Foscolo, Manzoni, Leopardi: saggi - 08

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ad allentarsi leggermente, in virtù di un lavorio sordo e profondo,
non avvertito per altro segno che per un po' di stanchezza e un po'
d'inquietudine. Se ne ha la prova nella precipitazione con cui egli
aveva accettato di far rapire Lucia per conto di Don Rodrigo, e in
quel porsi subito nella condizione di non potere più dare addietro,
di dover mantenere a ogni costo l'impegno, come usa far l'uomo che
cominci a dubitare di sè, e a sè stesso non voglia mancare. Già
aveva cominciato «a provare, se non rimorso, una cert'uggia delle sue
scelleratezze»; già queste opprimevano d'un peso incomodo, se non la
sua coscienza, almeno la sua memoria. Data a Don Rodrigo la parola che
lo legava, aveva provato, non pentimento, chè ancora questo non gli
poteva entrare nell'animo, ma dispetto. «Una certa ripugnanza provata
ne' primi delitti, e vinta poi, e scomparsa quasi affatto, tornava
ora a farsi sentire. Ma in que' primi tempi, l'immagine d'un avvenire
lungo, indeterminato, il sentimento d'una vitalità vigorosa, riempivano
l'animo d'una fiducia spensierata: ora all'opposto, i pensieri
dell'avvenire erano quelli che rendevano più noioso il passato. —
Invecchiare! morire! e poi?» — Cominciava ad avere _certi momenti
d'abbattimento senza motivo, di terrore senza pericolo_, nei quali
quel Dio che egli non s'era mai curato nè di riconoscere nè di negare,
gli gridava dentro: _Io sono_. Cominciava a sentirsi come perduto in
una gran solitudine muta ed oscura, senza famiglia, senza amici veri,
senz'alcuna dolcezza, con troppo passato dietro di sè, con troppo poco
avvenire dinanzi. La fibra corporea è salda ancora e vigorosa; ma la
fibra morale è spossata un tantino; ed egli se ne potrebbe avvedere
dallo sforzo che gli costa il volersi in tutto serbar quel di prima e
dal non potervi riuscire.
Questa poca spossatezza (chè molta ancora non è) ci lascia
intendere come quell'animo, già così saldo e quadrato, possa
aprirsi a impressioni e ad influssi che appena appena, in altri
tempi, l'avrebbero tocco e sfiorato. Le nature forti, ch'è quanto
dire le nature autonome, non cedono alla suggestione, la quale,
considerata sotto certo aspetto, è, come fu notato acconciamente,
una trasmutazione, mercè la quale un organismo meno attivo tende ad
armonizzarsi con un organismo più attivo. Or ecco che noi vediamo
l'animo dell'Innominato lasciarsi penetrare alquanto dalla suggestione,
a far manifesto che la sostanza sua non è più così intera e compatta
come fu innanzi. Quel duro metallo è come serpeggiato di screpolature
sottili. Il Nibbio ha confessato al padrone d'aver sentita pietà di
Lucia, quella pietà che, _se uno la lascia prender possesso, non è
più uomo_. E la pietà di quel _bestione_ del Nibbio divien suggestiva
pel padrone, che vi ripensa vegliando, e ripensandovi, ripete le
parole di quello: _uno non è più uomo; è vero, non è più uomo!_ Così
quelle parole della povera Lucia: _Dio perdona tante cose per un'opera
di misericordia!_ tornano, nel silenzio della notte, a sonargli
all'orecchio, non _con quell'accento d'umile preghiera, con cui erano
state proferite, ma con un suono pieno d'autorità, e che insieme
induceva una lontana speranza_.
Sciocchezze come quelle che allora gli tolgono il sonno, già altre
volte, egli dice, gli erano passate pel capo, e s'erano poi dileguate,
senza lasciar segno del loro passaggio; ma quelle di ora non si
dileguano, perchè Lucia ha dato loro occasione di ficcarsi più
addentro nell'anima turbata, e di far quasi un nodo da non potersi più
sciogliere. Una nuova coscienza era già spuntata in quell'anima, e già
due volte aveva fatto udir la sua voce, quando, alla risoluzione che
l'Innominato stava per prendere, di porre senz'altro Lucia nelle mani
di Don Rodrigo, aveva opposto un no preciso e imperioso. Con rapido,
irresistibile processo, quella coscienza si slarga, si rafforza,
s'illumina; nello spazio di una notte essa appare organata e compiuta,
perchè gli elementi tutti onde doveva formarsi preesistevano già,
sebbene oppressi e dispersi, nello spirito entro a cui si produce.
Allora essa si fa incalzante e leva alta e paurosa la voce. Che ne può,
che ne deve seguire?

IV.
