Foscolo, Manzoni, Leopardi: saggi - 19

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formola: _l'utile per iscopo, il vero per soggetto e l'interessante per
mezzo_[429].
Fu notato da un pezzo che il _Consalvo_, a cominciare dai nomi dei
personaggi (non importa sapere se presi in qualche luogo, e dove), è
cosa tutta romantica; e il Carducci scoperse un lembo di romanticismo
persino ne' versi alla sorella Paolina. E che diremo di quella _Storia
di un'anima_ che il Leopardi avrebbe voluto comporre? Sotto questo
titolo di sapore prettamente romantico, doveva venir fuori un «Romanzo
che avrebbe poche avventure estrinseche e queste sarebbero delle più
ordinarie; ma racconterebbe le vicende interne di un animo nato nobile
e tenero, dal tempo delle sue prime ricordanze fino alla morte»[430].
Una specie di _Werther_, come si vede.
Nella questione della lingua certo non si può dire che il Leopardi
consentisse in tutto coi romantici, ma nemmeno si può dire che
dissentisse in tutto da loro. Giovanissimo, egli aveva giudicata
la lingua italiana _sovrana, immensa, onnipotente_, di gran lunga
superiore alla francese; ma già sentiva, contro la opinion del
Giordani, di dovere attingere alle fonti popolari[431]. Più tardi
gli entrava qualche dubbio circa l'assoluta superiorità della lingua
italiana; e contro la comune opinione dei puristi e dei classicisti,
s'avvedeva «che anche la notizia di più linghe conferisce mirabilmente
alla facilità, chiarezza e precisione del concepire»[432]; e pensava di
scrivere un libro intorno alle lingue meridionali, cioè greca, latina,
italiana, francese e spagnuola, e di farlo con criterii di filosofo
e non di cruscante. Gli era venuto a grandissima noja quell'eterno
battagliare che si faceva in Italia intorno alla lingua senza risolver
mai nulla, e si raccomandava allo Stella perchè non lasciasse sapere a
nessuno che gli compendiava il Cinonio, temendone infamia di pedante,
e d'esser posto dal pubblico «onninamente, e per viva forza, in quella
classe, dalla quale», con le parole e con gli scritti, aveva «tanto
cercato di separarsi»[433]. Sentiva, ciò nondimeno, il gran bisogno
che l'Italia avesse una lingua adatta ai tempi e alle necessità
della nazione; onde, mentre voleva che gli scrittori d'Italia fossero
italiani e non barbari, voleva pure si sciogliessero una buona volta
dai lacci di quel purismo che viveva, anzi languiva, segregato dal
mondo, e il Vocabolario avessero in conto di consigliere e d'ajutatore,
non di tiranno[434]. Del resto, sino dal novembre del 1820, diceva,
come avrebbe potuto dire un qualsiasi romantico, che gli studii suoi
_oramai cadevano, non sulle parole, ma sulle cose_[435].
I romantici furono grandi preconizzatori della prosa poetica. Il
Leopardi fu d'avviso che la bella prosa dovesse aver sempre del
poetico: diceva che nelle operette morali aveva voluto fare poesia in
prosa, e considerava come possibile una epopea in cui la prosa fosse
adoperata in luogo del verso[436].
Dopo tutto ciò parmi sia da credere che il Leopardi, sebbene scrivesse
alla sorella Paolina: «Il 25 luglio 1830 ho rovinata coll'Europa la
letteratura per un buon secolo»[437], non fosse poi tanto avverso ai
romanticismo; e che veramente non fosse è provato ancora dalle sue
relazioni con l'_Antologia_, e da certi giudizii suoi sopra alcuni dei
più grandi scrittori del tempo.
L'_Antologia_, sebbene desiderasse di conciliare le due scuole
contrarie, fu nello spirito e nell'indirizzo essenzialmente romantica,
e fece, con più temperanza, in Italia quello che il _Globe_ in Francia.
