Foscolo, Manzoni, Leopardi: saggi - 22

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contraddistinguono alcune canzoni, non però vi manca quell'eloquenza
che, com'ebbe a dire lo stesso poeta, nasce spontanea sulle labbra di
chi favelli di sè.
Concediamo al Giordani che nello stile del Leopardi tiene il maggior
luogo la geometria; ma affermiamo poi risolutamente che delle altre
due doti dello stile perfetto da lui accennate, non vi manca (e
più propriamente ne' versi) la pittura, e v'è, con assai giusta e
ragionevole proporzione, la musica. E notiam qui ancora che, contro
la opinione dello stesso Giordani[505], il poeta sostenne essere la
poesia alcun che di primigenio e di autonomo, e che non s'ha da essere
prima prosatori per poi riuscire poeti[506]: verità incontrastabile,
avvertita da quanti mai furono poeti veri e grandi, e che lascia
intendere quanto sieno mal consigliati coloro che prima scrivono in
prosa ciò che intendon poi di mettere in verso, e perchè un poeta
eccellente possa essere prosatore mediocre, e un ottimo prosatore,
poeta pessimo[507].
Che il Leopardi abbia dell'armonia poetica un senso acuto e squisito,
parmi che ogni lettore non torpido, o non disattento, lo debba
senz'altro consentire. Quando, è già qualch'anno, fu fatta in Francia
una specie di pubblica inchiesta circa la riforma dell'ortografia, il
Leconte de Lisle rispose indignato a chi ne lo domandava, ch'era cosa
vergognosa e da barbari volere espellere dall'alfabeto una lettera così
piacevole all'occhio come la _y_; che al poeta occorre, non solamente
di udire, ma ancora di vedere i proprii versi: che la strofe ha un
suo disegno materiale, per cui, prima ancor dell'orecchio, l'occhio
è allettato. Se la _visualità_ può menare così lontano, noi non ci
dorremo troppo che il Leopardi sia stato un visuale mediocre. I versi
del Leopardi non sono punto fatti per gli occhi, ma bensì moltissimo
per l'intelletto e moltissimo per l'orecchio; e, nulladimeno, contano
fra i più perfetti che s'abbia, non questa nostra soltanto, ma ogni
altra letteratura[508].
I simbolisti di questi giorni, intestatisi di fare della poesia una
seconda musica, sacrificano ai suoni le idee, e non più come segni,
ma come suoni usano le parole. Se ciò prova in essi vivo e prepotente
senso della musica, senso di poesia sicurissimamente non prova. Il
Leopardi adopera le parole principalmente come segni, e secondariamente
come suoni. Il parlar suo è un parlare il più delle volte immediato e
diretto, dove abbonda il vocabolo proprio e scarseggia la perifrasi,
e poco o punto si trova di quell'armonia imitativa, che riconosciuta
da tempo quale un ripiego d'arte inferiore, va trovando a' dì nostri
chi la vuol rimettere in voce di magistero superlativo e squisito. E,
per contro, nella poesia del Leopardi molta e viva e intensa armonia
generale, prodotta dalla struttura del verso e del periodo poetico,
e da disposizione, alternazione, varia intensità e vario colore de'
suoni dentro di quelli. Il Leopardi non dimentica mai, o ben di rado
dimentica, che la poesia è arte fatta per piacere in un medesimo
tempo all'intelletto e all'orecchio; che essa non può pretendere di
farsi ascoltare da quello offendendo questo, nè di accarezzar questo
trasandando quello; ma che deve con unico, inscindibile, difficilissimo
magistero appagar l'uno e l'altro. Egli ricuserebbe la sentenza del
Flaubert, che disse: «Un beau vers qui ne signifie rien est supérieur à
un vers moins beau qui signifie quelque chose»; ma, sdegnando il verso
che suona e che non crea, egli non gradirebbe già il verso che creando
non suoni, troppo bene sapendo come il suono in questa arte sia forza
creativa, il verbo divino che trae dal nulla le cose.
