Foscolo, Manzoni, Leopardi: saggi - 16

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_di mente e di cuore_, e se non pietosa, conscia almeno di sè e di noi.
Come, ahi come, o natura, il cor ti soffre
Di strappar dalle braccia
All'amico l'amico,
Al fratello il fratello,
La prole al genitore,
All'amante l'amore: e l'uno estinto,
L'altro in vita serbar?[319]
Nella stessa _Ginestra_, in quel supremo e terribil canto, dove, quasi
insiem con la vita, il poeta esala il suo finale pensiero, e grida il
verbo funereo in che tutta s'assomma e si ristringe la sua filosofia,
tra le invettive e le imprecazioni da lui scagliate alla natura,
rispunta, come un raggio nel bujo, l'antico amor giovanile, e ancora
lampeggia nelle dolci parole, penetrate di tenerezza e di mestizia, con
cui egli saluta l'odorata pianta
di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna;
e il _fior gentile_, che quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor manda un profumo
Che il deserto consola.
E questo è forse più proprio e più degno d'innamorato vero, che non può
giungere a odiare del tutto mai l'oggetto dell'antico amor suo. Ond'è
da notare, per questo rispetto, una diversità grande fra l'autore della
_Ginestra_ e un altro, non tanto grande, ma pure assai ragguardevole,
poeta pessimista, Alfredo De Vigny. Veramente Alfredo De Vigny teme e
odia la natura, e l'animo proprio manifesta con dure parole. La natura
così vanta sè stessa:
Je roule avec dédain, sans voir et sans entendre,
A côté des fourmis les populations[320];
Je ne distingue pas leur terrier de leur cendre,
J'ignore en les portant les noms des nations.
A tale vanto il poeta sente riempiersi il cuore di amarezza e di
aborrimento, e distogliendo lo sguardo dalle crudeli bellezze che lo
avevano abbagliato un istante, esclama:
C'est là ce que me dit sa voix triste et superbe,
Et dans mon cœur alors je la hais et je vois
Notre sang dans son onde et nos morts sous son herbe,
Nourrissant de leurs sucs la racine des bois.
Et je dis à mes yeux qui lui trouvaient des charmes:
«Ailleurs tous vos regards, ailleurs toutes vos larmes,
Aimez ce que jamais on ne verra deux fois».
Vivez, froide Nature, et revivez sans cesse
Sous nos pieds, sur nos fronts, puisque c'est votre loi;
Vivez et dédaignez, si vous êtes déesse,
L'homme, humble passager, qui dut vous être un roi;
Plus que tout votre règne et que ses splendeurs vaines,
J'aime la majestè des souffrances humaines;
Vous ne recevrez pas un cri d'amour de moi[321].
In questi versi è accennato un fatto la cui conoscenza pare che
necessariamente debba avvelenare il sentimento della natura, e menomar
d'assai, se non togliere a dirittura, il godimento che a noi può
venire dalla contemplazione delle sue bellezze. L'occhio che passa
oltre a quella prima parvenza, subito scopre nell'ombra un aspetto
mostruoso e cruento, che non può non agghiacciar l'anima di terrore.
Quella compostezza, quella serenità, quel riso che c'incantano e
c'innamorano a prima faccia, sono una maschera, una menzogna, una
frode. Sotto la vaga superficie luminosa e dipinta è uno strazio eterno
ed oscuro, un orror senza nome di creature angosciate, che per vivere
un'ora s'insidiano a vicenda, si azzuffano, si dilaniano, dànno la
vita in perpetuo olocasto alla morte, spremono dalla morte la vita.
La natura ci si discopre allora quale un Moloch immane, inesorabile,
inappagabile, che crea a sè medesimo, senza fine e senza riposo, le
ostie dolenti di un sacrificio infinito. Come serbar vivi nell'animo
allora i sensi di fiducia e di amore? come più vagheggiare quelle
bugiarde bellezze? come impedire che il sentimento della natura si
rabbui, e tutto, per così dire, si rapprenda in un orrore della natura?
Perdette per sempre il gusto della primavera quel poeta ch'errando pei
campi in un mattino di maggio, imprevedutamente pensò che ad ogni passo
ch'ei mutava fra l'erbe, centinaja di creature, nate appena, perivano
sotto il suo piede, senza ch'ei le vedesse nemmeno.