Il Vieusseux stimava, o (ch'è più probabile) diceva di stimare pura
questione di parole la questione dei classicisti e dei romantici; ma
nella Rassegna da lui diretta sostenevano strenuamente le ragioni
della nuova scuola il Montani, che il Lampredi chiamava l'Achille
e il Rinaldo dei romantici, il Tommaseo e altri parecchi; e sta di
fatto che i giornali letterarii d'allora più fidi alla causa del
classicismo, davano assai volentieri addosso all'_Antologia_, non
sempre per ragioni letterarie, a dir vero, ma, insomma, anche per
quelle. Sollecitato infinite volte dal Vieusseux a scrivervi come e
di che più gli piacesse, il Leopardi nell'_Antologia_ non istampò se
non un saggio delle _Operette morali_[438]; ma non è quasi lettera
sua al Vieusseux stesso ove non si leggano grandissime lodi di quello
ch'egli apertamente chiamava il miglior giornale d'Italia[439], mentre
non celava punto il proprio disprezzo per la _Biblioteca Italiana_,
con la quale ben presto si ruppe, e pel _Giornale arcadico_, entrambi
avversarii fierissimi del romanticismo. Dava ancora grandissime lodi al
Tommaseo, prima che si guastassero[440], e al Montani, senza aspettare
che questi abjurasse: e il Montani, levando a cielo i versi del
Leopardi, malmenati dagli arcadi[441], affermava di udire in essi «la
voce di un fratello di Werther»[442]. Il precetto che nell'_Antologia_
dava il Tommaseo, combattendo la mitologia: «scrivere come il cuore
li detta; e scrivere a giovamento dei più», non poteva non avere
l'assentimento di quel Leopardi di cui abbiamo riferite pur ora parole
in tutto consone a queste.
Notinsi ora alcuni giudizii del nostro poeta sopra scrittori
contemporanei. Il Goethe, che fu tanto benevolo ai romantici italiani,
gli piaceva poco. In una lettera al Puccinotti, del 5 giugno 1826,
leggiamo: «Le memorie del Goethe hanno molte cose nuove e proprie,
come tutte le opere di quell'autore, e gran parte delle altre scritture
tedesche; ma sono scritte con una così salvatica oscurità e confusione,
e mostrano certi sentimenti e certi principî così bizzarri, mistici
e da visionario, che, se ho da dirne il mio parere, non mi piacciono
veramente molto»[443]. Il Goethe un mistico e un visionario! Strano
troppo che al possibile autore della _Storia di un'anima_ non avesse
almeno a piacere il _Werther_; ma è da ricordare che il Leopardi non
seppe di tedesco.
Seppe d'inglese; e se nomina lo Scott senza dirne nè bene nè male[444],
parla invece con molta ammirazione del Byron, nel quale, com'è noto,
lo stesso Goethe vedeva armonizzate e fuse le due tendenze, classica
e romantica. Nella lettera al Puccinotti testè citata il Leopardi
scriveva: «Veramente questi è uno dei pochi poeti degni del secolo, e
delle anime sensitive e calde come la tua»[445]. Dell'Hugo, il quale,
dopo aver fatto tanto chiasso in Francia, cominciava a farne anche in
Italia, non una parola[446].
Del Monti, nella poesia del quale il Tommaseo doveva andar poi
rintracciando le infiltrazioni romantiche[447], il Leopardi ebbe,
in tempi diversi, assai diverso concetto. In sul finire del 1818,
stampate in Roma le due canzoni _All'Italia e Sul monumento di Dante_,
il giovane poeta le dedicò entrambe con parole di somma reverenza a
colui che, con pochissimi altri, sosteneva l'_ultima gloria_ della
patria. Più tardi, senza che si possa con precisione dir quando, diede
del Monti un giudizio che discordava notabilmente da quello tutto
ammirativo dell'universale, lodandone sì le doti della immaginativa
e del verseggiare, ma soggiungendo poi subito che gli mancava
«tutto quello che spetta all'anima, all'affetto, all'impeto vero e
profondo, sia sublime, sia massimamente tenero»; dicendolo un poeta
dell'orecchio e non del cuore; biasimando sopratutto la «ributtante
freddezza e aridità» con cui andava «in traccia di luoghi di classici
greci e latini, di espressioni, di concetti, di movimenti classici,
per esprimerli elegantemente»; e accusandolo di non far quasi altro
che tradurre i classici[448]. Che cosa avrebbe potuto dire di più un
romantico?