Che diremo del senso e dell'arte del ritmo nel nostro poeta? So che a
taluno, cui pur sembra il Leopardi poeta grandissimo, riesce scarsa per
questa parte la virtù del Leopardi. Ma è egli possibile intender poco
le ragioni del ritmo e meritar nome di grande poeta? tanto possibile,
credo, quant'essere grande poeta e far versi cattivi. Questa non è
virtù secondaria, che possa mancare senza che tropp'altre vengano
insieme a mancare. Forse la diversità di giudizii non d'altro nasce
che da diversità di definizioni. Se per ritmo dovessimo intendere
ciò che da alcuni troppo superficiali ragionatori di arte poetica
comunemente s'intende, certa perizia, cioè, e certa aggiustatezza nel
comporre di più versi la strofe, potrebbe darsi (ma nol concedo) che il
Leopardi fosse mediocre maestro di ritmi; ma se, col Diderot, vogliamo
intendere per ritmo un'adeguazione e una rispondenza della parola,
della frase, del periodo, come suono, come moto, come intensità, alla
natura del sentimento e dell'idea, cosa ben diversa, come ognun vede,
dall'armonia puramente verbale, e dalla pienezza e rotondità della
elocuzione; allora dovremo riconoscere che anche di ritmi il Leopardi
è maestro grandissimo[509]. L'arte ritmica di lui si dà a conoscere
nella sapiente compaginatura e spezzatura de' versi, nella studiata
alternazione degli endecasillabi e de' settenarii in moltissime delle
sue poesie, nel giro della frase e del periodo; ove infinite volte
parola e pensiero sembrano formare un sol fiume, largo, copioso,
magnifico. È ritmo pieno e perfetto, in cui i due elementi, uditivo
e motore, si coadiuvan l'un l'altro e si fondono insieme; ed è ritmo
sommamente espressivo, che riesce assai volte, imitando, a produrre
impressioni meravigliose. Valgano come un esempio fra cento que' versi
dell'_Ultimo canto di Saffo_, ov'è descritto il volgersi per l'aria del
polveroso flutto de' Noti, il rumoreggiare del tuono, l'impeto vasto e
il tumulto della bufera.
Ma l'intelletto che tutto vede e comprende, il senso squisito
dell'armonia, la conoscenza perfetta della varia funzion dello stile,
soccorsi dal pieno e sicuro possesso della lingua, da un delicatissimo
gusto, che gli rendeva incresciosa la lode non meritata[510], da
quella perizia laboriosa e paziente ch'è dote necessaria di tutti i
grandi maestri, non fanno ancora tutta l'arte del Leopardi: la quale
in nessuna sua parte sarebbe qual è, e rimarrebbe inesplicabile,
senza l'opera di quei sentimenti di cui è tutta piena l'anima sua, e
nella manifestazione de' quali egli non ebbe, e forse non è per avere
rivali: la tenerezza nativa, il dolce rimpianto delle cose perdute, il
vano desiderio di quelle che non saranno mai possedute, lo sgomento e
l'accoramento delle rovine irreparabili, l'amore cui manca l'oggetto,
l'amarezza della delusione, l'entusiasmo del buono e del bello nella
disperazione e nel terrore di vivere. Questi sentimenti governano
quel senso dell'armonia, e quelli e questo congiuntamente empiono
di strazio, d'ardore e di suono, il verso, a cui il giudizio impone
equilibrio, compostezza, misura. Per virtù di sentimento il Leopardi,
ora si smarrisce nelle cose, ora le cose assume in sè stesso; e chi ben
guardi vedrà che il sentimento infine è, non l'unica, ma la prima e più
copiosa fonte della sua poesia.
Alcuno potrebbe scorgere, non mai nelle prose, ma talvolta ne' versi
di lui, per esempio nella _Vita solitaria_ e nelle _Ricordanze_, un
po' di quella incoerenza che si suole considerare (e non a torto)
come uno dei sintomi mentali della degenerazione; ma giova avvertire
che la incoerenza poetica non s'ha a giudicare in tutto con gli
stessi criterii con che si giudica la incoerenza comune; e, ancora,
che quella tanta incoerenza che altri credesse di poter notare nella
poesia del Leopardi, facilmente disappare all'occhio di chi sia in
grado di penetrare sino ai nessi occulti e profondi di pensiero e di
sentimento. E ad ogni modo gli è certo che al Leopardi non manca mai
l'arte di produrre quella che il Lotze chiamò la simultaneità delle
impressioni molteplici, e il Taine la convergenza degli effetti. E così
è più sempre da riconoscere che non sono nell'arte del poeta nostro
le conseguenze e i segni di quella psicosi degenerativa che veramente
era in lui, riparato il danno da qualcuno di que' misteriosi rincalzi
dell'organismo, di cui è facile notare l'effetto, difficilissimo, per
non dire impossibile, scrutare il modo e la ragione.
