Foscolo, Manzoni, Leopardi: saggi - 20

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psichico, per cui molte cause rimangono continuamente frustrate de'
loro effetti, e l'equilibrio, turbato da una parte, si ricompone da
un'altra. Onde, salvo che nei casi estremi e tipici, il giudizio torna
assai malsicuro, e facilmente può essere soverchiato dal pregiudizio.
Quanto all'arte del Leopardi sarà opportuna e necessaria una
distinzione. Se badiamo a ciò che il poeta dice, non ci sarà malagevole
riconoscere i segni di quella malsanità, maggiore e minore secondo i
tempi, di cui lo stesso poeta fu conscio: se invece badiamo al modo
onde il poeta lo dice, ci sarà, nonchè malagevole, forse impossibile.
La poesia del Leopardi può assomigliarsi in qualche modo a una persona
che, ammalata di dentro, mostri inalterati i lineamenti del volto e la
forma della bellezza. Nei pensieri, e più nei sentimenti, che il poeta
vi esprime, la psicosi in vario modo si manifesta; ma vere e proprie
idee deliranti non vi si trovano; e sempre nel poeta noi conosciamo un
uomo che ordina, collega e governa le proprie idee, e riesce a vedere
anche attraverso al proprio sentimento. Nè vi si nota quell'eccesso,
sicuramente morboso, dell'_egotismo_, per cui l'uomo fatto estraneo
a tutto che lo circonda, si compiace della mostruosità sua propria,
e tanto nel modo di concepire, di sentire e di esprimersi studia e
si sforza di riuscir singolare, che si fa da ultimo inintelligibile,
nonchè ad altri, a sè stesso. Raccostare quel del Leopardi a certi
esempii, direi clinici, di perversione intellettiva, affettiva e morale
ond'è troppo copiosa la letteratura contemporanea, sarebbe in sommo
grado erroneo ed ingiusto.
Venendo a qualche più particolare e minuto esame, vediamo alcun che
dell'arte del Leopardi, prima in attinenza con le funzioni dei sensi,
poi in attinenza col pensiero e col sentimento.
Che i sensi, e più propriamente quelli che a ragione si dicono
superiori ed estetici, son cosa, in arte, di capitale importanza,
è consentito universalmente, per quanto da coloro che gli stimano
il tutto dell'arte possano dissentire coloro che non gli stimano il
tutto; e per quanto passando d'una in altr'arte, possa l'importanza
loro crescere o diminuire. La scultura, l'architettura, la pittura
vogliono l'occhio; la musica vuole l'orecchio; e quest'arti mancano, o
si pervertono, quando troppo si dilunghino dal senso da cui nacquero
primamente e per le quali son fatte. La pittura fu presso a perire
in mezzo alla comun decadenza bizantina, quando non più le forme e
i colori, ma furono sua materia i simboli e i dogmi. La poesia, ch'è
più specialmente arte dell'intelletto e del sentimento, si scioglie
tanto da tal dipendenza, che può essere esercitata e gustata anche
da chi abbia perduto l'un senso o l'altro, od entrambi; ma non tanto
si scioglie che l'esser suo non muti col mutare della condizione di
quelli; e della validità e prontezza, o tardità e infermità loro non
faccia palese e certa testimonianza.
Che diremo, per questo rispetto, del Leopardi e dell'arte sua?
Cominciamo dalla vista. Sicuramente il Leopardi (lo abbiam già notato)
non fu un visuale, o, per lomeno, non fu un visuale poderoso. Luce
e colori egli vide assai meno intensamente, non dirò di Dante, che
anche in questo è meraviglioso, ma dell'Ariosto, del Goethe, dello
Chateaubriand, dello Shelley e di cent'altri. Ognuno può avvedersi
che le poesie di lui lasciano, per questo rispetto, una impressione
assai più simile a quella di un bassorilievo greco, che a quella di un
dipinto del Tiziano o del Rubens. Se avesse atteso alla pittura, si
può essere sicuri che il Leopardi non sarebbe riuscito un colorista.
Il gran visuale dà naturalmente il grande pittore, se l'attitudine
manuale non manchi: e quando e' si consacri alla poesia, anzichè
alla pittura, ne vien fuori Teofilo Gautier, che tanto alla poesia
sottrasse di pensiero e di sentimento, quanto v'infuse di colore[465].