La _divinizzazione_ che del Manzoni fece il Tommaseo nell'_Antologia_,
e propriamente nel fascicolo d'ottobre del 1827, parve eccessiva al
Leopardi[449]; ma non così le giuste, e pur grandi lodi che altri gli
davano; e fra i lodatori fu più volte egli stesso. Il 23 d'agosto del
1827, lette, anzi udite leggere solo poche pagine dei _Promessi Sposi_,
scriveva allo Stella che in Firenze le persone di gusto trovavano
il romanzo «molto inferiore all'aspettazione», mentre altri lo
lodavano[450]; ma pochi giorni dopo, agli 8 di settembre, allo stesso
Stella scriveva: «Io qui ho avuto il bene di conoscere personalmente
il signor Manzoni, e di trattenermi seco a lungo: uomo pieno di
amabilità e degno della sua fama»[451]. Il Mamiani riferì un giudizio
del Leopardi sui _Promessi Sposi_, sfavorevole nei rispetti civili, ma
non in quelli dell'arte[452]; e ai 25 di febbrajo del 1828 lo stesso
poeta scriveva al Papadopoli: «Ho veduto il romanzo del Manzoni, il
quale, non ostante molti difetti, mi piace assai, ed è certamente opera
di un grande ingegno; e tale ho conosciuto il Manzoni in parecchi
colloqui che ho avuto seco a Firenze. È un uomo veramente amabile e
rispettabile»[453]. Nel giugno prometteva al fratello Pier Francesco,
ch'era, come il padre Monaldo, grande ammiratore del Manzoni, di
portare da Firenze a Recanati tutte le opere dello scrittore lombardo,
meno il romanzo che quei di casa già possedevano[454]; e in quello
stesso mese scriveva al padre: «Ho piacere che ella abbia veduto e
gustato il Romanzo cristiano di Manzoni. È veramente una bell'opera; e
Manzoni è un bellissimo animo e un caro uomo»[455].
Non ci sfugga un giudizio, non più sopra uomini, ma sopra una città, il
quale può avere anch'esso qualche importanza nel caso presente. Pisa
piaceva molto al poeta, che la giudicava «un misto di città grande
e di città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto così
romantico» ch'egli non aveva mai veduto l'uguale[456]. Non sappiamo
quanto contribuisse a fargli piacere quel misto così romantico ciò
che di medievale conserva ancora l'antica città; ma gli è certo che il
poeta non addimostrò pel medio evo quella predilezione che fu comune
ai romantici; nè possono bastare a far fede del contrario i pochi versi
della canzone ad Angelo Mai dov'esso è ricordato con desiderio:
O torri, o celle,
O donne, o cavalieri,
O giardini, o palagi! a voi pensando,
In mille vane amenità si perde
La mente mia.
Ricordiamoci ch'erano i tempi in cui l'ammirazione per l'Ariosto era
divenuta in Inghilterra infatuazione bella e buona. Può ben darsi
che in quei pochi versi sia corso qualche influsso romantico; ma è da
notare in generale che la poesia storica, tanto cara ai romantici, la
poesia intesa a risuscitare il passato in forme colorite e svariate,
non ebbe l'amor del Leopardi, come non l'ebbe quello che chiamarono
_esotismo_[457]. Ma coi romantici s'accordava per un altro verso il
Leopardi, volendo che la poesia esprimesse di proposito il sentimento,
il cuore.
