Foscolo, Manzoni, Leopardi: saggi - 10

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mentre l'intelletto si chiude affatto e per sempre al sogno della
felicità, il cuore, a più riprese, si riapre a quel medesimo sogno;
mentre l'intelletto appetisce il vero, il cuore lo rifiuta; mentire
l'intelletto predica la rassegnazione, il cuore la sdegna. Senza quella
troppa e troppo indocile sensitività, il Leopardi sarebbe stato uno
spirito essenzialmente logico: così come la natura e la vita l'han
fatto, egli è uno spirito in cui la contraddizione abbonda, anzi è
abituale ed organica. Di ciò ognuno si può persuadere agevolmente
considerando quanto diversi, anzi contrarii, sieno certi giudizii suoi
concernenti gli uomini in genere, le donne in ispecie, le cause della
umana infelicità, la natura, ecc., nei molti casi in cui, per ragion
di tempo, quella diversità e quella contrarietà non possono imputarsi
a un moto generale dello spirito, a un rivolgimento profondo delle
dottrine. Ma la contraddizione per noi più notabile è quella in cui
egli si viene ripetutamente avviluppando nel far giudizio del vero e
della scienza: giacchè, ora detesta il vero, come quello che distrugge
con la _face consumatrice_ i _sogni leggiadri_; e dice la notizia di
esso _contrarissima alla felicità_; e lo chiama _fonte o di noncuranza
e infingardaggine, o di bassezza d'animo, iniquità e disonestà di
azioni, e perversità di costumi_; e biasima gli uomini d'averlo voluto,
_colla curiosità incessabile e smisurata_, penetrare e conoscere; e
vitupera la ragione, dicendola _carnefice del genere umano_; mentre per
contro celebra ed esalta l'_ameno errore_, i _fantasmi consolatori_,
gl'_inganni fortunatissimi_, gli _errori antichi necessari al buono
stato delle nazioni civili_: ora, invece, riconosce che il vero _ha
suoi diletti, ancor che triste_; e compiange l'uomo dei campi, perchè
_ignaro d'ogni virtù che da saper deriva_; e dice che, dopo il bello,
il vero _è da preferire ad ogni altra cosa_; e afferma di non cercare
_altro più fuorchè il vero_; e deride i sogni vani e le antiche fole
insieme con le speranze di futura felicità e le _magnifiche sorti
e progressive_, che pur dovrebbero essere, anche per lui, anzi più
per lui che per altri, ameni errori, fantasmi consolatori, inganni
fortunatissimi; e rinfaccia al secolo d'avere sentito dispiacere del
vero, e d'avere abbandonato vilmente il _risorto pensiero_, solo per
cui fu vinta in parte la barbarie,
e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
E questa civiltà era stata da lui maledetta con i sentimenti stessi
del Rousseau, come un tradimento fatto alla Natura, come un errore
che non può andare _senza infinito accrescimento d'infelicità_ e senza
vergogna. E ad essa accennando aveva esclamato: _Che cosa è barbarie se
non quella condizione, dove la natura non ha più forza negli uomini?_
Noi qui vediamo l'intelletto e il sentimento alle prese fra di loro
a volta a volta, e quando l'uno quando l'altro, incalzare o recedere,
stringersi e sopraffarsi a vicenda. Il Pascal era riuscito a fermare
assai più e legare in unità il proprio spirito quando scriveva quelle
memorabili parole: «L'homme n'est qu'un roseau, le plus foible de la
nature, mais c'est un roseau pensant. Il ne faut pas que l'univers
entier s'arme pour l'écraser. Une vapeur, une goutte d'eau, suffit pour
le tuer. Mais quand l'univers l'écraiseroit, l'homme seroit encore plus
noble que ce qui le tue, parce qu'il sait qu'il meurt; et l'avantage
que l'univers a sur lui, l'univers n'en sait rien»[97].