È da avvertire, per altro, che in tutto ciò bisogna considerare, non
soltanto la condizione particolare e propria del poeta, ma ancora
l'influsso che può avere esercitato sopra di lui una scuola, certa
tradizione d'arte o certa qualità di studii. Che la tavolozza del
Leopardi è povera, gli è un fatto[466]; ma non bisogna dimenticare che
per lo spazio di un secolo l'Arcadia, sotto pretesto di rinsanire il
gusto, aveva fatto il possibile per togliere dalla tavolozza poetica
qualsiasi colore.
Il Leopardi ebbe corta vista, e non volle mai far uso di lenti, e sino
dalla fanciullezza andò soggetto ad una irritabilità tormentosa, che
quando troppo si inaspriva, lo costringeva a smettere ogni occupazione,
a fuggire la luce, a viver nel bujo. In tali condizioni, ciò che per
gli altri è una _festa degli occhi_, doveva essere per lui un tormento;
e questa è la ragione che gli rendeva odiosi alle volte gli spettacoli
teatrali[467], de' quali, come abbiam veduto, ebbe pure talora a
compiacersi. Qui è del resto da porre un'avvertenza che riguarda, non
la vista soltanto, ma l'udito ancora e il gusto e l'odorato. I sensi
possono essere per sè poco validi, e non pertanto la memoria delle
percezioni può essere validissima, e molto spedita l'associazione loro;
e quando ciò incontri, l'uomo può riuscire un visuale non ostante
la imperfezion della vista; un uditivo non ostante la imperfezion
dell'udito; laddove i molti animali che hanno assai migliore vista e
miglior udito che l'uomo, non possono, per ciò solo, dirsi nè visuali
nè uditivi.
Che il Leopardi non sia un visuale forte, è vero; ma che non sia punto
un visuale, è falso. Innanzi tutto è da osservare che se egli non
vede molto intensamente la luce e i colori, vede molto spiccatamente
le forme; e questa è una maniera di visualità molto importante
ancor essa; e vuolsi ancora avvertire ch'è più facile ritrarre con
le parole la luce e i colori che non le forme e i movimenti. I così
detti impressionisti del tempo nostro non veggono più la linea, il
contorno, ma soltanto la chiazza di colore. Se non buon colorista, il
Leopardi avrebbe potuto riuscire buon disegnatore (e disegnò con garbo
da fanciullo), e forse scultore più buono ancora. Non è senza secreta
ragione che alcuni componimenti poetici suoi prendono argomento, come
s'è già notato, da opere di scultura[468].
Un critico francese afferma risolutamente che il Leopardi «invoque une
douzaine de fois la lune dans ses vers, jamais le soleil»[469]. Povera
critica! Il sole splende pure talvolta in mezzo a que' versi aduggiati,
e spande intorno la _divina luce_, l'_alma luce_, l'_etereo lume_,
e colora il cielo delle rose della _tacita aurora_ e delle porpore
del tramonto, e arde in pien meriggio, e saettando _i tremoli rai_,
brilla sui campi, e fa rosseggiare il _tetto del villanello industre_,
e _naufrago uscendo_ dalle nuvole antiche l'_atro polo di vaga iri_
dipinge, e
folgorando intorno
Con sue fiamme possenti
Di lucidi torrenti
innonda gli eterei campi. Come e quanto il poeta vedesse la luna
l'abbiam già notato; e le stelle dell'Orsa, e le _purpuree faci delle
rotanti sfere_, non furono senza luce e senza vaghezza agli stanchi
occhi suoi; a quegli occhi che andavano spiando la _notturna lampa_
tralucente dai balconi, e le _ardenti lucerne_, e contemplavano da
lunge
il baglior della funerea lava
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Il Leopardi non fu così povero visuale ch'e' non prendesse gusto allo
spettacolo dei ballo in teatro; e a quello che gli offriva il corso
di Roma in tempo di carnovale; e a quello della festa degli addobbi
in Bologna; e a quello ancora che presentava in una bella giornata
del verno il lung'Arno in Pisa, pien di sole e di gente; e molto non
gli rincrescesse di non poter assistere alle feste di San Giovanni
in Firenze[470]. E non fu così povero visuale che non riuscisse a