Nell'arte del Leopardi, intendendo ora più propriamente per arte
l'insieme dei mezzi atti a significare pensieri, sentimenti e fantasmi,
di romantico c'è invero ben poco. Come i romantici d'Italia e di fuori,
il Leopardi tende a sciogliersi dalle tradizionali pastoje ritmiche
e metriche: come quelli d'Italia e di Inghilterra ha in pregio lo
sciolto: come quelli d'Italia pare che non gusti molto il sonetto,
che in Inghilterra tornava in onore; ma certo non gli passò mai pel
capo di comporre nè una romanza nè una ballata all'uso romantico; nè
ebbe cara la rima così come l'ebbero cara i romantici; nè si piacque
del decasillabo e dell'ottonario, usati dai romantici a profusione;
e l'ottava non adoperò se non in componimento satirico. In più cose
discordò dai romantici affatto, specialmente dai francesi. Considerò
le parole innanzi tutto come segni d'idee, e non le cercò per sè
stesse, attribuendo loro qualità da poter essere gustate, in certo
qual modo, oltrechè con l'orecchio, anche con la vista e col tatto;
non corse dietro alle onomatopee; non esagerò l'arte di cromatizzare
i periodi; non credette che la virtù somma dello stile stesse nel
pittoresco[458]. Fu sobrio, come, del resto, il maggiore dei romantici
nostri; e se desiderava una «vera prosa bella italiana, inaffettata,
fluida, armoniosa, propria, ricca, efficace, evidente, pura», stimava
fosse «da cavarsi da' trecentisti, dagli altri scrittori italiani, da'
greci quanto a moltissime forme, da' latini quanto a moltissime così
forme come parole»[459]; e riuscì nelle prose sue terso, trasparente,
perspicuo, ma un po' freddo, e non tanto moderno di sicuro quanto
avrebbe voluto, e senza punto di quel disordine, di quegli ardimenti,
di quegli ardori di cui più si compiacevano i romantici. Ancora il
Leopardi cura la composizione quanto i romantici la trascurano, e
se quelli molte volte abbozzano, egli sempre finisce; e sa, non meno
nei versi che nelle prose, contemperare entrambi gli elementi della
inspirazione, il personale e l'impersonale, con senso della proporzione
e con aggiustatezza che da quelli non si conobbe.
Dopo di ciò possiamo concludere. Se è vero, com'è verissimo, che
il romanticismo non tanto consiste nella qualità dei tempi presi a
trattare, quanto nel modo di sentire e di concepire, e che si può, come
il Byron e l'Hugo, riuscire romantici anche trattando temi classici;
sarà altresì vero che il Leopardi, guardato nella psiche, è assai più
romantico che classico: e se è vero che l'arte classica, a paragone
della romantica, è fatta essenzialmente di misura, di compostezza, di
euritmia, di sobrietà, di chiarezza, sarà altresì vero che il Leopardi,
guardato nell'arte, è assai più classico che romantico.
Ma dell'arte del Leopardi mi accingo ora a dire più di proposito e più
distesamente.

CAPITOLO VII.
L'ARTE DEL LEOPARDI.