Sappiamo dallo stesso Leopardi che in certi tempi, crescendogli
il male, anzi i mali ond'era travagliato, egli diveniva pressochè
incapace di attenzione, tanto da non poter tener dietro a chi leggesse,
nè scrivere cosa alcuna, nè _fissar la mente in nessun pensiero di
molto o poco rilievo_[98]. Ciò nondimeno, d'ordinario, egli dovette
essere in sommo grado capace, così di attenzione spontanea, come di
attenzion volontaria[99]; d'onde poi deriva attitudine spiccatissima ed
inclinazione allo astrarre. Dell'attenzione spontanea parmi facciano
testimonianza le ingegnose ed acute osservazioni e la molta maturità
di senno onde son piene le prime sue lettere, scritte quand'egli
non era per anche uscito di Recanati. Della volontaria fanno prova
irrefragabile la qualità e la estension degli studii, la perseveranza
e il discernimento adoperatovi, e più che tutto l'arte sua, dove non
è cosa mai che appaja abbandonata al solo istinto o alla fortuna. Se
son veri certi racconti, il Leopardi da giovane s'immergeva alle volte
sì fattamente ne' proprii pensieri da perdere affatto il sentimento
di quanto gli stava e gli avveniva dattorno[100]. Qualcuno, badando
alle più consuete preoccupazioni del poeta, e come il pensiero che
inspira e sorregge la sua poesia tenda quasi a ridursi in un _motivo_
unico, potrebbe facilmente congetturare in lui certa inclinazione
malsana al monoideismo, e cioè a fermar stabilmente l'attenzione
sopra un'unica idea; ma se non si può negare che quella inclinazione
ci sia stata, specie in certi tempi, non si può da altra banda non
riconoscere, considerando i moltissimi abbozzi ed accenni di opere dal
poeta divisate o ideate, che quella mente era usa di vagare per una
copiosissima varietà di obbietti e di temi, per tutto il creato e per
tutto lo scibile.
Non dovrebbe, parmi, negarsi che l'attenzione di lui non si fissi
talvolta in modo da arieggiare le forme morbose della fissità;
la qual cosa del resto facilmente interviene ai melanconici e più
agl'ipocondriaci; ma non si dovrebbe però dimenticare che in ciò, come
in altro, molti sono i gradi intermedii tra il normale e l'anormale,
e che una certa ossession dell'idea e del fantasma è abituale, anzi
necessaria, non meno allo scienziato che all'artista, e che senz'essa
non si darebbe nè scienza nè arte. La poesia intitolata _Il pensiero
dominante_ parrebbe a prima giunta rivelar nel Leopardi una vera e
propria idea fissa, da cui quella togliesse il nome e la contenenza.
Alcuni versi di essa descrivono veramente la condizione dell'uomo
di cui una sola idea imperiosa abbia occupata e soggiogata tutta la
psiche, votandola quasi d'ogni altro elemento, spogliandola d'ogni
altra forma:
Come solinga è fatta
La mente mia d'allora
Che tu quivi prendesti a far dimora!
Ratto d'intorno intorno al par del lampo
Gli altri pensieri miei
Tutti si dileguâr. Siccome torre
In solitario campo
Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei.
Ma questo pensiero dominante non è altro che il pensiero d'amore, il
quale, dove raggiunga un certo grado di vivezza e di forza, opera quasi
sempre a questo medesimo modo nell'animo degl'innamorati. Cercando nei
versi e nelle prose del Leopardi, e più specialmente nelle lettere, non
è difficile trovar segni e indizii di una qualche soverchia fissazion
della mente, più o meno durevole. Il 23 giugno 1823 egli scriveva da
Recanati al Jacopssen: «Pendant un certain temps j'ai senti le vide de
l'existence comme si ç'avait été une chose réelle qui pesât rudement
sur mon âme. Il m'était, toujours présent comme un fantôme affreux; je
ne voyais qu'un désert autour de moi, je ne concevais comment on peut
s'assujettir aux soins journaliers que la vie exige, en étant bien
sûr que ces soins n'aboutiront jamais à rien. Cette pensée m'occupait
tellement, que je croyais presque en perdre la raison»[101].