Eppure, tanto può in noi la bellezza, che la conoscenza non basta
a sottrarci al suo fascino. Essa ci scende per gli occhi al cuore,
ci soggioga e ci conquide. Essa fa divampare l'amore; e l'amore,
notò il Leopardi, è la più vivace e possente delle illusioni, dacchè
resiste alla stessa forza dissolvente del vero. Lo Schopenhauer scorge
benissimo quell'aspetto cruento e mostruoso della natura, e s'indugia
a descriverlo; ma, nondimeno, come appena torna a pascere lo sguardo
delle care sembianze, egli esclama: Quanto è bella la natura! E così,
o in poco diverso modo, credo, il Leopardi. Egli scopre nella natura, o
dietro a lei, il _brutto potere ascoso_, e lo spettacolo delle cose non
può non rimanere alquanto aduggiato da quella grande e impenetrabile
ombra. Agli uomini del medio evo la natura apparve talvolta come una
grande ossessa, violata e posseduta dallo spirito delle tenebre: al
Leopardi la natura appare da ultimo come posseduta e contaminata dal
_brutto potere_; ma questo brutto potere non è un demone capriccioso e
fantastico; è un fato costante e indefettibile; e all'anima dell'uomo
moderno non può non venire un senso di sicurezza, di rassegnazione
e di quiete, dal sapere che la natura è retta da leggi, dure sì, ma
inflessibili e certe. A ogni modo il Leopardi non molto si sofferma
a contemplare l'aspetto mostruoso e cruento della natura; e se il
godimento che da quella egli riceve va scemando col tempo, va scemando
men per questa che per altre ragioni.
A poco a poco il suo sguardo si distoglie dalle sembianze più
graziose e si fissa sulle più austere. Il sentimento, d'idilliaco
ed elegiaco ch'era in principio, tende a diventar tragico, e alle
serene e leggiadre immagini delle prime poesie succedono, da ultimo,
le tetre e terribili della _Ginestra_. L'anima del poeta s'è venuta
infoscando sempre più, e spontaneamente cerca gli aspetti che meglio si
armonizzano col suo stato.
Placida notte, e verecondo raggio
Della cadente luna; e tu che spunti
Fra la tacita selva in su la rupe,
Nunzio del giorno; oh dilettose e care,
Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato,
Sembianze agli occhi miei; già non arride
Spettacol molle ai disperati affetti.
Tali parole, molt'anni innanzi, il poeta aveva fatto sonar sulle labbra
di Saffo disperata e già vicina a cessar nella morte il suo tormento;
ma con parole in tutto simili avrebbe potuto, più d'una volta, il poeta
esprimere il sentimento suo proprio, e allora in ispecie che volgeva
nell'anima il tema e i versi della _Ginestra_[322]. Nella _Ginestra_
non più verdi rive, non più campi e colli irradiati dal sole; ma
l'arida schiena del formidabil monte, e campi cosparsi di cenere
e coperti di lava impietrata, e il mare fatto specchio al bagliore
dell'igneo torrente, e il bipartito giogo e la cresta fumante nel
cielo, in fondo al deserto foro della dissepolta Pompei, infra le file
de' mozzi colonnati, e un ricordo dell'
erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de' mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
E qui ancora una suprema, larga visione del cielo stellato: ma
quanto diversa da quella delle _Ricordanze_, quanto anche diversa da
quella del _Canto notturno di un pastore errante dell'Asia_! Nelle
_Ricordanze_ il poeta ragiona con le stelle, e ricorda i secreti
colloquii e le dolci effusioni di un tempo. Nel _Canto notturno_
l'inquieto pastore, vedendole ardere nel cielo, chiede a che sieno, che
operino. Nella _Ginestra_ il poeta, sedendo la notte sulle desolate
piagge, mira in purissimo azzurro fiammeggiar le stelle dall'alto e
specchiarsi nel mare,
e tutto scintille in giro
Per lo voto seren brillare il mondo;
mira le nebulose senza fine remote; e l'uomo, con tutti i suoi sogni
superbi, e la terra che il regge, gli si dissolvono in nulla, e un
pensiero lo assale, in cui non sa se il riso prevalga o la compassione.
Questa fruizione, sia pur dolorosa, degli aspetti austeri o terribili
della natura segna nel sentimento una gradazione tutta moderna, e come
l'ultima forma di esso.