Chi dicesse che l'arte di ciascuno artista prende vita e movimento
da tutta quanta la persona fisica e psichica che la crea; che quale
è la complessione e l'indole di ciascuno, tale ancora si è l'arte;
direbbe cosa senz'alcun dubbio verissima, ma non direbbe forse, tutta
la verità. Gli è certo che l'artista, sia egli pittore, scultore, o
architetto, o musico o poeta, fa l'arte sua, non solamente co' proprii
pensieri e co' proprii sentimenti, ma ancora co' proprii sensi, co'
proprii nervi, col proprio sangue, con tutto sè stesso; e che l'arte
sua varia, talvolta dall'uno all'altro giorno, secondo che varia
la composizione e l'equilibrio degli elementi e delle forze onde
la instabile sua persona continuamente si forma e si sforma. Natura
povera, arte povera; natura esuberante, arte esuberante. Studiando le
tele di Raffaello, di Michelangelo, del Rembrandt, noi possiamo, sino
ad un certo segno, giungere a conoscere il temperamento e l'indole di
Raffaello, di Michelangelo, del Rembrandt. Se di Dante non fosse giunta
sino a noi nessun'altr'opera, nessuna notizia biografica, noi, leggendo
la _Commedia_, potremmo intendere che maniera d'uomo egli fosse; anzi
il poema ce lo può far conoscere meglio che non possa la biografia
più accurata e più minuta. Vittore Hugo è tutto ne' suoi versi. Se un
uomo potess'essere privo affatto di carattere e attendere a un'arte,
l'arte di lui sarebbe affatto priva di carattere; onde gl'imitatori,
che hanno poco carattere, producono arte senza suggello, mentre i
genii, che son tutti carattere, producono arte originalissima, anche
quando s'approprian l'altrui. Ciò che diciamo ambiente è potentissimo,
premendo per così dire tutto all'intorno, a conformare l'arte; ciò
nondimeno esso propriamente non preme e non opera se non mediatamente,
attraverso l'organismo mentale e corporeo dell'artista. Ma non per
questo si può dire che conosciuto quel doppio organismo, sia pur
conosciuta, in ogni sua qualità, l'arte che ne proviene; dacchè,
per una parte, è impossibile in pratica, e nelle presenti condizioni
del nostro sapere, fare il computo degl'innumerevoli eccitamenti e
delle innumerevoli inibizioni che di continuo si producono nell'anima
dell'artista; e, per un'altra, quelle idee che l'uomo riceve per virtù
di ragione, essendo indipendenti, almeno entro certi limiti, dalla
complessione e dall'indole, possono operare sull'arte in modo disforme
dall'indole e dalla complessione, o anche in contrasto con esse. Che la
terra gira intorno al sole e non il sole intorno alla terra, è verità
che può piacere agli uni e dispiacere agli altri, ma che, dimostrata,
entra nello spirito, così dell'uomo sanguigno come del linfatico, così
del robusto come del gracile, e che entratavi, opera sì in conformità
di quelle nature che l'hanno ricevuta, ma opera ancora in conformità di
sè stessa. Persuasosi, per via di ragionamento, della verità di certe
dottrine, Gustavo Flaubert rinnegò i proprii gusti, e deliberatamente
esercitò l'arte in contraddizione co' proprii istinti e con le proprie
inclinazioni.
Venendo al Leopardi, noi possiamo avvederci, prima ancora d'instituire
una qualsiasi indagine, che a questo instabile e delicato organismo
fa difetto il copioso e fervido torrente sanguigno che corse per le
vene dell'Hugo, e fanno difetto l'eroiche energie e la salda tempra di
un Byron. Per contro notiamo subito in lui la prevalenza del sistema
nervoso e, in ispecie, dell'organo del pensiero, dove si può dire che
la maggior somma di vita del poeta s'accentri. Fu detto, non senza
ragione, che il cervello usurpò in lui tutte le energie, defraudò tutte
l'altre funzioni dell'organismo. Perciò fu il Leopardi, come abbiamo
notato, un intellettuale, e fu di quella piccola schiera di poeti
che, come Lucrezio, Dante, il Goethe, cercarono avidamente la scienza;
sebbene egli, dopo averla raggiunta, la dovesse giudicar perniciosa.