Dall'attenzione dipende per molta parte la memoria. Il Leopardi
ebbe (la storia de' suoi studii e gli scritti ne fanno fede) memoria
potente, sicura, tenace, e da giovane parve anche per questo rispetto
sì fattamente meraviglioso, che l'abate Cancellieri ne fece espresso
ricordo nella _Dissertazione intorno agli uomini dotati di gran
memoria_. Si sa con quanta agevolezza egli imparasse le lingue; e se
errò il Puccinotti dicendolo versato anche nella tedesca[102] gli
è pur certo che tra antiche e moderne ne conobbe un buon numero,
e di parecchie fu mirabilmente padrone. Non però è da credere che
il Leopardi possedesse la memoria totale e universale, che non fu
posseduta mai da nessuno, e non è ente psichico, ma entità psicologica;
nè si dà propriamente la memoria in genere, ma bensì tante memorie
specificate e diverse quante sono le categorie del sensibile e del
pensabile. Il Leopardi ebbe vivissima memoria delle idee, e forse non
vi fu idea, da quella del numero a quella del fatto sociale e storico,
che mai la trovasse indocile o lenta. Ebbe vivissima pure la memoria
dei sentimenti; e volentieri inclinerei a credere che intervenisse a
lui, in maniera anche più risoluta, ciò che interviene a taluni, ne'
quali il sentimento ravvivato per virtù di memoria riesce più intenso
di quello spontaneo provato in origine. Sempre che il poeta ripensa
alla sua Silvia, morta nel fior degli anni, e si sovviene delle tradite
speranze, un affetto lo preme _acerbo e sconsolato_, ed egli si torna
a dolere di sua sventura[103]. Il più del tempo egli vive nel _dolce
rimembrare_, e soggiornando in Pisa, dà a certa via il nome di _Via
della rimembranza_. Un solo dolce ricordo sarebbe bastato a rendere
felice tutta la vita dell'infelicissimo Consalvo, e le _Ricordanze_
sono un canto e un pianto dell'anima che tutta si raccoglie
nell'appassionata contemplazione di un passato irrevocabile. Queste due
forme della memoria ben si convengono al nostro poeta, il quale abbiamo
riconosciuto essere un intellettuale e un sensitivo al tempo stesso.
La memoria delle sensazioni fu certamente in lui meno valida e meno
pronta; ma di ciò sarà a dire più innanzi. Qui resta a notarsi che la
memoria del poeta fu (nè potev'essere altro) scarsamente popolata di
quelle multiformi immagini cui solo può fornire la lunga, continuata e
varia esperienza di una vita operosa e il libero e vigoroso esercizio
di tutte le facoltà e potenze ond'è costituita la umana persona.
Come la memoria dipende dall'attenzione, così la fantasia dipende dalla
memoria; onde, quali le forme e i temperamenti della memoria, tali
pure le forme e i temperamenti della fantasia. Il Leopardi ebbe da
natura fantasia agile e viva; nè gliela poterono mortificare i lunghi e
pazienti studii di erudizione e il meditare ostinato; nè molto gliela
estenuarono i mali. Fanciullo ancora, sappiamo com'egli immaginasse
intricate favole di cavalieri, di battaglie e d'incantamenti e
intrattenesse per lunghi giorni i compagni de' suoi sollazzi. Tornato
la terza volta, nel novembre del 1828, al detestato soggiorno di
Recanati, egli risalutava quelle _vaghe stelle dell'Orsa_ che tante
immagini un tempo e tante fole gli avevano suscitate nella mente,
e accennando altri oggetti delle antiche sue contemplazioni, _che
pensieri immensi_, esclamava,
Che dolci sogni mi spirò la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
Che di qua scopro e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio![104]
Chi non sia dotato di viva e fervida fantasia, malamente può vivere
solitario; e il Leopardi, sebbene conoscesse la solitudine esser
dannosissima agli uomini del suo temperamento, che sempre «si bruciano
e si consumano da loro stessi»[105], della solitudine si piacque oltre
modo, facendone argomento di alcuni tra' suoi canti migliori; e sebbene
sin dal luglio del 1819, nella famosa lettera scritta al padre in
occasione della tentata fuga, parlasse dei _tormenti di nuovo genere_
che gli procacciava la _strana immaginazione_[106], pur nondimeno
sempre del _caro immaginare_ si dilettò grandemente, trovando in esso
una delle maggiori e più fide consolazioni della sua vita. Certo,
la fantasia non fu nel Leopardi così ricca, varia, lussureggiante,
colorita, come fu nel Byron, o nello Shelley, o nell'Hugo, o in altri
poeti molti che si potrebbero ricordare; ma una ragione di ciò fu
accennata parlando della memoria di lui, e richiamerà novamente la
nostra attenzione in luogo più acconcio.
Che il Leopardi non sia ciò che gli psicologi più recenti dicono un
_volitivo_, è manifesto ad ognuno; ma altro è riconoscere questo, altro
è asserire che il Leopardi patì di abulia dichiarata e congenita.