Abbiam notato che nella poesia del Leopardi non si hanno i grandi
spettacoli sceneggiati della natura, il paesaggio alla Rousseau.
La storia del paesaggio è, in parte, la storia di quel gusto della
solitudine che, con caratteri affatto proprii, s'è venuto manifestando
ne' tempi moderni, ben diverso da quello che in altri secoli trasse
gli uomini nei deserti e li rinchiuse negli eremi. Oramai i pittori non
sentono più affatto il bisogno di avvivare con la presenza dell'uomo,
e nemmeno con quella degli animali inferiori, le scene mute, ma non
morte, di paese, e dopo aver ritratto sulle tele la zona media della
montagna, ritraggon ora la superiore, i picchi desolati, dove non è
più lembo di verde, le giogaje marmoree, i ghiacciai. Quell'amor della
solitudine che guidò il filosofo di Ginevra a scoprir la natura e,
nella natura, il grande paesaggio romantico, non mancava, come ben
sappiamo, al Leopardi; ma il grande paesaggio romantico non fu dal
Leopardi ritratto. Alle ragioni di tal mancamento, additate sopra,
bisogna aggiungerne un'altra. La complessione delicata e l'affranta
salute non avrebbero conceduto al poeta di affrontare la più rude e
selvaggia natura per cercarvi occasione di estetico godimento. Obermann
poteva bene proporsi di valicare il San Bernardo senz'ajuto di guide,
cominciar l'ascensione quasi al sopraggiungere della notte, smarrirsi
nelle tenebre e nella neve, correre dieci volte pericolo di morte, e,
nulladimeno, provare al vivo _la grande jouissance toute particulière
que suscitait la grandeur du péril_[323]. Egli era robusto del corpo,
per quanto ammalato dell'anima. E ben poteva lord Byron rinnovare
la prodezza dell'antico Leandro, e passare a nuoto l'Ellesponto,
o, impresa più difficile ancora, la foce del Tago. Nulla di simile
poteva il Leopardi. Tutto un aspetto della natura, tutto un ordine
d'impressioni, gli dovevano rimanere sconosciuti in perpetuo.
Le variazioni cui nel Leopardi andò soggetto il sentimento della natura
non furono già così regolarmente consecutive nel tempo come forse
appajono in queste pagine. La vita di uno spirito non soffre mai quelle
partizioni certe e recise che nella storia di esso possono tornare o
necessarie o opportune. Il Leopardi non mutò in un dì, e nessuno muta
in un dì. La storia di lui fu veramente piena di corsi e di ricorsi;
e molte volte egli ebbe a tornare a quel sentimento o a quel pensiero
da cui s'era creduto allontanato per sempre. Come tornò ad amare
ripetutamente la donna, dopo essersi creduto morto all'amore, così
tornò a vagheggiar la natura, dopo averla accusata e maledetta. L'anima
umana è come il mare. Ogni giorno, nel doppio suo moto di flusso e di
riflusso, il mare scopre e ricopre quelle medesime sponde, che solo
nel giro di lunghi secoli s'alzan del tutto fuor del suo grembo, o del
tutto si sommergono in esso. Un poeta tedesco, che ebbe col Leopardi
più di una somiglianza, e fu un grande adoratore della natura, Giovanni
Hölderlin (1770-1843), scrisse una volta: «Morti gli aurei sogni della
giovinezza, fu morta per me la natura»[324]: per Giacomo Leopardi la
natura non morì in tutto mai.

CAPITOLO V.
ESTETICA DELLA MORTE.
Il Leopardi strinse in intima unione l'amore, la bellezza, la morte: è
questa una delle singolarità più caratteristiche del poeta cui Alfredo
De Musset salutò col nome di _sombre amant de la Mort_.
Due cose belle ha il mondo:
Amore e morte.
dice Consalvo: e
Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
Ingenerò la sorte.
Cose quaggiù sì belle
Altre il mondo non ha, non han le stelle,
dice il poeta nella canzone che appunto s'intitola _Amore e Morte_.
Nella quale tre cose son degne di più particolar nota: una certa
personificazione e figurazione della morte; un'associazion della morte
con l'amore; un intenso desiderio di morte.
La morte è
Bellissima fanciulla,
Dolce a veder, non quale
La si dipinge la codarda gente;
ed è genio divino e benefico che
ogni gran dolore.