L'uomo di vulnerata e povera complessione, cui le forze bastino appena
a sostenere giorno per giorno la vita, o piuttosto a tenere indietro
la morte, bada naturalmente più a sè che al fuor di sè, tende più a
raccorsi che a spandersi, più a segregarsi che ad accomunarsi, dacchè
ogni più leggiero cimento, ogni più picciol discapito può tornargli
di danno irreparabile. E il mondo, giudice frettoloso e spensierato,
avventa accuse di durezza d'animo e biasimi d'egoismo, dove non è
veramente se non apprensione e dolore. Ma se quell'uomo abbia in misero
corpo alto e poderoso intelletto, egli uscirà per virtù di pensiero
dalla solitudine sua, e dentro all'angosciosa coscienza di sè rifarà
la coscienza del mondo; e se nacque poeta, assurgerà dai gradi di un
lirismo essenzialmente sentimentale ed elegiaco a quelli, non di una
vera e propria epopea, ma di una comprensione epica delle cose; e
se non gli verrà fatto d'incarnarsi in una molteplicità di creature
drammatiche, individuatamente configurate e distinte, riuscirà ad
intendere e a rappresentarsi nella mente il procelloso dramma della
vita.
La natura poetica del Leopardi fu essenzialmente idilliaca ed
elegiaca, onde quelli cui egli pose da prima il nome d'idillii sono,
fuor d'ogni dubbio, i suoi componimenti migliori. Il Leopardi non
ebbe mai, nemmeno quando pensò d'averla raggiunta, quella che si
potrebbe chiamare calma epica, e quella specie di epica equanimità
la quale permette all'uomo di giudicar delle cose indipendentemente
dalla considerazione del bene e del male che a lui in particolare
può derivarne. Ciò nondimeno bisogna pur riconoscere che il Leopardi
ebbe quella che chiameremo veduta epica del mondo; giacchè se il suo
sguardo si fissa un po' troppo alle volte sovra un particolare aspetto
di quello, molte altre volte ne percorre tutti gli aspetti e tutti gli
abbraccia nella connessione e universalità loro. La opinione espressa
da taluno che il Leopardi non sarebbe riuscito poeta se fosse stato
meno infelice, e che la infelicità appunto è quella che lo fece poeta,
è contraddetta, oltrechè dai primi saggi dell'adolescente, che quella
infelicità non aveva ancor conosciuta, anche da uno studio un po'
attento che si faccia della sua posteriore poesia[460]. Bensì quella
infelicità avrà cooperato a dare alla poesia di lui alcuni caratteri
particolari, e a infonderle, per così dire, tanto di spirito lirico
quanto gliene sottraeva di epico. Certo, non si riesce ad immaginare
un Leopardi autore di una vera e propria epopea (i _Paralipomeni
della Batracomiomachia_ non sono se non satira), come non si riesce ad
immaginarlo autore di un dramma (i tentativi giovanili non contano), nè
di un romanzo (salvo che fosse il _romanzo di un'anima_).
Il mondo poetico del Leopardi è, come quello di ogni altro poeta,
determinato e condizionato dalla complessione fisica e psichica,
dall'ambiente, dagli studii, dai modi e dalle vicende della vita.
Si deve credere, senza possibilità di errare, che quel mondo sarebbe
riuscito o poco o molto diverso da quel che vediamo, non solo se il
Leopardi avesse avuto altro corpo e altro spirito, ma ancora se il
Leopardi non fosse vissuto in Italia, e in quella Italia della prima
metà del presente secolo; se avesse atteso ad altri studii, o studiato
altrimenti; se avesse vissuto più intensamente, più variamente, più
dilettosamente che non visse. Insomma è la vita, presa nel significato
suo più multiforme e più largo, quella che produce l'arte; e bene
il seppe lo Shelley, il quale riconosceva di dovere la propria
inspirazione poetica alla molteplicità e varietà delle cose vedute, de'
sentimenti provati, de' pericoli corsi. Togliete dalla vita di Dante
l'amor per Beatrice, l'esilio, la povertà, la peregrinazione dolorosa,
e torrete di mezzo al tempo stesso la _Divina Commedia_. Il tema e
l'indole delle grandi opere d'arte si patiscono e non si scelgono.