Il Leopardi muove da un'arte tutta di scuola e perviene a un'arte
emancipata da ogni scuola. Le reminiscenze erudite e gli espedienti
retorici, che ne' primi suoi canti abbondavano, spariscono rapidamente
dai successivi, e lasciano libero il campo alla inspirazione propria e
spontanea. Il poeta non rinunzia a far suoi in qualche parte i tesori
dell'arte antica, e talvolta ancora della moderna, ma rinunzia alla
imitazione; chè altro è far suo l'altrui suggellandolo di sè stesso,
altro è imitare. Come lo Schopenhauer, il Leopardi vede nell'arte
l'opera del genio, e nel genio, la forma dello spirito più originale e
più alta. Per quanto possa avere tolto ad altrui, il Leopardi rimane
uno dei poeti più originali, non della nostra soltanto, ma di ogni
letteratura; e se nella nostra egli appare con alcuna sembianza come di
straniero, non è nessuna di cui si possa in tutto dir cittadino. Egli è
poeta universale; ed è solo della sua specie. Ci sono poeti maggiori di
lui: poeti eguali a lui non ci sono.
AVVERTENZA. — Erano già stampati i fogli che precedono quando
giunse notizia che il Governo, fattosi finalmente consegnare le
carte leopardiane lasciate dal Ranieri, delle quali è ripetuto
ricordo in questo Saggio, le aveva affidate alle cure di appositi
commissarii, che debbono prenderle in esame e fare le opportune
proposte per la pubblicazione delle inedite.


PRERAFFAELLITI, SIMBOLISTI ED ESTETI[511]

Che c'è ora in letteratura, anzi in tutta quanta l'arte, una vera
e propria reazione, la quale si va più sempre allargando, ognuno lo
può vedere, solo che giri intorno lo sguardo; che tale reazione si
esercita, con più deliberato proposito, contro il realismo e le sue
varietà, ognuno può facilmente conoscere, solo che ne consideri gli
andamenti e i caratteri generali; che essa finalmente, sia effetto
e parte di un'assai più generale reazione che si viene compiendo nel
pensiero e nella coscienza del tempo presente è cosa che si potrebbe
arguire a priori, e che l'osservazione, anche più superficiale e
affrettata, fa manifesto.
Per discorrere della reazione particolare, che diremo letteraria, in
modo adeguato del tutto, bisognerebbe prima, senza dubbio, discorrere
della reazion generale; cercarne le cagioni e le origini; determinarne
la estensione e il carattere; delinearne i procedimenti e le forme: ma
sarebbe lavoro assai lungo, da non potersi costringere in poco tempo e
poco spazio: e, da altra banda, di tal lavoro alcune parti furono già
fatte; altre non si potranno fare se non da chi, dopo noi, guarderà
questi moti essendone fuori, da lungi. Basterà qui pertanto accennare,
o rammentare, le cose e i fatti più appariscenti.
Guardata nel tutto insieme, la reazion generale appare quale un moto
avverso alla scienza positiva e al positivismo filosofico. Il secolo,
giunto al suo stremo, si riconverte, sembra, a quell'idealismo che,
accompagnando, e in parte promovendo, un'altra reazione, ne diresse
gl'inizii. Rinasce, se non propriamente la credenza, il sentimento
religioso, o almeno quell'inquieto e pungente senso del mistero che
ne fa avvertire il bisogno e lamentare la mancanza. Il misticismo
s'intrude anco una volta in quella scienza che l'aveva inesorabilmente
sbandito; tenta di adulterarne i principii; si sforza di snaturarne
i metodi e di offuscarne i fini: e molti, sdegnando gl'incerti
compromessi e i connubii illegittimi, gridano che la scienza è venuta
meno alle sue promesse, che il suo regno è finito, che la scienza è
fallita.