Ogni gran male annulla,
e sol esso pietoso _dei terreni affanni_. Onde il morire non è dolore,
ma dolcezza, come già avvertiva il poeta nelle _Ricordanze_[325], e
come più espressamente dirà nel _Dialogo di Federico Ruysch e delle
sue mummie_[326]. E l'uomo di alto animo, che sente la _gentilezza del
morire_, al morir non ripugna, ma piega _addormentato il volto_ nel
_virgineo seno_ della fanciulla bellissima[327]. E la morte è l'unico
fine dell'essere[328].
Quella figurazione della morte non è nuova. I Greci immaginarono
una Morte sorella del Sonno (fratello propriamente, come la lingua
loro portava), ed ambo i gemelli rappresentarono talvolta in grembo
alla Notte, loro madre comune, e la Morte usarono di figurare
somigliantissima al Sonno, in sembianza di un giovane genio alato, con
nell'una mano una torcia arrovesciata e nell'altra una corona di fiori.
Tali, secondo fu primamente avvertito dal Lessing, le rappresentazioni
più proprie dell'arte figurativa; ma i poeti diedero assai volte
alla morte aspetto tetro e terribile. Nell'_Alceste_ di Euripide essa
appare sotto figura di sacrificatore infernale, in veste negra, con
un coltello fra le mani. E Ovidio non pensava di sicuro all'avvenente
sorella del Sonno quando scriveva il verso:
Omnibus obscuras injicit illa manus;
nè Orazio, quando la dipingeva volante sull'ali tenebrose; nè Seneca,
quando l'armava di avidi denti.
Nel medio evo la comune credenza, le arti figurative e la poesia
concordemente rappresentano la morte sotto forma di scheletro. Armata
o disarmata, essa è colei che in un tempo solo annunzia la sentenza,
assalta ed uccide. Suoi caratteri sono la orridezza mostruosa, e
la malvagità o schernitrice, o crudele. Perchè prevale allora una
figurazione così tetra ed orribile? Quale mutazione di credenze e di
sentimenti la spiega?
Agli antichi la morte parve cosa naturale, compresa nell'ordine primo
e costitutivo dell'universo. Gli dei sono di lor natura immortali; gli
uomini sono di lor natura mortali; se pure, come Titone, non ricevono
la immortalità in dono dai numi.
Omnia mors poscit. Lex est, non poena perire,
dice un verso attribuito a Seneca. Pei cristiani la morte è appunto il
contrario; non una legge, ma una pena. Essa appartiene, non all'ordine,
ma al disordine dell'universo. Dio creò l'uomo immortale; e l'uomo
si rese mortale, trasgredendo il precetto divino. La morte è il
frutto del peccato, il quale fu una ribellione contro la divinità, e
conseguentemente una negazion della vita, essendo Iddio la fonte unica
d'ogni vita; ed è ancora, in certo qual modo, una creatura del diavolo,
poichè il diavolo fu quegli che la introdusse nel mondo e ne la fece
signora[329]. I sette peccati capitali sono i sette peccati mortali,
e l'eterna dannazione è la seconda morte. Una morte così concepita
ed intesa non poteva vestirsi agli occhi degli uomini di sembianze nè
belle, nè decorose.
A prima giunta, per altro, non ben si comprende perchè dovesse
rivestirle così orribili ed obbrobriose come si vide di poi. Il
sentimento che della morte ebbero i primi cristiani fu molto dolce
e sereno, tutto irraggiato di speranza e di amore. Morendo per la
redenzione degli uomini, Cristo aveva nobilitata la morte, l'aveva
purgata dell'antica infamia e fattone quasi una ministra del cielo,
come l'angelo dell'antica credenza giudaica: risorgendo vittorioso dal
sepolcro, l'aveva spogliata degli antichi terrori, e di regina mutatala
in serva. I simboli che fregiano le tombe degli antichi cristiani
non lasciano vedere nulla di tetro: sono simboli di speranza e di
pace: l'áncora, la colomba, il ramo d'olivo, il pavone, la nave; e le
iscrizioni dicono che il defunto dorme, riposa, vive in Dio. I luoghi
di sepoltura si chiamano cimiterii, cioè dormitorii, o anche _concilia
martyrum_. «In christianis, mors non est mors, sed dormitio et somnus
appellatur», scriveva San Gerolamo in una delle sue epistole. La tomba
è propriamente una culla, e il giorno della morte prende il nome di
_dies natalis_. Qual meraviglia se Sant'Ambrogio scrive un trattatello
_De bono mortis_?