Innanzi tutto, a riguardo di questa, come di ogni altra qualità del
nostro poeta, è sommamente necessario distinguere nella storia di
lui un prima e un dopo, senza di che si risica troppo di scambiare
l'avventizio per l'iniziale, e di confondere col principio la fine.
Se non v'è forse vita d'uomo esente da peripezia, non v'è forse
altra vita in cui la peripezia sia stata così profonda e molteplice
come fu nel Leopardi. Da fanciullo questi non difettò certamente di
volontà, chè anzi le memorie di quel primo tempo ce lo fanno conoscere
protervo, prepotente, soverchiatore. Molti versi della sua giovinezza
sono versi di eccitamento e di ribellione, e tra le opinioni da lui
più costantemente osservate, in verso e in prosa, in pubblico ed in
privato, è pur questa, che l'operare vince di gran lunga in nobiltà il
meditare e lo scrivere; onde in uno de' più tardi componimenti suoi,
quello che prende titolo dall'amore e dalla morte, celebrava l'amore,
che suscita o ridesta ne' petti il coraggio, e per la cui virtù
sapïente in opre,
Non in pensiero invan, siccome suole,
Divien l'umana prole.
Non nego che questa opinione gli possa essere stata suggerita in
parte dagli ammaestramenti e dagli esempii di quell'antichità in cui
gli era tanto dolce rivivere; ma è da credere che il suggerimento non
avrebbe operato nell'animo di lui, se l'animo, per certa sua propria
e naturale disposizione, non fosse stato inclinato a riceverlo. Il
fermato, e per poco non effettuato proposito della fuga, difficilmente
si potrà conciliare con una volontà debole e incerta, specie se si
considera che il giovane che vi si accinse non era uno sventato, anzi
conosceva benissimo e la forza, ancora assai grande, di quella paterna
autorità contro la quale insorgeva, e i pericoli d'ogni maniera e
le traversie che certamente avrebbe dovuto affrontare. E gioverà
ricordare che mentre i giovani di poco animo e d'indole remissiva sono
lieti d'aver nel padre chi spiani loro la via della vita e risparmii
le fatiche maggiori e i maggiori ardimenti, il Leopardi, stimando la
tutela paterna oppressiva di que' liberi spiriti che fanno atti gli
uomini alle cose nobili e grandi, ebbe in conto di fortunati (e osò
scriverlo) quei figliuoli che, perduto per tempo il padre, dovettero
fare, senz'altro ajuto, da sè. Quanto alla tentazion di suicidio, a
cui il poeta andò così lungamente soggetto, noi non siamo in grado
di dire con sicurezza se l'averla sempre patita senza mai soggiacervi
sia indizio di una volontà troppo debole che non riesce ad attuarsi,
o di una volontà ancor tanto forte da poter frenare l'impulso[107];
ma indipendentemente dalla maggiore o minore forza della volontà, gli
animi molto delicati, e di un sentire molto squisito, non possono non
rimanere turbati ed offesi dalla idea di quella violenza che sempre
e di necessità accompagna la volontaria soppression della vita, sia
quella d'altri o la propria: e chi può dire quanta forza l'orrore di
così fatta violenza possa avere avuto nell'animo del poeta che non
volle contemplare la morte se non sotto le sembianze della bellezza e
della pietà? Riconosciuto nel Leopardi un intellettuale, e ricordato
una volta per tutte che gl'intellettuali non sogliono essere uomini
d'azione, e, per ciò stesso, non uomini di volontà gagliarda, spiegata,
molteplice (sebbene la volontà non si eserciti nell'azione soltanto),
parmi si debba pur riconoscere che la volontà di lui fu in origine più
che mediocremente valida, ancorchè, secondo ebbe a confessare egli
stesso, mutabilissima[108]. Dopo di che s'ha da riconoscere ancora
che s'andò a poco a poco affievolendo e stemprando, sia pel crescere
lento e profondo di una pecca ereditaria, sia pel consecutivo insulto