Non sono certo da disconoscere le molte cagioni di indole sociale e
politica, e le intricate, e spesso non belle, ragioni di opportunità e
d'interesse che concorrono a produrre quell'effetto; ma sarebbe errore
il credere ch'esse sieno sole a produrlo. Che altre pur ve ne sieno,
più recondite e men facili a scoprire e ad intendere, scaturienti dal
proprio fondo della nostra natura e, forse, della universa natura,
è fatto palese, parmi, dalla generalità stessa del moto, dalla
molteplicità, varietà e rispondenza delle singole manifestazioni sue,
e ancor più, se non erro, dal carattere stravagante e dall'insania
più che probabile di alcune di tali manifestazioni. Il teosofismo e
il magismo acquistano ogni giorno nuovi seguaci. L'alchimia ha i suoi
iniziati e promette di nuovo, con la trasmutazione dei metalli, anche
la pietra filosofale. L'astrologia torna in onore, e nella stessa
Inghilterra, patria di Bacone da Verulamio e d'Isacco Newton, dello
Stuart Mill e dello Spencer, anzi colà più che altrove, si rallegra
di numerosi cultori, porge copiosa materia a giornali ed a libri.
Credo abbia torto il Nordau, o abbia solo in parte ragione, quando nel
nuovo misticismo altro non vede se non l'effetto della degenerazione
crescente, o un avvedimento e un ripiego politico[512]. Non sono tutti
degenerati per certo i seguaci e i fautori delle nuove, o rinnovate
dottrine, e basta ricordare a questo proposito come, tra quelli che lo
spiritismo conta in grandissimo numero, ve ne sieno notoriamente alcuni
a cui la scienza va debitrice di grandi incrementi, e i nomi dei quali
godono di celebrità meritata. Quanto alle ragioni politiche, se quelle
che il Nordau viene additando possono, sino ad un certo segno, spiegare
il misticismo francese, non potrebbero spiegare egualmente l'inglese, o
l'americano.
Giova dire che la scienza stessa riaperse al misticismo la porta
il giorno in cui, acquistata più sicura coscienza di sè, veduti
meglio i proprii confini, confessò la impotenza propria in cospetto
dell'_inconoscibile_, e ridestò negli animi il senso sopito del mistero
avvolgente; il giorno ancora in cui ruppe la lega malamente stretta
col materialismo, e rivendicò la piena libertà dell'indagine, fuori
delle angustie di qualsiasi preconcetto dottrinario o settario. Giova
dire che già da parecchio tempo, in presenza di tendenze avverse,
sempre più minacciose e incalzanti, l'individualismo s'è risentito,
s'è accampato con nuovo orgoglio e con nuova arditezza, ha spinto sino
al paradosso e all'iperbole certe sue pretensioni, le quali, quanto
sono repugnanti alla scienza, che abbattendo o livellando gli orgogli
umani, disciplina, consocia ed agguaglia, sotto il giogo di una legge
ineluttabile e imprescrittibile, potenze, atti e fortune, altrettanto
sono inchinevoli a quel misticismo docile e vago che permette, anzi
favorisce, ogni intemperanza di sentimento e di fantasia, e ad ogni più
oscuro moto dell'animo dà significato come di rivelazione, e concede
ad ogni uomo di foggiarsi il mondo a sua posta; quanto contrarie al
positivismo, che ci comprime dentro e sotto la natura, altrettanto
confacevoli all'idealismo, che ci leva fuori della natura e sopra di
essa.
Di quello che negli ultimi tempi fu detto, un po' troppo
arrischiatamente e pomposamente, _spirito nuovo_, una buona parte si
può esprimere con le tre sacramentali parole: _rinascenza dell'anima_,
le quali, significando al tempo stesso un desiderio e un proposito, un
presente e un avvenire son diventate, esplicitamente o implicitamente,
la formola dell'arte nuova.

I.