far vedere a noi, ne' suoi versi, e la figura di Simonide, in atto di
salire il colle e cantar le lodi de' caduti alle Termopili; e la sposa
spartana che sull'estinto guerriero spande le negre chiome; e l'eroe
vinto dal fato, ma non domo,
Quando nell'alto lato
L'amaro ferro intride
E maligno alle nere ombre sorride;
e ancora la donzelletta che se ne torna col suo fascio dell'erba;
e la vecchierella seduta con le vicine sulla scala; e i fanciulli
che ruzzano sulla piazzuola; e il legnajuolo che nella chiusa
bottega, al lume della lucerna, s'affretta a compiere l'opera; e in
tutt'altr'ordine d'aspetti e d'immagini, l'arida schiena del Vesuvio
e le rovine della dissepolta Pompei. Che se le donne da lui amate e
ricordate non ci appajon dinanzi con lineamenti e atteggiamenti molto
spiccati, ciò non vuol già dire che il poeta, grande ammiratore e
contemplatore di beltà femminile, come s'è notato, non ne ricevesse
dentro abbastanza intensamente la immagine; ma vuol dire che, nell'atto
di parlar di loro, il poeta si abbandonava a certi soperchianti
moti dell'animo, che importavano altri modi di manifestazione e di
espressione. Non bisogna dimenticar mai che il Leopardi è sopratutto
un intellettuale e un sensitivo; lo che importa, fra l'altro, che la
vivezza delle idee e dei sentimenti superi quella delle sensazioni
e delle percezioni; e che queste, senza perciò essere di necessità
deboli, servano, più che ad altro, a suggerire e muovere quelli.
La immagine della Silvia è appena accennata: negre chiome, occhi
ridenti e fuggitivi, sguardi innamorati e schivi, un atteggiamento
di persona gentile, che lenta e pensosa ponga il piede sopra una
soglia. Ma notisi, per altro, come in quei pochi versi le immagini non
ottiche propriamente riescano, per via di associazione, a suscitare
immagini ottiche; sicchè da ultimo, la Silvia noi crediam di vederla.
La immagine della Nerina si può dire che non sia nemmeno accennata.
Quella dell'Aspasia si delinea e si colora un po' più: alle denotazioni
vaghe e generiche si aggiungono, in una certa misura, le precise e
specifiche. La _superba visione_, l'_angelica forma_, è vestita del
_colore della bruna viola_, offre all'altrui sguardo _niveo collo, man
leggiadrissima_, lascia indovinare il _seno ascoso e desiato_, e appar
da ultimo viva e salda,
inchino il fianco
Sovra nitide pelli, e circonfusa
D'arcana voluttà,
in atto di baciare i figliuoli. Qui ci sarebbe materia anche pel
pittore, o per lo scultore.
Ma, in generale, il poeta, in cui, ad ogni più lieve stimolo, il
sentimento si suscita e s'infervora, o si esacerba, più che indugiarsi
a ritrarre, per via di descrizione, gli aspetti reali delle cose,
si piace di significare gli effetti prodotti nell'animo da quelli;
e a quelli il lettore può poi risalire per la via dell'associazione
e dell'induzione. Il poeta, esprimendo il sentimento che in noi
desterebbe la vista della realtà, se l'avessimo presente, ci dà
modo, con isquisito magistero d'arte, di ritrovare da noi, e quasi di
ricreare quella realtà. Sì fatto procedimento appar manifesto, più che
altrove, nella canzone _Sopra il ritratto di una bella donna, scolpito
nel monumento sepolcrale della medesima_. Un altro poeta avrebbe forse
tentato di far rivivere la bella donna morta e di farcela apparire
davanti, descrivendola minutamente: il Leopardi non descrive; ma
ricorda quel _dolce sguardo_, che fece tremare ognuno in cui s'affisò;
quel labbro, da cui, come da _urna piena_, traboccava il piacere;
quel collo cinto
Già di desio; quell'amorosa mano
Che spesso, ove fu pôrta,
Sentì gelida far la man che strinse;
E il seno, onde la gente
Visibilmente di pallor si tinse.
Qui finisce che la donna bellissima si vede, sebbene non una delle
sue bellezze sia descritta distintamente; e così pure avviene che di
sotto alla rigida e fredda forma marmorea appaja, viva e seducente, la
fanciulla del _basso rilievo antico sepolcrale_[471].