Non si può dire che il mondo poetico del Leopardi sia angusto,
dacchè talvolta tanto si estende quanto il tempo e lo spazio e fa uno
con l'universo; ma s'ha pur da riconoscere, messo in disparte ogni
preconcetto, ch'esso è un po' povero di fatti e di forme, non molto
variato, non molto colorito. E qui parmi si vegga più direttamente
l'effetto della fisica costituzion del poeta, e delle sue povere
fortune, o diciamo del tenore di vita comandato da quelle. Se il mondo
poetico di lui è quale il vediamo, non è già da credere che sia tale
per ineluttabile influsso dell'idea pessimistica che dall'alto lo
domina, e pel fatto del pessimistico sentimento che tutto lo penetra.
Poeta pessimista e poeta uniforme non sono termini correlativi, sì che
l'uno supponga l'altro. Il verbo pessimistico può essere enunziato
in modo immediato e aforistico, come il Leopardi suol fare, e può
essere significato per via di persone, di azioni e di simboli, come
altri poeti pur fecero. Lo Chateaubriand fu in sostanza un pessimista
in veste cristiana; ma fu un pessimista che visse assai, amò assai,
godette assai, militò, gareggiò, viaggiò mezzo mondo, navigò sui fiumi
d'America, errò nelle foreste vergini, cercò in Roma ed in Grecia
le vestigia delle divinità pagane e in Palestina quelle di Cristo; e
però non è meraviglia se (ajutandolo, anzi movendolo da prima, che ben
s'intende, la facoltà naturale) egli potè, nella poetica prosa, far
rivivere tante cose, sfoggiarvi tanta pompa d'immagini e di colori: al
quale proposito osserva giustamente il Sainte-Beuve: «le peintre allait
faire sa palette et amasser ses couleurs»[461]. Altrettanto si deve
dire del Byron. Anche l'autore del _Don Giovanni_ giudicò la vita uno
stolto ed inutile sogno; ma egli, quel sogno volle (e potè) sognarselo
tutto, con quanta più mutazione fosse possibile, con la maggior
possibile intensità; e di quel sogno ritrasse nella lirica, nel poema,
nel dramma, le infinite parvenze fuggevoli. Onde il suo pessimismo
dà vita a un'azion sceneggiata, piena di tumulto e di clamore, di
tenebre cupe e di fulgori abbaglianti, dove par quasi di assistere alla
subitanea creazione e alla novissima rovina di un mondo. Il Leconte de
Lisle non fu meno pessimista del Leopardi; ma il pessimismo di lui,
pur concordando nelle conclusioni tutte con quello dell'autore della
_Ginestra_, si figura e si atteggia in tutt'altro modo: e mentre l'uno
rende immagine d'una ignuda statua marmorea d'alcun nume di Grecia,
l'altro rende immagine d'un qualche gigantesco idolo dell'Oriente, che,
sovraccarico di gemme d'ogni colore, seduto sopra un'altare di metalli
preziosi, protenda, in mezzo alle pompe tutte della terra e del cielo,
la mostruosa e spaventosa sua ombra. Più che nella filosofia, può il
pessimismo, nell'arte, mutar forma, atteggiamento e voce: tragico,
romanzesco, impetuoso ed atroce nel Byron; amaro, petulante, beffardo
nel Heine; ingenuo, elegiaco, melodrammatico nel De Musset; deforme e
delirante nel Baudelaire.