Ma a mano a mano che il sentimento religioso si infosca, e sulla
speranza prevale il terrore, i simboli perdono dell'antica serenità, le
figurazioni della fantasia si pervertono; ed ecco finalmente la morte
apparire in figura di scheletro scarnato, o di sformato cadavere, a
piedi o a cavallo, armata di falce o di spada, o di clava, o di spiedo;
munita di reti o di funi; la quale assalta gli uomini da sola, o a
capo di numeroso esercito, li lega, gli strazia, li uccide, oppure,
con amaro scherno, dal papa e dall'imperatore all'ultimo paltoniere,
li mena in volta negli spaventosi suoi balli. Questa morte è un vero
e proprio demonio, uscito primamente dall'inferno; fido alleato e
ministro di Satana; un diavolo giustiziere, se vuolsi, ma desideroso di
nuocere quanto più può, crudele al pari degli altri diavoli e beffardo
com'essi. E tanto è vero ch'essa fu tenuta in conto di un diavolo,
che nel tedesco _Heldenbuch_ si vede il pagano Belligan (e secondo la
comune credenza del medio evo, i pagani adoravano i diavoli) adorare un
idolo della morte. Ciò nondimeno, un ricordo delle serene immaginazioni
antiche rimane in quelle gentili leggende ascetiche della età di mezzo,
ove si vede la morte dei fratelli di un chiostro essere prenunziata
dal fiorire di un giglio, dallo spegnersi di una lampada, dal suono
spontaneo delle campane.
La morte ritratta dal Milton nel decimo libro del suo poema è tuttavia
la morte mostruosa figurata dalla fantasia de' tempi anteriori. Prima
che Satana seducesse gl'incauti ospiti del paradiso, la Colpa, figlia
e incestuosa moglie di lui, e la Morte, figliuola d'entrambi, sedevano
insieme sul limitare d'Inferno. Compiuta la seduzione, insieme esse
muovono alla conquista del mondo, giacchè l'una non può andar senza
l'altra. La Morte è come l'ombra della Colpa:
Thou my shade
Inseparable, must with me along;
For Death from Sin no power can separate[330].
La morte è un'ombra sparuta (_meagre shadow_; non già _scarnata forma_,
come tradusse Andrea Maffei), o piuttosto è uno sfasciato, cavernoso
carcame (_this mau, this wast unhide-bound corps_, che il Maffei molto
liberamente tradusse: _Quest'arido carcame e il ventre vuoto_). Ella è
armata di una clava che fa pietra di ciò che tocca; e cavalca, quando
le piaccia, un cavallo scialbo: il suo sguardo ha la stessa virtù
ch'ebbe il volto della Gorgone. Ella e la madre sua sono due _cani
infernali_.
A noi ora non giova d'andar rintracciando in altri poemi di sacro
argomento immagini e descrizioni da raccostare o da contrapporre a
quelle del poeta inglese: gioverà piuttosto notare, a conferma di
quanto s'è detto del carattere diabolico di quella Morte, che, come
ci fu, nella popolare mitologia cristiana, il diavolo ingannato e
deriso dall'uomo, così ancora ci fu la Morte ingannata e derisa. E la
ragione è pur sempre la stessa, ed è da cercare nella ferma credenza
del cristiano che il diavolo e la morte, essendo nemici di Dio, non
hanno se non una potestà apparente e passeggiera, e saranno da ultimo,
checchè facciano o tentino, i soli veri burlati. Ond'è comune a tutti i
popoli cristiani la novella dell'accorto prete, o dell'accorto villano,
che con certa astuzia relega la morte sopra un albero, o in granajo, e
per più anni non la lascia esercitare il suo officio nel mondo[331].
Difficilmente nei poeti profani del medio evo, anteriori alla prim'alba
del Rinascimento, si troverebbe parola benevola adoperata in parlar
della morte.
