichi non pensarono a concedergli, e che invece gli fu universalmente
conceduta dai romantici. Dai _tristi e cari moti del core_ riconosce il
poeta ogni dolcezza di vita;
Da te, mio cor, quest'ultimo
Spirto, e l'ardor natio,
Ogni conforto mio
Solo da te mi vien[411];
e quando gli sembra di non avere più nulla a sperare sopra la terra,
dice al proprio cuore:
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, nè di sospiri è degna
La terra[412].
Or chi non sa che per Werther, come pel Rousseau, il cuore è tutto? E
come Werther il Leopardi si diletta delle lacrime, e come il Rousseau
celebra il Leopardi la sensitività. Nel suo _cormentalismo_ il
Maroncelli stabilisce tra core e mente una certa eguaglianza o un certo
equilibrio: il Leopardi dà al cuore la primazia e il sopravvento.
Quel senso dell'indefinito e dell'infinito che noi troviam nel
Leopardi, com'è cosa assai più cristiana che pagana, così ancora è
cosa assai più romantica che classica. Rileggasi la breve poesia del
Leopardi intitolata appunto _L'Infinito_, e confrontisi con questo
passo di una nota lettera del Rousseau: «Bientôt de la surface de la
terre j'élevais mes idées à tous les êtres de la nature, au système
universel des choses, à l'être incompréhensible qui embrasse tout.
Alors l'esprit perdu dans cette immensité, je ne pensais pas, je
ne raisonnais pas, je ne philosophais pas; je me sentais, avec une
sorte de volupté, accablé du poids de cet univers, je me livrais
avec ravissement à la confusion de ces grandes idées, j'aimais à me
perdre en imagination dans l'espace; mon cœur resserré dans les bornes
des êtres s'y trouvait trop à l'étroit; j'étouffais dans l'univers;
j'aurais voulu m'élancer dans l'infini»[413]. A queste parole, e a
quelle del poeta italiano, molti riscontri si potrebbero trovare, per
una parte nel Pascal, per un'altra nello Chateaubriand e in numerosi
romantici d'ogni lingua.
Ancora sente di romantico nel Leopardi la grande importanza e dignità
che, sia nella vita, sia nell'arte, egli riconosce alla fantasia,
giudicata facoltà superiore alla ragione; e il concetto quasi mitico
ch'egli si forma del genio; e quell'ardor d'entusiasmo, che fu, nel
romanticismo, una reazione contro il razionalismo freddo e tagliente.
Che se poi ricordiamo essere stato il romanticismo definito da alcuni
un eccesso di soggettivismo, e pensiamo quanta fu, e di che maniera,
la soggettività del Leopardi, non potremo non venire nella conclusione
che, anche per questo rispetto, il Leopardi fu assai men classico che
romantico. Quella soggettività permalosa si dà anche a conoscere, se
non erro, nel fatto che il poeta non esercitò, da quella di poeta e
di studioso in fuori, altra professione. Intendo bene che la ragion
prima e principale di ciò è da cercare nell'affranta salute; ma ce
ne fu probabilmente un'altra. Già il Petrarca ebbe a considerare la
professione, il cómpito determinato e tirannico, quale una menomazione
dell'uomo. Il Rousseau non potè mai assoggettarsi a un officio stabile.
Werther dice gli impieghi, occupazioni da cenciosi. René, Obermann, non
si sa che cosa facciano. Rolla non ha imparato a far nulla:
Il eut trouvé d'ailleurs tout travail impossible:
Un gagne-pain quelconque, un métier de valet,
Soulevait sur sa lèvre un rire inextinguible[414].
Il Leopardi s'ammazzò col lavoro, ma col lavoro libero[415]. Il suo
esagerato soggettivismo doveva ripugnare ad ogni altra maniera di
occupazione, e come quel soggettivismo è romantico, così ancora sono
romantici la perpetua preoccupazion di sè stesso e la particolar forma
di lirismo che ne derivano. Che più? Se ci abbisogna qualche indizio
di satanismo, nemmen questo manca. Tra le carte lasciate dal Ranieri si
trova l'appunto di una specie d'invocazione ad Arimane che comincia con
le parole: _Re delle cose, autor del mondo_, e dove il poeta si vanta
d'essere stato di Arimane il maggior predicatore e l'apostolo della sua
religione[416].
Se molto di romantico troviamo in certi sentimenti e abiti mentali del
Leopardi, molto ancora troviamo in certe sue inclinazioni e opinioni,
in alcuni giudizii e propositi che più direttamente riflettono la
letteratura e l'arte.