Di questo medesimo procedimento usa assai volte, non per deliberato
proposito, ma per naturale impulso il poeta, quando voglia ritrarre
singole cose inanimate, o grandi aspetti della natura. Egli non
descrive se non con grandissima parsimonia, e preferisce il suggerire
al descrivere. Così, per esempio, nella _Vita solitaria_, la scena del
lago
Di taciturne piante incoronato,
si può appena dire che sia descritta; e se noi, dopo di essercela
veduta sorgere con tanta evidenza nella fantasia, cerchiamo ne'
versi del poeta la ragione di quella evidenza, rimaniamo stupiti nel
riconoscere che essa è dovuta, in grandissima parte, a termini ed
accenni negativi (non foglia che si crolli al vento, non onda che
s'increspi, non cicala che strida, non uccello che batta penna in ramo,
non farfalla che ronzi, non voce, non moto), e a un sentimento tutto
negativo del poeta, che, sedendo immoto, quasi sè stesso e il mondo
obblia; e nel riconoscere ancora che di quelle immagini parecchie non
sono immagini ottiche. Così la ridente campagna cui s'affacciava il
poeta al tempo dell'amor suo per la Silvia, non è descritta; ma il
poeta ce la suggerisce, quando, accennato al cielo sereno, alle vie
dorate, agli orti, al mare, al monte, soggiunge:
Lingua mortal non dice
Ciò ch'io provava in seno.
Così, finalmente, l'_erme contrade_ che si stendono intorno a Roma
non sono descritte; ma il poeta ce le fa pur vedere nella _Ginestra_,
quando ricorda il sentimento di cui esse ingombrano l'animo al
passeggiero. In quella stessa _Ginestra_ sono, del resto, le più
compiute descrizioni che il Leopardi abbia fatte[472].
Certo che se lo paragoniamo con altri poeti, il Leopardi ci potrà
parere assai volte descrittor troppo rapido e troppo scarso; ma
tale manchevolezza è in lui, giova ripetere, non tanto un effetto
della deficienza del senso, quanto della subordinazione del senso
al sentimento e all'intelletto; ed è, per più rispetti, condizion
necessaria di alcune, a mio credere, maggiori efficienze dell'arte sua.
Ad ogni modo gli è cosa ben degna di nota che il Leopardi, anche quando
traduce, per così dire, i termini del mondo esteriore in termini del
mondo interiore, riesce a conservare alle cose un carattere di realtà e
di sodezza che molte volte si desidera invano in poeti che descrivono
a lungo e minutamente. Il Lamartine affoga e dissolve nel proprio
sentimento le cose. L'Hugo spesso le adultera e sforma, dei proprii
sentimenti facendo attributi di quelle. Il Leopardi, suggerendole con
l'ajuto de' sentimenti, le lascia intatte. E avvertitamente ho detto
quando traduce, perchè non sempre ei traduce; e certi tocchi realistici
di una poesia tutta giovanile quale il _Primo amore_ (lo scalpitar
dei cavalli nel cortile ecc.); e i quadretti fiamminghi della _Quiete
dopo la tempesta_ e del _Sabato del villaggio_; e qua e là certe
descrizioni vere e proprie, come quella della procella notturna nel
frammento, giovanile ancor esso, che comincia _Spento il diurno raggio
in occidente_, e quelle della campagna vesuviana e di Pompei nella
_Ginestra_; mostrano che non si può accogliere senza qualche riserbo
la opinione espressa con parole molto asciutte dal De Sanctis, che al
Leopardi mancasse la virtù rappresentativa del mondo esteriore[473]; e
mostrano essere la natura dei genii così mobile e proteiforme da non
potersi ridurre entro schemi rigidi e chiusi. Come la vita stessa e
come la natura, il genio ripugna alle definizioni troppo precise.