di mali sopravvenuti, sia pel graduale consolidarsi e prevalere della
idea pessimistica. So che quest'ultima cagione non sarà accettata da
coloro che giudicano il pessimismo stesso essere tutto e sempre effetto
di depressione psichica e di detrimento organico, e quasi una denunzia,
comunque espressa, del mancamento della vita. Non è qui il luogo
d'entrare in una controversia assai disputata e sulla quale pende, e
penderà per lungo tempo ancora, il giudizio. Io mi contento di dire
che se quella che chiamano miseria o paupertà fisiologica predispone
naturalmente[109] l'animo a formarsi un concetto pessimistico della
vita, nol predispongono di certo a formarsene un concetto ottimistico
quelle dottrine della scienza che, sfatando l'antico errore, mostrano
l'uomo perduto in mezzo alle forze della natura, soggetto a quelle
stesse leggi a cui son soggette le creature inferiori e le infime,
spogliato infine d'ogni ragione di arroganza e di orgoglio; che c'è
una corrente di pessimismo la quale ha nella scienza le prime sue
scaturigini[110]; che si dànno esempii di pessimismo baldanzoso e
giocondo alla maniera del Nietzsche; che il pessimismo buddistico è
sereno, anzi giulivo; e che accanto al pessimismo dell'inerzia appare
il pessimismo dell'azione. Ciò avvertito a mo' di parentesi, non si può
non concedere che Giacomo Leopardi fu negli anni maturi uno di quegli
irresoluti e di quei timidi ond'è parola nei _Detti memorabili di
Filippo Ottonieri_[111]; sia pure che a produrre quella irresolutezza e
timidità concorressero efficacemente, com'egli stesso afferma, l'abito
dialettico e la riflession prolungata.
Il Leopardi ebbe alto e forte il sentimento di sè, quello che
gl'Inglesi chiamano _self-feeling_. Fanciullo ancora, presentendo
la futura grandezza, l'annunziava nell'_Appressamento della morte_;
e molti sono i luoghi degli scritti suoi, e più specialmente delle
lettere, ove egli quel sentimento fa manifesto; sia con l'esprimere
orrore della mediocrità; sia col far conoscere un desiderio _forse
smoderato e insolente_ di gloria e il proposito di farsi _grande ed
eterno coll'ingegno e collo studio_; sia, infine, col risolvere _di non
inchinarsi mai a persona del mondo_, e di non curare il giudizio nè il
disprezzo altrui. La già citata lettera al padre, e l'altra al Broglio,
scritta in quella occasione medesima, sono per questo rispetto un
documento notabilissimo, anzi forse un documento unico, se si pensa che
colui che le scriveva era un giovane di poco più che vent'anni. A quel
medesimo sentimento è da ridur la baldanza (ove a torto taluno non vide
se non un espediente retorico) con cui il giovane poeta chiede l'armi
per combattere egli solo i nemici della patria; e l'orgoglio ancora
con cui si atteggia ad avversario indomabile di quel destino che in
modo affatto insolito (tale è la sua credenza) lo persegue e percuote:
e quello ancora che gli fa desiderare, dovendo essere infelice,
infelicità piena ed intera. Egli volle ritrar sè medesimo in quel prode
che la mano vincitrice del fato
Indomito scrollando si pompeggia,
Quando nell'alto lato
L'amaro ferro intride,
E maligno alle nere ombre sorride[112].
Nè contraddicono punto a quel sentimento, anzi per diverso modo ne
dànno a conoscere la persistente e tormentosa acutezza, le parole
ch'ogni tanto egli si lascia uscire di bocca, quando dice di cominciare
a disprezzare la gloria, di aver perduta ogni illusione sul proprio
valore, di accordarsi oramai con l'universale che lo disprezza. Parole
appunto di chi in troppo alto e geloso modo sente di sè! Angoscioso
sentimento di una psiche sempre presente a sè stessa e ammalata di
consapevolezza eccessiva! Certe forme di pessimismo non ne vanno mai
scompagnate.