Morte villana, di pietà nemica,
Di dolor madre antica,
esclama Dante, dopo molt'altri che alla morte avevan dato appunto quel
titolo di villana[332]. Ma col fiorire del dolce stil nuovo, e della
dottrina d'amore che l'accompagna, cominciano i poeti d'Italia a far
palese un sentimento novello e ad usare un nuovo linguaggio. E prima
lo stesso Dante, poi il Petrarca, conoscono una morte ammansata e
raggentilita dall'amore e dalla donna. Nella canzone _Morte, poich'io
non truovo a cui mi doglia_, Dante aveva scongiurata la morte di non
uccidere la donna che _con seco ne portava il suo cuore_, e l'ammoniva
che, uccidendo lei, avrebbe discacciata virtù, tolto a leggiadria il
suo ricetto, e ad amore la sua bella insegna[333]. Il Petrarca, detto
come la Morte avesse trionfato nel volto di Laura, soggiungeva:
Partissi quella dispietata e rea,
Pallida in vista, orribile e superba,
Chè 'l lume di beltate spento avea[334].
Ma così per l'uno come per l'altro poeta, la morte doveva acquistare
nobiltà nuova, e come nuova virtù, dall'essere stata nelle donne loro;
e già Guido Cavalcanti l'aveva detta _gentile_. Dante, immaginando
morta Beatrice, esclama: «Dolcissima morte, vieni a me e non m'essere
villana; però che tu dei essere gentile, in tal parte se' stata! or
vieni a me che molto ti disidero; e tu 'l vedi ch'i' porto già lo tuo
colore». E in verso
Morte, assai dolce ti tegno:
Tu dei omai esser cosa gentile,
Poi che tu se' ne la mia donna stata,
E dei aver pietate e non disdegno.
Vedi che sì desideroso vegno
D'esser de' tuoi ch'io ti somiglio in fede.
Vieni, chè 'l cor te chiede[335].
Non solamente la morte non può fare amaro il dolce viso di Laura; ma il
dolce viso di Laura può far dolce la morte, che in quello appar bella,
e dopo la partita di colei incomincia a farsi dolce[336].
Questo fu abbellimento, diciam così, aristocratico; ma ce ne fu
anche uno popolare, probabilmente più antico. San Francesco chiamò la
morte _sora corporale_. In certe novelline popolari sparse su tutta
la faccia d'Europa, comparisce una morte comare (o compare, se così
chiede la lingua) che tiene a battesimo il figliuolo di un pover uomo,
e, alla maniera di una fata benefica, lo colma di doni. La ragione
del sentimento popolare che suggeriva sì fatte immaginazioni appar
manifesta in una delle fiabe tedesche raccolte dai fratelli Grimm[337].
Un pover uomo, cui nasce un tredicesimo figliuolo, va in cerca di un
compare. Incontra il Padre Eterno, che gli si profferisce; ma egli
lo ricusa, dicendo che il Padre Eterno dà tutto ai ricchi e lascia
morire di fame i poveri. Incontra il diavolo, e nol vuole, perchè
ingannatore e cattivo consigliero. Incontra finalmente la Morte, e
questa si toglie, perchè ricchi e poveri, grandi e piccini, tratta
tutti al medesimo modo. La morte sola è giusta in un mondo ingiusto:
_aequo pulsat pede_. Questo concetto è espresso in un gran numero di
proverbii.
Ma la morte rabbellita e raggentilita da Dante, dal Petrarca e da altri
che si potrebbero venir ricordando[338], non è ancora la morte bella e
gentile del Leopardi. Quella diventa bella e gentile per una specie di
grazia che dalle angeliche donne scende sopra di lei: questa è di sua
natura, _ab origine_, bella e gentile, assai più di quanto la potessero
immaginare gli antichi. Come nei primi secoli della fede Cristo e i
martiri santificarono la morte; così, nei tardi, le belle e amorose
donne la mansuefecero e illeggiadrirono; ma il Leopardi immagina
una morte al cui _divino stato_ non bisogna nè illeggiadrimento,
nè santificazione. Nelle Sacre Carte la morte è detta _regina degli
spaventi_; e il La Rochefoucauld avvertì: _Le soleil ni la mort ne
peuvent se regarder fixement_; e nel mistero del Byron, Caino non osa
mirar l'aspetto di colei che dal padre gli fu descritta spaventosa ed
atroce. Ognuno può guardare in volto la bellissima fanciulla immaginata
dal Leopardi.