Delle reazioni in genere, e delle reazioni letterarie in ispecie, non
bisogna sgomentarsi troppo, nè troppo dolersi. Tutta la storia umana,
dalle origini più remote sino al giorno presente, è fatta di azioni
che sono al tempo stesso reazioni, e di reazioni che sono al tempo
stesso azioni. Certo, sarebbe molto più profittevole, o, per lo meno,
più speditivo, al genere umano procedere per via diritta verso quella
qualunque meta che può essere segnata al suo corso; ma vuole la nostra
natura, o vuole la natura a noi circostante, che quel corso sia un
andare a gangheri, lungo una linea spezzata, o un andare in volta,
lungo una spirale, con inenarrabile tedio di quanti s'avvedono (e son
pochi) della maniera e qualità del cammino, e con inenarrabil fatica di
quanti (e sono tutti) vanno camminando a quel modo, e con incresciosa
apparenza, se non con evento vero, di vani, anzi nocivi ritorni. Data
la necessità di così fatto andamento, si comprende come la ininterrotta
sequela delle azioni e delle reazioni appaja, guardata sotto certo
aspetto, non in tutto, ma in parte, quasi una sequela ininterrotta
di errori e di correzioni, di colpe e di castighi, di eccessi e di
repressioni, e quasi uno sforzo continuo ed alterno e mal proporzionato
inteso a stabilir l'equilibrio; per tal forma che ogni errore, ogni
colpa, ogni eccesso sia come il termine estremo e fatale di un moto
che fu, ne' suoi principii, ragionevole e buono; ed ogni correzione,
ogni castigo, ogni repressione porti fatalmente con sè il germe di un
male futuro. Come e perchè una reazione possa molto più giovare che
nuocere, e un'altra molto più nuocere che giovare; come e perchè l'una
appaja atta a venire a capo di tutti i proprii intendimenti e l'altra
di alcuni pochi soltanto, o di nessuno, è cosa che dipende da infinite
ragioni, da intricatissime contingenze, e che vuol essere indagata
volta per volta e caso per caso.
La storia delle lettere, come parte della storia generale umana, è
anch'essa tutta quanta tessuta di azioni e di reazioni, nei tempi
antichi, in quelli di mezzo, nei moderni, con questo solo divario,
che azioni e reazioni appajono tanto più rade e più lente quanto più
si risale verso gli antichi, tanto più frequenti e veloci quanto più
si scende ai moderni. Se ben ci si guarda, di sotto alla molteplicità
degli aspetti e delle movenze particolari, si scorgono alcuni
principii generali, i quali non mutano, o mutan ben poco, quanto alla
sostanza, e con perpetua vicenda si contrappongono, si combattono,
si soppiantano. Come più la civiltà differenzia e si complica; come
più si moltiplicano, si compongono insieme e s'intrecciano le forme
e le funzioni della vita, più la vicenda spesseggia: ond'è che
nell'antichità, e poi nel medio evo, vediamo aver durata di secoli moti
che in questa nostra età si misurano a lustri.
La reazione letteraria presente si esercita in più special modo contro
il realismo, e più propriamente ancora contro il naturalismo, che fu
come la caricatura di quello e l'errore e la colpa e l'eccesso cui
quello doveva pervenir fatalmente. Essa si esercita con la scorta di
due concetti principali (non oserei dir dottrine) e sotto due nomi
principalmente: preraffaellismo e simbolismo; de' quali, il secondo
designa un moto di recentissima origine, e il primo un moto di origine
notabilmente più antica, ma di novissima voga. E quello e questo hanno,
insieme con qualità e tendenze proprie e diverse, qualità e tendenze
somiglianti e comuni. Entrambi si oppongono al naturalismo, di cui
l'uno schifa più la volgarità e la crudezza, l'altro più l'abuso del
particolare e del concreto: entrambi ricusano il così detto plasticismo
e l'arte marmorea dei parnassiani: entrambi menan vampo di uno sdegnoso
e nobile individualismo: entrambi si dicono e sono idealisti, si
separano dalla vita reale, vagheggiano, rimpiangono, risuscitano come
possono il medio evo, e più alta e perfetta stiman quell'arte che
chiusa ai più, schiva d'ogni contatto, più partecipa della visione
e del sogno. La reazione contro il realismo non potrebb'essere più
risoluta di così; ma non è poi altrettanto nuova quant'è risoluta,
sebbene coloro che in vario modo la menano, o ne sono menati, la
stimino cosa novissima e senza esempio. Per non dilungarci troppo
nella ricerca dei casi consimili, e guardando a una sola delle molte
specie letterarie, basterà ricordare come in questa nostra Europa
moderna, nello spazio di pochi secoli, la novella italiana, insieme con
le imitazioni che se n'ebbero fuori d'Italia, sia stata soppiantata
dal romanzo eroico e pastorellesco dei Francesi; questo dal romanzo
picaresco degli Spagnuoli e dal realistico degl'Inglesi; entrambi
questi due dal romanzo avventuroso e sentimentale dei romantici, a cui
sottentrò il romanzo naturalistico, che incalzato e sopraffatto a sua
volta, cedè il campo a un nuovo vincitore. Onesta lotta è, in fondo,
la lotta di due principii nemici che si sopraffanno a vicenda, il
principio realistico e il principio idealistico.