Fu un genio il Leopardi? Molti lo affermano, qualcuno lo nega; e
non è questo uno di quei dissensi che si possano comporre recando in
mezzo prove ben definite e irrefragabili. Dalla intelligenza mezzana
e comune all'ingegno ed al genio si sale per gradi, starei per dire
infinitesimali, e non v'è strumento che segni il punto del preciso
trapasso dal primo al secondo, dal secondo al terzo. Quegli stessi
che per lunga tradizione e quasi universale sono giudicati genii
massimi, e di cui si suol dire che recano in fronte il marchio divino
ed indelebile, non poterono soggiogare in tutto la instabile fortuna
dei giudizii umani; e le vicende cui andò soggetta, col mutare dei
tempi e degli umori, la fama di un Omero e di un Aristotele, di un
Dante e di uno Shakespeare, lo provano, parmi, abbastanza. Non è
possibile dare del genio una definizione che non si smarrisca più o
meno in formole monche od incerte, e non si raccomandi, da ultimo,
assai più all'intuito che alla ragione. Abbiam dismesso il concetto
mitico o metafisico del genio; ma non gli abbiamo per anche sostituito
il naturalistico e positivo. Errore grave mi sembra esser quello di
taluni che solo criterio e sola misura del genio vogliono la utilità,
e sentenziano non meritare nome e fama di genii, se non coloro che
recarono agli uomini alcun insolito beneficio, strepitoso e grande:
e sembrami errore, non tanto perchè il giudizio della utilità è
incertissimo, e soggetto, nel corso della storia, a moltissime
mutazioni, quanto perchè il beneficio può assai volte, come c'insegna
la storia di molte invenzioni e scoperte, essere opera più del caso
che dell'intendimento. Le ragioni del genio vogliono esser cercate nel
soggetto da prima, nell'oggetto di poi; ma nel far giudizio e dell'uno
e dell'altro, è da guardare soltanto alla singolarità e alla grandezza,
e non alla utilità; dacchè ci sono genii benefici e genii malefici, e
tutte quasi le religioni credettero a un genio del male. Che il primo
Napoleone sia stato un genio benefico par difficile a dimostrare; ma
più difficile ancora che non fosse un genio. Io vorrei contentarmi di
dire: Genio è colui che addimostra una straordinaria potenza interiore,
operando cose che non erano preparate, o erano solo scarsamente
preparate dal precedente lavoro delle generazioni; che corona il
faticoso e lento edifizio della tradizione o lo abbatte; che in far
ciò dà a divedere un massimo di autonomia e un minimo di dipendenza;
che si trascina dietro un numero grande di spiriti comuni, i quali
lo acclamano maestro e rivelatore, e che riesce a far da solo, per
intrinseca e necessaria virtù di natura, ciò che i molti e gl'infiniti
insieme associati non potrebbero fare[113]. Vedo bene le deficienze e
le incertezze di questa che non oso chiamare una definizione; ma non
me ne soccorre altra che meglio mi appaghi, e questa, qual ch'essa sia,
può bastare al bisogno presente.
Stimo doversi dire un genio il Leopardi perchè la precocità e la
estensione de' suoi studii fanno manifesto uno straordinario vigor
d'intelletto; perchè il singolare _autodidascalismo_ rivela uno spirito
singolarmente autonomo; perchè la dottrina filosofica di lui, o buona
o cattiva ch'ella sia, è, per la più parte, frutto della sua mente,
senza veri precedenti in Italia, e con poche, e dal poeta ignorate,
attinenze fuori d'Italia[114]; perchè la poesia creata da lui è, a
dispetto d'ogni influsso e riverbero greco, latino, petrarchesco,
o d'altra maniera, che vi si scorga per entro, poesia nuova in
Italia e nel mondo, per quanto può esser nuova una poesia che vien
dopo altra poesia e insieme con altra poesia. Come nei cieli della
poesia inglese il Byron, così nei cieli della poesia italiana appare
subitaneo e inopinato il Leopardi, simile ad una di quelle comete
che scaturiscono improvvise dalla profondità dello spazio, e luminose
solcano il firmamento, fuori d'ogni tracciato e cognito cammino. Se
mai può dirsi d'uomo nato da altro uomo, e vivente nella società de'
suoi simili, ch'egli sia originale, del Leopardi si dovrà dire che fu
originalissimo. Egli rinunziò la fede in che era nato e cresciuto, e
nella quale perseverarono tutti, o quasi tutti, i suoi; e la rinunziò
giovanissimo; e non già, come fu sospettato dal padre e da altri, ad
istigazion del Giordani, ma per atto spontaneo e spontanea risoluzione
di ragione in cimento. Quella che fu detta sua conversione letteraria
avvenne, non per ammaestramento o consiglio altrui, ma per virtù di
meditazione e di esame e di una tutta propria resipiscenza[115]. Se
tanto non basta a far riconoscere il genio, non so che altro possa
bastare.