Qualità a primo sguardo notabili della poesia del Leopardi, assai
più dovute, credo, a natura che a studio, sono la compostezza,
la chiarezza e la sobrietà che alle nature esuberanti sembra men
virtù che difetto. Una delle cose che più impressionano di quella
poesia è il vedere tanto strazio di dolore in tanto assesto e tanta
ponderazione di forma. Non mai in essa uno di quegli artifizii di
parole, o stratagemmi d'immagini, intesi a far colpo e stordire il
lettore, che sono così frequenti, a cagion d'esempio, nella poesia
dell'Hugo. Sempre, per contro, idee facilmente intelligibili, e
sentimenti facilmente comunicabili; onde avviene che anche chi non
consenta col poeta nei principii e nelle illazioni, intende senza
sforzo ogni cosa, e si diletta dell'arte. La poesia del Leopardi è
intellettiva e sentimentale; e come intellettiva, rifugge forse un
po' troppo dalle immagini, che son quasi il tutto di altri poeti;
e come sentimentale, si restringe forse a troppo picciola parte di
sentimenti umani. Ma per ciò che spetta alla prima qualità è da dire
che il poeta, sebbene maneggi meglio il concetto che l'immagine, non
si muta se non di rado in argomentatore; che il primo germe delle sue
poesie non è mai un'idea astratta; o, se è, il poeta sa per tal modo
fonderla col fatto concreto, col sentimento e la immagine, da far
del tutto, almeno nei componimenti migliori, una unità indivisibile;
e che l'idea non vi si avviluppa di erudizioni recondite, nè ostenta
formule prestigiose od arcane. Per ciò che spetta alla seconda, è da
dire che il sentimento non vi si assottiglia soverchio, non si studia
di singolarizzarsi, non isdilinquisce e non dilaga in quella troppo
fluida e quasi eterea sentimentalità di cui abusa, per citare un
esempio, il Lamartine[462]. Ed è l'intima fusione del sentimento con
l'idea, e di entrambi con le immagini[463], quella che conferisce tanta
e così durevole attrattiva alla poesia del Leopardi; la quale, pure
esprimendo, come lo Schelling voleva, l'infinito nel particolare, ed
essendo fatta, per molta parte, di rimembranza e di sogno, riesce un
tutto concreto, saldo, determinato, evidente, che contrasta in singolar
modo, per citare un altro esempio, con la poesia moltivaga, velata,
fiorente, folgoreggiante dello Shelley. Poesia smagliante la poesia
del Leopardi non è. Difettano in essa i colori spiccati ed accesi,
che mal si convengono alla stanchezza, alla tristezza, alla noja;
abbondano per contro le mezze tinte, che a quelle condizioni e a quei
sentimenti più si confanno; ma vi abbondano senza produr confusione
e senza lasciare quella impressione di _grigio su grigio_ di cui un
critico si lamenta[464]. Il Goethe faceva poesia di tutto quanto gli
arrecasse o piacere o dolore: il Leopardi non fa poesia se non di ciò
che gli arreca dolore, nulla essendovi che gli arrechi piacere. Che
se in quella poesia si può riconoscere assai volte un pensare e un
sentire che ha più del settentrionale che del meridionale; e se, in
più particolar modo, quell'accoramento e struggimento che sempre vi si
sente, anche se il poeta non l'esprima, hanno somiglianza molta con la
_Wehmuth_ e la _Sehnsucht_ dei Tedeschi, e poco allignano in Italia;
ogni altra cosa vi è, non dirò greca propriamente, non dirò latina, ma
quale sembra che questo cielo e questa natura e quest'indole e storia
di popolo richiedano.
Riconosciuto nel Leopardi un certo insieme di stati fisici e psichici
costituenti quella che dicono degenerazione, altri crederà di
doversi affrettare a cercarne i segni e le riprove nell'arte sua, e
forse s'immaginerà di trovarveli agevolmente. Ma qui per lo appunto
cominciano le difficoltà grandi, dacchè per quel tanto abusato ed
elastico nome di degenerazione non si sa ormai più che cosa si debba
propriamente intendere, e non vi sono quasi due dotti che l'usino
nello stesso significato, e nella pratica riesce pressochè impossibile
fare l'accertamento o il ragguaglio di quelle tante occulte azioni
e reazioni, e di que' tanti rinfranchi dell'organismo e fisico e
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