Della presente reazione letteraria molti si rallegrano e molti si
rattristano; e di quelli che si rallegrano non pochi sono uomini usi
d'applaudire ad ogni novità, qual ch'essa sia; e di quelli che si
rattristano non pochi sono uomini usi di vituperarle tutte, senza
curarsi di sapere che sieno. Il critico, avendo finalmente imparato che
anche in letteratura la mutazione è necessaria e inevitabile; che il
buono, in pratica, non si può sceverare dal reo con quella facilità che
nei trattatisti si vede; e che il più delle volte, se non sempre, certa
misura di male è condizione a certa misura di bene; il critico, dico,
non s'ha da rallegrare nè da rattristare se non a ragion veduta, e
questo ancora con certa temperanza onesta e prudente, quale può essere
consigliata dal convincimento che il mondo non va già in perdizione
per ciò solo che in qualche modo è fatta offesa ai nostri gusti o alle
nostre opinioni; e ch'esso cammina per le sue vie, le quali non sempre
sono le nostre; e che, ad ogni modo, quando pur sieno, non si sa dove
menino. E il critico potrà ragionevolmente rallegrarsi che questa
reazione ponga fine al regno, anzi alla tirannide del naturalismo,
il quale, da un pezzo già, era troppo trascorso oltre i termini del
sensato e del tollerabile. E se gli sarà detto essere le idee e le
intenzioni dei novatori molto confuse ed oscure, egli non negherà
questo, ma avvertirà che sì fatti rivolgimenti sono mossi assai volte,
nei loro principii, da impulsi profondi dell'animo, de' quali l'uomo
non ha troppo chiara coscienza, oppure da eventi esteriori, de' quali
l'uomo non ha sufficiente contezza; e che però le dottrine intese a
spiegarli e giustificarli non mutarono se non tardi, e con fatica,
come da innumerevoli esempii è mostrato; e che per questo ancora non
si può, in modo sicuro, dalla insufficienza della dottrina far giudizio
dell'irragionevolezza del moto. E se da alcun altro gli sarà detto che
l'arte dei novatori non produsse insino ad ora nessun'opera eccellente
fra le poche mediocri e le molte pessime, egli consentirà pienamente,
ma ricorderà in pari tempo che molt'altre volte avvenne il medesimo
alle nuove scuole in sul primo loro formarsi; e che il tempo dei primi
conati e delle prove avventurose non può essere quello dei capilavori;
e che quanto si dice dei novatori di adesso fu pur detto, per citare
un esempio, di quei romantici che lasciarono sì più di un'opera grande,
ma lasciaronla solo dopo aver fatto credere per un pezzo di non sapere
nè che si facessero nè che si volessero. Da altra banda il critico
esaminerà con libero intelletto il moto presente, distinguendo ciò che
in esso ha sembianza di sano da ciò che non l'ha; cercando se abbia
veramente tanto di forza quanto d'irrequietezza; e se dia segno di
voler vincere durevolmente (non già pei secoli, si intende), o cedere
in brev'ora a contrasti solo momentaneamente rimossi: nè dimenticherà
che la ciarlataneria, la scimunitaggine, la pazzia sono cose umane e
comuni; che la passione è un fuoco inestinguibile; che la moda è un
vento mutevole; che l'esempio trascina e che l'illusione è regina del
mondo: nè dimenticherà che la critica è fatta più per interpretare che
per guidar l'arte; che il suo compito è il più delicato dei compiti; e
che i giudizii suoi sono soggetti a rivedimento in perpetuo.
Con queste norme e con queste cautele vediamo di intendere la natura
del preraffaellismo e del simbolismo e di abbozzare un giudizio sul
valore della reazione esercitata in lor nome.

II.