Per mia ventura io non ho da impelagarmi in una delle più vessate
questioni dei nostri giorni, quella delle relazioni e colleganze che
passano fra il genio, la degenerazione e la pazzia. Io non ho bisogno
di schierarmi (e in coscienza non potrei) nè con coloro che affermano
essere il genio una vera e propria psicosi, anzi una forma larvata
di epilessia, nè con coloro che di sì fatta affermazione molto si
stupiscono e più si adontano. A dir vero, le conclusioni mi pajono
tratte un po' a precipizio, così dall'una parte come dall'altra,
scambiate spesso le prime parvenze per prove, con definizioni
improprie, con criteri incerti, con metodo arrischiato, e spesso più
con desiderio di vincere l'avversario, che di accertare il vero. Il
problema è oscurissimo tra quanti se ne possono proporre alla umana
ragione. Veggo bene come assai volte il genio sia accompagnato dalle
stimate della degenerazione, dai turbamenti di una mutevole psicosi;
ma la ragione ultima e certa e la regola di quell'accompagnamento mi
rimangono occulte, e diffido non men di me che d'altrui, sapendo quanto
è difficile, e come spesso fallace, la investigazione delle cause, e
come pieno d'insidie il ragionamento. E forse noi non intendiamo ancora
i fatti della vita e della psiche in genere tanto che basti a lasciarci
penetrare la natura del genio.
Ma non occorre che il problema sia risoluto ne' suoi termini generali
per iscorgere nei singoli casi il certo e il vero dei fatti e delle
concomitanze e conseguenze loro. Il caso particolare del Leopardi
fu recentemente studiato con diligenza d'indagine, con acume di
raziocinio, e con circospezione, non dirò intera, ma rara nella più
parte dei cultori di questi studii, in un libro ch'ebbe biasimi e
lodi, e che io, sinceramente, credo più meritevole d'essere lodato
che biasimato[116]. Non tutte certo le opinioni e le prove e i
ragionamenti e i giudizii che vi sono prodotti mi pajono tali da
doversi accettare[117], chè a molti anzi credo si debba contraddire
risolutamente; e nelle pagine che precedono, fu già implicitamente
contraddetto a qualcuno, e in quelle che seguono sarà, implicitamente
o esplicitamente, contraddetto a qualche altro; ma la conclusione
generale cui da ultimo perviene l'autore, quando afferma di riconoscere
nel grande Recanatese le stimate della degenerazione e della
psicopatia, e i sintomi gravi di una nevrastenia cerebro-spinale, mi
sembra tratta legittimamente, necessaria, inoppugnabile.
E non intendo davvero perchè tanti se ne sieno risentiti come di una
ingiuria fatta al poeta, e abbiano gridato alla profanazione e al
sacrilegio. Similmente si gridò contro ai presunti profanatori della
memoria del Tasso, e i gridatori non ebber ragione, nè può essere
profanazione nel ricercare e dire la verità. Non è punto dimostrato che
la malattia sia condizione necessaria del genio; ma che il genio possa
meravigliosamente vivere e operare accanto e dentro alla malattia, e di
essa giovarsi, è provato da esempii senza numero. Lo stesso Leopardi,
se tornasse al mondo, non contrasterebbe troppo a certi giudizii
che di lui ora si fanno. Parlando della terribile melanconia che lo
perseguitava in Roma, come già lo aveva perseguitato in Recanati, e
doveva perseguitarlo anche altrove, egli scriveva, nel dicembre del
1822, al fratello Carlo: «Non nego però che questo non venga in gran
parte dalla mia particolare costituzione morale e fisica»[118]. Già sin
dall'aprile del 1817, se non prima, egli aveva imparato a conoscere la
melanconia _ostinata, nera, orrenda, barbara_, che lima e divora, _e
collo studio s'alimenta e senza studio s'accresce_, tanto diversa da
quella _che partorisce le belle cose, più dolce dell'allegria_[119],
melanconia da lui in altri tempi provata. Passati molti anni,
nell'aprile del 1829, egli si lagnava che la melanconia sua fosse
divenuta _oramai poco men che pazzia_[120]. Nel _Dialogo di Tristano e
di un amico_, Tristano, ch'è, come ben s'intende, lo stesso Leopardi,
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