Il pessimismo dispoglia la morte de' suoi terrori. Se la vita è brutta,
bisogna, per contrapposto, che la morte sia bella. Se la vita è dolore,
bisogna che la morte, la quale cessa ogni dolore, appaja pietosa e
benefica, e riesca fors'anche a dirittura piacevole. Fu pensiero comune
tra' Greci che la morte è rimedio a tutti i mali[339]; come potrebbe
non essere fra' pessimisti? Fu da taluni, non pessimisti, creduto
piacevol cosa il morire: come non inclinerebbe a tale credenza il
Leopardi?[340] Il Novalis, idealista e mistico, giudicava la malattia
e la morte _piaceri della vita_ (_gioia di morte_, disse una volta
Cino da Pistoja), e il morire atto di altissima filosofia: perchè non
avrebbe il Leopardi esclamato:
Bella Morte, pietosa
Tu sola al mondo dei terreni affanni[341]?
Dante e il Petrarca fecero questa esperienza, che la morte non uccide
l'amore, anzi lo trasforma e lo suggella. Beatrice e Laura morte sono,
pei loro poeti, assai da più che non fossero vive. La morte ha loro
largita una seconda vita, assai più alta e migliore della prima, le
ha divinizzate, ha trasposto l'amore da esse inspirato e sentito dal
terreno al celeste, dal temporale all'eterno. Dacchè elle son morte,
tutta la vita e tutta l'anima degl'innamorati poeti s'appuntano in
loro. Orfeo scese all'inferno per ritrovare Euridice; per ritrovare le
donne loro Dante e il Petrarca si sforzeranno di salire al cielo. A più
che quattro secoli di distanza il Novalis rifà la stessa esperienza.
Perduta la sua Sofia, egli si sente trasfigurare e trasumanare, si
strania sempre più dal mondo di qua per accostarsi sempre più al mondo
di là, invoca la morte quasi con formole di scongiuro magico, vuol
morir giovane per appresentarsi all'amata florido di salute, circonfuso
di letizia. Manfredo scende nel regno di Arimane per rivedere Astarte.
Ma la speranza e la fede che sono nel cuore di Dante, del Petrarca e
di colui che fu detto il Profeta del romanticismo, non possono essere
nel cuor del Leopardi. Pel poeta della _Ginestra_ la morte non è un
intermezzo nel dramma dell'amore, è la catastrofe ultima, con cui il
dramma si chiude per sempre. Chi voglia bene intendere ciò, faccia un
confronto fra la poesia del Leopardi intitolata _Il sogno_ e il canto o
capitolo secondo del _Trionfo della Morte_, da cui quella è inspirata.
In molte delle sue rime il Petrarca narra come rivedesse Laura in
immaginazione o nel sogno, e in molte Laura gli dice che lo aspetta in
cielo, e che gli fu dura solo per la salute d'ambedue, e gli rasciuga
gli occhi molli di pianto, e attentamente ascolta e nota la lunga
storia delle sue pene, piangendo con lui, e tanta dolcezza gli apporta
quanta uomo mortale non sentì mai[342]. Ma in nessun altro luogo si
trova ciò così largamente e teneramente espresso come nel secondo
del _Trionfo della Morte_. La notte stessa che seguì al suo salire in
cielo, Laura, sul far dell'alba, appare al poeta incoronata di gemme
orientali, gli porge la _già tanto desiata mano_, se lo fa sedere
a canto all'ombra di un lauro e di un faggio, e il tenero e pietoso
colloquio incomincia[343]. Viv'ella, o è morta?
Viva son io, e tu se' morto ancora,
Diss'ella, e serai sempre, finchè giunga
Per levarti di terra l'ultim'ora.
Ed egli: È sì gran pena il morire?
Rispose: Mentre al vulgo dietro vai
Ed a l'opinion sua cieca e dura,
Esser felice non pô' tu già mai.
La morte è fin d'una pregion oscura
Agli animi gentili; agli altri è noja
Ch'hanno posta nel fango ogni lor cura.
Duole, sì, l'_affanno_ della morte, _ma più la tema de l'eterno danno_;
chè la morte non è se non un _sospir breve_; e a lei fu mansueta la
morte; ed ella, a quel passo più lieta
Che qual d'esilio al dolce albergo riede.
Finalmente, alla domanda del poeta, s'ell'abbia mai sentita alcuna
pietà di lui, ella, lampeggiando di un dolce riso, confessa il suo
amore, e fa manifesta la ragione de' suoi rigori, la quale fu di
togliersi a lui breve tempo a fine di poter essere con lui nella
eternità.
Quanto diversi i pensieri, le credenze e però i sentimenti espressi
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