Una cosa bensì parmi si possa ammettere senza contrasto, e cioè che
il Leopardi fu più un uditivo che un visuale. Fra tutte l'arti egli,
come s'è veduto, predilesse ed esaltò la musica; il che vuol dire che
il maggior piacere ch'egli potesse ricevere per la via de' sensi fu
quello dei suoni, e che ai suoni era sempre aperto e intento l'animo
suo. Oserei dire che ogni qual volta, nel designare e caratterizzare
un oggetto, egli ebbe libertà di scegliere fra un epiteto di forma
o di colore e un epiteto di suono, l'animo suo spontaneamente e
inconsapevolmente inclinò a preferire al primo il secondo; nè però è
tolta negli scritti suoi la prevalenza del primo, dacchè noi riceviamo
dalle cose assai più impressioni ottiche (di forma o di colore) che
acustiche. Così è che il poeta dirà volentieri _sibilanti selve, etra
sonante, echeggiante arena, ululati spechi, tacita aurora_, ecc. ecc.;
e volentieri si servirà di termini di suono per far sorgere in noi le
immagini delle cose; e di molte cose farà quasi consistere l'anima nel
suono; e facilmente da ogni altra sensazione e dai sentimenti e dai
pensieri stessi farà scaturire immagini acustiche. Le piante, più che
per la via della vista, lo impressioneranno per la via dell'udito, sia
che si tacciano sonnolente (_tacita selva, taciturne piante_), sin che
susurrino al vento (_l'atro Bosco mormorerà fra le alte mura; — De'
faggi Il murmure; — E come il vento Odo stormir tra queste piante; —
susurrando al vento I viali odorati ed i cipressi Là nella selva_).
Dell'onda alpina il poeta noterà l'_inudito fragore_, e della lava, il
suono che rende sotto i passi del pellegrino. Nel silenzio meridiano
e nella quiete dei campi sonerà _arguto carme d'agresti Pani_. La
fanciulla della _Vita solitaria_,
Che all'opre di sua man la notte aggiunge,
è quasi tutta nell'_arguto suo canto_; e nel suo _perpetuo canto_
è quasi il più della Silvia, e nella _gioconda voce_ il più della
gloria. L'artigiano che _a tarda notte_ riede _al suo povero ostello_;
l'altro che, cessata la pioggia viene a guardare l'_umido cielo_; il
carrettiere, sotto _l'estremo albor della fuggente luce_; il _faticoso
agricoltore_ smarrito in fondo alla valle; si dànno a conoscere ciascun
col canto; lo zappatore col fischio; l'erbajuolo col grido. I _nuovi
nati_ miagolano. E più attraggono l'attenzion del poeta le voci che
non gli aspetti degli animali: il _canto de' colorati augelli_, e
in ispecie quello del passero solitario, ond'_erra l'armonia_ per
la valle; l'usato _verso_ della gallina: lo scalpitar dei cavalli
impazienti; il belare dei greggi; il mugghiar degli armenti; il canto
Della rana rimota alla campagna.
Sembra che il poeta abbia pronto sempre l'orecchio a cogliere e
discernere i suoni più disparati, dai più lievi ai più intensi: un
sospirar di vento tra le fronde commosse; un tintinnar di sonagli;
un stridere del carro che riprende il cammino; il _lieto rumore_, che
fanno i fanciulli ruzzando sulla piazzuola; il suono delle _tranquille
opre de' servi_: lo strepito del martello e della sega del legnajuolo;
la voce delle campane che suonano le ore, o annunziano la festa che
viene; un _tonar di ferree canne_
Che rimbomba lontan di villa in villa;
il cupo rombo del tuono che erra di giogo in giogo. Che non ode e non
ascolta il Leopardi, se nemmeno il _romorio De' crepitanti pasticcini_
lascia passare inosservato? I fatti stessi della storia egli
s'industria di ricordare e rappresentare mediante immagini e metafore
di suono; onde il _calpestio de' barbari cavalli_ sta a significare
le invasioni barbariche; la potenza di Roma è raffigurata, oltrechè
nell'armi, in un _fragorio_
Che n'andò per la terra e l'Oceáno;
la disfatta e il terrore dell'Asia, vinta a Maratona, si esprime
in uno _sconsolato grido_; e al _grido_ degli avi, e al _suono_ dei
popoli antichi, si contrappone il _suono_ dell'età presente. Il poeta
dirà _sera delle umane cose_ e _infelice scena del mondo_, metafore
suggerite da immagini visive; ma dirà pure _suono della vita_, e
_ascoltare il flutto dell'ore putri e lente_. Affacciandoglisi al
pensiero la morte, egli súbito corre con la fantasia
al suon della funebre squilla.
Al canto che conduce
La gente morta al sempiterno obblio.
Tutto ciò basta, parmi, a provare che il Leopardi, se non fu un visuale
del tutto povero, fu tuttavia migliore uditivo che visuale.