Com'è noto, il preraffaellismo nacque in Inghilterra, ma per opera,
principalmente, di un Italiano, cioè di Gabriele Dante Rossetti,
pittore e poeta, e figliuolo di quel Rossetti che fu, prima e dopo del
'30, uno dei principali poeti e promotori della rivoluzione italiana,
e lo studio stesso dell'Alighieri volse in servigio della libertà e
della patria. Ostentando di anteporre a Raffaello, considerato quale
un pervertitore dell'arte, i predecessori suoi, e, di questi, più
stimando i più antichi, il preraffaellismo si manifestò da prima e
si affermò nella pittura, ma non tardò molto a invadere la poesia,
che meglio forse della pittura poteva piegarsi a' suoi intendimenti
senza offender troppo il gusto corrente e la tradizione; e definito,
nella stessa Inghilterra, una _rinascenza dello spirito_, o, almeno,
_del sentimento medievale_, fu in tal qualità contrapposto a quella
rinascenza dello spirito e del sentimento antico che noi denominiamo,
senz'altro, la Rinascenza. Ognuno vede quale affinità venga perciò
a palesarsi tra il preraffaellismo e il romanticismo, e, non fossero
certe differenze di cui ora dirò, altri potrebbe scambiarlo, senza più,
per un rimessiticcio del romanticismo stesso. È noto di che fervido
culto i più dei romantici onorassero il medio evo, e come parecchi
di essi sognassero di farlo rinascere. Nei primi anni del presente
secolo si videro non pochi giovani pittori, scaldata la fantasia
dagli entusiasmi romantici, rinnegare come corrotta tutta l'arte della
Rinascenza, e rimettersi, in buona fede, alla scuola di Giotto. Tra
il fatto di allora e il fatto di ora c'è dunque molta somiglianza,
e il preraffaellismo bisogna si contenti di non essere tanto nuovo
quanto s'immaginava; ma se i fatti si somigliano, la ragion dei fatti è
diversa. Per votarsi al santo medio evo il romanticismo aveva tutta una
sequela di ragioni che il preraffaellismo non ha, nè può avere: guerra
a quel classicismo di cui il medio evo era stato appunto come una gran
negazione, secolare e concreta; ritorno a quella fede di cui il medio
evo era tutto impregnato, e di cui aveva per tanti secoli vissuto;
desiderio, in Germania, di una grandezza politica di cui porgeva
indimenticabile esempio l'Impero; desiderio, in Italia, di una libertà
che, dopo i Comuni, non s'era più conosciuta. Il preraffaellismo di
queste ragioni salde e positive non ne ha neppur una. Esso nega, ma non
si può dir che combatta; vorrebbe gustare le consolazioni e le estasi
della fede, ma sente che questa fede gli manca, e non sa come fare a
procacciarsela; detesta tutti gli ordinamenti e reggimenti sociali e
politici che ci stringono intorno e ci pesano addosso, ma non ne addita
di migliori, e, in realtà, non si propone di mutarne alcuno. Esso è
l'infingardaggine nell'arte.
Se ben si guarda, si vede che il preraffaellismo nasce in gran parte da
una ragione puramente negativa, dal disgusto, cioè, della vita presente
e della presente civiltà quale in grado massimo lo sente e l'ostenta
il Ruskin[513]. Io sono ben lungi dal credere che tale disgusto sia
per sè stesso irrazionale e illegittimo, e che nasca, tutto e sempre,
come vorrebbero certi biologi e sociologi, d'insufficienza o di
perversione organica, e non altro significhi in fondo se non penuria
di quella sovrana virtù, conservatrice d'ogni vita, ch'è la virtù
dell'adattamento, ma ad ogni modo un principio puramente negativo
qual'è questo non può, quando manchino altre forze e altri ajuti,
essere un principio d'arte sicuro e fecondo; e l'arte si condanna da sè
stessa all'esaurimento e alla morte quando si diparte in tutto dalla
vita reale, dove sono, non tutte, ma le prime e le più copiose sue
fonti, e si ritrae e si sequestra nella memoria, nel desiderio, nel
sogno d'una vita che fu. Volere che l'arte non rispecchi se non ciò
ch'è presente e comune, come fu canone del naturalismo, è grave errore;
ma error non men grave è volere che l'arte rispecchi soltanto ciò che è
peregrino e remoto: ed entrambi gli errori conducono, per opposte vie,
alla menomazione dell'arte. Non nego che la distanza, sia di tempo,
sia di spazio, non accresca poesia alle cose, perchè sarebbe negare
un fatto reale, conosciuto universalmente, e più che sufficientemente
spiegato dalla natura dello spirito e dalle leggi che lo governano;
ma dico che la opinione comune di coloro i quali negano esser poesia
nelle cose famigliari e vicine, e che s'hanno tuttodì davanti agli
occhi e, per dir così, sotto mano, nasce, più che da un giusto vedere,
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