Sino dalla prima sua giovinezza egli si mostra risolutamente avverso
alla imitazione, e tiene la originalità in grandissimo conto. Ora,
che altro facevano i classicisti se non predicar del continuo che gli
antichi non potevano essere superati, e che perciò la più savia cosa
che i moderni potessero fare era d'imitarli? e che altro i romantici
se non gridare che la imitazione rovinava la poesia, e che non è vera
poesia dove non è originalità, cioè spontaneità, cioè inspirazione
propria e sincera? Il 10 dicembre del 1810 il Leopardi scriveva al
Giordani: «Dimmi se l'opera del Monti va innanzi, e il poema dell'Arici
se lo stimi da qualche cosa. Io non l'ho già veduto, eccetto alcuni
versi. Dico sinceramente che m'hanno confermato nella opinione ch'io
n'avea. In sostanza Omero, Virgilio, l'Ariosto, il Tasso hanno scritto
poemi eroici, e fatta una strada. Qualunque italiano si metta alla
stessa impresa, già non pensa neppure in sogno di correre un altro
sentiero. E non dico solamente un altro sentiero in grande, ma neanche
nelle minuzie. E quando l'Arici arrivasse anche a darci un altro Tasso,
non bastava quello che avevamo?.... In Italia è morta anche la facoltà
d'inventare e d'immaginare, che pareva e pare tuttavia così propria
della nostra nazione»[417]. Ricordiamoci a questo proposito che il
Keats diceva essere l'invenzione la stella polare della poesia, e che
lo Shelley definiva la poesia la espressione della immaginativa[418].
Allo stesso Giordani il Leopardi scriveva e riscriveva che tutto era
da rifare in Italia in materia di letteratura; la lirica, la quale gli
pareva non fosse anco nata tra noi; la tragedia, di cui l'Alfieri aveva
insegnata una forma sola; l'eloquenza poetica, letteraria e politica;
«la filosofia propria del tempo, la satira, la poesia d'ogni genere
accomodata all'età nostra, fino a una lingua e a uno stile, ch'essendo
classico e antico, paia moderno e sia facile a intendere e dilettevole
così al volgo come ai letterati». Voleva rifatto _il di fuori e il
di dentro della prosa_, e si doleva che la fortuna gli avesse tolto
ormai persino la «speranza di mostrare all'Italia qualche cosa ch'ella
presentemente non si sappia neanche sognare»[419]. Se ne togliamo
quello stile, ch'essendo classico e antico, paja anche moderno[420],
che cosa è qui che dovesse spiacere ai romantici? Non dicevano essi per
l'appunto che tutto era da rifare in letteratura? E bene o male, che
non è da discuterne ora, non rifecero essi, o, almeno, non tentarono di
rifare ogni cosa?
L'idea di una letteratura civile non è, di certo, propria de' soli
romantici, sebbene appartenga anche a loro; ma si può ben dire che sia
tutta loro nei tempi moderni l'idea di una letteratura popolare. Il
Leopardi, che giudicava dovere le lettere dipendere dalla filosofia, e
credeva non poter essere nazione dove non sia letteratura[421], volle
letteratura civile e volle letteratura popolare. Le sue proprie parole
tolgono ogni dubbio in proposito. Già in quelle prime sue lettere
al Giordani egli accennava ad una letteratura _non segregata dal
popolo_, e al Montani in quello stesso tempo scriveva: «per corona de'
nostri mali, dal seicento in poi s'è levato un muro fra i letterati
ed il popolo che sempre più s'alza, ed è cosa sconosciuta appresso
le altre nazioni. E mentre amiamo tanto i classici, non vogliamo
vedere che tutti i classici greci, tutti i classici latini, tutti
gl'italiani antichi hanno scritto pel tempo loro, e secondo i bisogni,
i desideri, i costumi e sopra tutto il sapere e l'intelligenza de'
loro compatriotti e contemporanei»[422]. Il poeta deve scrivere per
il volgo, e la letteratura dev'essere utile, ripeteva egli poco di
poi[423]; e nel già ricordato disegno di uno scritto sulla condizione
delle lettere italiane affermava novamente esser necessario «di render
qui, com'è già totalmente altrove, popolare la letteratura vera
italiana, adatta e cara alle donne e alle persone non letterate»,
e batteva sulla «necessità di libri italiani dilettevoli e utili
per tutta la nazione»[424]. Perciò parlava con disprezzo di quella
letteratura che tutta consisteva in far sonetti e versi latini[425]; e
vagheggiava di scrivere libri atti a muovere gl'italiani e rigenerare
la patria, vite del Kosciuszko e del Paoli, ecc. Forma molto acconcia
a tal fine parevagli quella del romanzo storico e della biografia;
e pensava l'autore di sì fatti libri dovere avere tutte le virtù
dello storico, senza però volere far opera storica propriamente,
ma esortativa, anche ajutandosi colla «possibile piacevolezza dei
racconti»[426]. Voleva letteratura dilettevole, parendogli che
«il privare gli uomini del dilettevole negli studi» fosse «un vero
malefizio al genere umano»[427]. Giunse persino a dissuadere dal far
versi, perchè esercizio frivolo e da servire ai tiranni[428]. Veggasi
ora se queste opinioni e questi propositi contrastino alla celebre
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