Delle rimanenti attitudini sensorie del poeta, quali si possono
rintracciar ne' suoi versi, non c'è gran cosa da dire. Il tatto
vi si accusa appena in pochi epiteti, di cui _molle_ è uno de' più
frequenti[474]. Il gusto vi si appalesa principalmente con l'epiteto
_amaro_. L'olfato vi tiene un po' più di luogo con molta uniformità
di epiteti generici: _primavera odorata, odorate piagge, odorati
colli, Eden odorato, selve odorate della ginestra, dolcissimo odore
della ginestra, profumo di fiorita piaggia, vie cittadine olezzanti
di fiori, fumo de' sigari odorato_. La immagine di Aspasia è nella
fantasia del poeta associata col ricordo del profumo _de' novelli
fiori_ onde erano, certo giorno, _tutti odorati_ gli appartamenti
della bella ammaliatrice. Ciò potrebbe provare qualcosa, e trarci
magari a discorrere di certe peculiari forme di erotismo, se la
povertà degli epiteti notata di sopra non provasse in modo, a mio
credere, perentorio che l'olfato non fu molto attivo nel Leopardi.
Leggiamo, gli è vero, nei _Detti memorabili di Filippo Ottonieri_:
«E paragonava universalmente i piaceri umani agii odori: perchè
giudicava che questi sogliono lasciare maggior desiderio di sè, che
qualunque altra sensazione, parlando proporzionatamente al diletto;
e di tutti i sensi dell'uomo, il più lontano da poter esser fatto
pago dai propri piaceri, stimava che fosse l'odorato»[475]; ma tutto
ciò probabilmente il poeta disse per poter poi soggiungere, aforisma
popolare di filosofia pessimistica, che delle cose buone da mangiare
l'odore vince ordinariamente il sapore; nè parmi a ogni modo che quelle
parole, non suffragate da altro, possano essere prese a documento della
iperosmia del poeta[476]. Siamo qui ben lungi da quella iperestesia
olfativa di cui si ha così notabile esempio nel Baudelaire; ma siamo
anche ben lungi da quella e da altre consimili perversioni sensorie.
I sensi deboli del Leopardi danno sensazioni deboli e scarse, ma non
pervertite.
Quella che dicono attitudine motiva fu certo scarsa assai nel Leopardi;
ma egli non visse già sempre in quello stato d'immobilità e di torpore
di cui fanno ricordo la _Vita solitaria_ e il _Risorgimento_; e se il
muoversi gli era di noja, come dice egli stesso, seppe, nulladimeno,
ritrarre il moto nelle parole e far muovere i versi. Gli epiteti
di moto sono usati da lui con frequenza notabile; ed egli mostra
certa inclinazione a rappresentarsi in movimento le cose, e sceglie
volentieri, per significarle o rappresentarle altrui, immagini di
moto. Egli dirà che la primavera _esulta per li campi_ e il nembo _per
l'aere_; che il tuono erra _per l'atre nubi e le montagne_; che l'aura,
e il canto del passero solitario, errano per i prati e la valle.
L'amore è una _formidabil possa_ che tutto avvolge. Lo spirito erra pel
delizioso mare della musica come
Ardito notator per l'Oceáno.
Lo sfogo di Saffo in cospetto della natura è tutto pieno d'immagini di
moto:
Noi l'insueto allor gaudio ravviva
Quando per l'etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto
Polveroso de' Noti, e quando il carro,
Grave carro di Giove, a noi sul capo
Tonando il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova tra' nembi, e noi la vasta
Fuga de' greggi sbigottiti, o d'alto
Fiume alla dubbia sponda
Il suono e la vittrice ira dell'onda.
Negli uccelli, ciò che, dopo il canto, più piace al poeta che ne
tessè l'_Elogio_, è quel loro sempre far festa, e eccirintar mille
giri, e cangiar luogo a ogni tratto, e volar per sollazzo, e non
istare mai fermi, e, insomma, esercitare continuamente il corpo. Al
tranquillo raggio della luna egli vede danzare le lepri nelle selve;
e, al sopravvenire del giorno, la fiera agitar per le balze la _plebe
delle minori belve_. Vede, sui campi di battaglia, _fluttuar_ fanti e
cavalli[477]: vede
intralciare ai vinti
La fuga i carri e le tende cadute.
Il Vesuvio si appresenta alla fantasia di lui essenzialmente quale
_sterminatore_. Il poeta si gioverà pure d'immagini di moto a
significare e simboleggiare fatti o morali o storici. Egli dirà _l'onda
e il turbo degli affetti_; dirà che, _violento irrompe nel Tartaro_ chi
si dà volontario la morte. L'italica virtù giace _divelta nella tracia
polve_;
dalle somme vette
Roma antica ruina.
Qua e là irrompono versi che danno impressioni di moto repentine e
vivissime:
Prima divelte in mar precipitando,
Spente nell'imo strideran le stelle;
Ma se spezzar la fronte
Ne' rudi tronchi, o da montano sasso
Dare al vento precipiti le membra.....
Uno dei più vigorosi canti del poeta è consacrato _A un vincitore nel
pallone_. Il poeta ha l'idea della forza, non avendone l'atto[478].
Ora, venendo per questa parte a concludere, stimo si debba dire che
nella poesia del Leopardi i sensi non operano così scarsamente come
taluno potrebbe credere; sebbene l'intelletto e il sentimento operino
assai più; e sebbene l'operazione de' sensi possa sembrare davvero
assai scarsa, quando si tragga il Leopardi a confronto con altri
poeti. Un grande visuale il Leopardi non è; e se di questo bisognasse
altra prova, basterebbe, credo, recare i luoghi delle sue poesie dove
si discorre della primavera, e cioè di cosa più che altra mai atta a
suscitare immagini visuali; e poi paragonarli con luoghi paralleli
di altri poeti. Leggasi il canto che appunto _Alla primavera_ s
intitola; leggasi il _Passero solitario_: ben si sente in que' versi la
primavera, ma non molto si vede, perchè il poeta non tanto bada alle
sembianze di quella, quanto al pensiero e al sentimento che gli si
muovono dentro.
Primavera dintorno
Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
Sì ch'a mirarla intenerisce il core.
E questo è tutto, o quasi. Chi voglia aver viva la impressione della
dissomiglianza, anzi del contrasto, dei procedimenti e dei modi, e
di tutto quel più che potrebbe (non dico e non voglio dire dovrebbe)
esserci in quei versi, legga, pur tenendo il debito conto della
diversità grande delle nature ritratte, certe poesie del Leconte de
Lisle, come _La Bernica_ e _L'aurore_. Più che un visuale, il Leopardi
fu un uditivo.
Passiamo ora a considerare altri aspetti e altri modi dell'arte
leopardiana, e cioè quelli che hanno più propria e stretta attinenza
con l'intelletto e col sentimento.
Del modo che teneva nel comporre diede notizia lo stesso poeta: «Io
non ho scritto in mia vita se non pochissime e brevi poesie. Nello
scriverle non ho mai seguito altro che un'ispirazione (o frenesia),
sopraggiungendo la quale, in due minuti io formava il disegno e
la distribuzione di tutto il componimento. Fatto questo, soglio
sempre aspettare che mi torni un altro momento, e tornandomi (che
ordinariamente non succede se non di là a qualche mese), mi pongo
allora a comporre, ma con tanta lentezza, che non mi è possibile
terminare una poesia, benchè brevissima, in meno di due o tre
settimane. Questo è il mio metodo, e se l'ispirazione non mi nasce da
sè, più facilmente uscirebbe acqua da un tronco, che un solo verso dal
mio cervello»[479]. Questo passo è degno di tutta la nostra attenzione,
dacchè ci fa instruiti di cose che importano; non meno alla storia
psicologica che all'arte del nostro poeta.
Prima di tutto se ne ricava che il lavoro creativo si divideva nel
Leopardi in due parti, o vogliam dire momenti: l'uno rapido e come
istintivo, sotto lo stimolo della inspirazione; l'altro lento e
consapevole, sotto il governo della riflessione. Non a tutti i poeti
interviene il medesimo. Ne sono alcuni che sotto l'impulso della
inspirazione si buttano a scrivere, e tiran giù l'opera tutta d'un
fiato; come faceva il Byron, che ben di rado tornò sopra qualcuna delle
cose sue; e si paragonava da sè stesso a una tigre, che, spiccato il
salto, se non raggiunta di primo tratto la preda, stizzita e nojata
si rinselva[480]. Altri compongono alla ventura, senza sapere dove
vanno a parare, e aspettando che il già fatto suggerisca loro il da
fare. Quelli tutto aspettano dalla inspirazione; questi negano che
inspirazione ci sia, oppure la fanno consistere in un lungo e paziente
esercizio. Ma la inspirazione è un fatto reale dello spirito, non una
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