Da prima un formidabile combattimento interiore, un cozzo di pensieri
e di sentimenti contrarii, uno spingersi innanzi e un subito dare
addietro, un volere e un disvolere, uno sperare e un disperare, un
essere e un non essere. L'Innominato non è già più quel di prima;
ma non è, nè può essere ancora, quello di poi. «Tutto gli appariva
cambiato: ciò che altre volte stimolava più fortemente i suoi desideri,
ora non aveva più nulla di desiderabile: la passione, come un cavallo
divenuto tutt'a un tratto restio per un'ombra, non voleva più andare
avanti. Pensando alle imprese avviate e non finite, in vece d'animarsi
al compimento, in vece d'irritarsi degli ostacoli (chè l'ira in quel
momento gli sarebbe parsa soave), sentiva una tristezza, quasi uno
spavento dei passi già fatti. Il tempo gli s'affacciò davanti vôto
d'ogni intento, d'ogni occupazione, d'ogni volere, pieno soltanto di
memorie intollerabili; tutte l'ore somiglianti a quella che gli passava
così lenta, così pesante sul capo». E l'ossessione cresce, cresce
l'angoscia: tutto l'irreparabile e mostruoso passato gli si risolleva
dinanzi, lo preme, lo avvolge, lo affoga. Finalmente il rimorso addenta
con zanne di belva quel cuore che fu sì gran tempo invulnerato e
invulnerabile. Vinto dalla disperazione, l'uomo che non temè mai di
nessuno e di nulla ha terror della vita, terror di sè stesso, impugna
un'arme, cerca, rimedio estremo, la morte; ma in quella appunto un
nuovo pensiero, un nuovo e più orribile dubbio, il gran dubbio di ciò
che possa esser di là, gli guizza nell'anima, gli ferma la mano, gli
mostra chiuso fors'anche quell'unico scampo, lo piomba in un'angoscia
più disperata e più nera. «Lasciò cader l'arme, e stava con le mani ne'
capelli, battendo i denti, tremando».
Crisi violenta in uomo violento, ma che appunto perchè violenta, non
può troppo durare; e non può troppo durare contro una volontà che se
ha mutato, per dir così, di quadrante, è rimasta tuttavia diritta e
inflessibile come prima.
Fu detto la volontà essere il germe della morale, e fu detto il
vero. Non si dà forte morale senza forte volere; nè il rimorso e il
pentimento possono essere molto gagliardi in animo non gagliardo. Le
nature salde ed intere, gli uomini che si dicono tutti d'un pezzo non
s'adattano ai lunghi tergiversamenti, non s'appagano de' ripieghi,
detestano l'indeterminato e l'ambiguo. L'Innominato non è di razza di
simulatori; non armeggia di sofismi, non cerca scuse e accomodamenti,
non inganna sè stesso. A sè stesso egli fu consentaneo sempre: non
può patire di sentirsi scisso interiormente, fatto miserabil teatro di
una oscura anarchia che pare una sfida al suo talento di dominazione,
alla sua forza, al suo orgoglio. Egli soffre; ma non è di tal tempra
che possa e voglia aspettare a lungo, passivamente, la cessazione
della sofferenza. Di quello stato vergognoso, non men che crudele,
gli bisogna uscire risolutamente e presto; e se ad uscirne non gli
offre via sicura la morte, bisognerà che gli offra via sicura la vita.
Trovata la via, egli ci si metterà con la risolutezza ordinaria, col
consueto ardimento, senza più fermarsi, senza più voltarsi indietro.
Accade spesso ai violenti, in cui sia pari all'orgoglio il bisogno
e il sentimento della indipendenza, di ribellarsi a quegli stessi
principii a cui conformarono lungamente la vita, quasi riconoscendo in
quelli una forza tirannica che li soggioghi. Ripensando alla sua vita
passata, alla lunga sequela di colpe che s'intreccia ai suoi giorni,
l'Innominato può pensare a una quasi necessità e fatalità di delitto,
natagli dentro senza che egli stesso ne possa intendere la ragione;
ma un sì fatto pensiero deve, di per sè solo, bastare a ferire il suo
orgoglio, a sferzare la sua volontà. Come? egli che tutto potè ciò che
volle, non potrà dare alla propria vita un nuovo indirizzo, una regola
nuova? non potrà trionfare di sè stesso dopo aver trionfato di tutti
e di tutto? non potrà riscattarsi da quella malvagia potenza che già
sì gran tempo lo tenne soggetto, e che minaccia di farlo suo schiavo
in eterno? Come? egli che si ribellò a Dio per impazienza di servitù e
per impeto di tracotanza, dovrà servire al diavolo senza fine? dovrà,
egli insofferente d'ogni ritegno, patire un perpetuo castigo in un
carcere disperato? E di tutto il suo volere e operare dovrà esser
questo il fine ed il frutto, durar ne' secoli de' secoli suddito vinto
e impotente di vinto e impotente signore?
Oh, no! La fede, che appena rinasce, può essere ancora nell'Innominato
assai fievole e incerta; può essere ancora in lui poco acceso lo zelo
del bene, poco vivo e risoluto il desiderio della espiazione; ma già
tutta la sua persona morale, sollecitata dalle antiche energie, dagli
stimoli antichi, insorge contro quella oscura e maligna tirannide, si
accampa in un atteggiamento di sforzo supremo e magnifico; non ancor
preparata alla preghiera e all'umiliazione, pronta già, come sempre,
alla sfida e al combattimento. In questo nuovo Capaneo la superbia
non è per anche ammorzata; ma, dopo essersi volta a sfidare i numi, si
volge ora a sfidare gli avversarii dei numi. Questo nuovo Farinata _ha
lo inferno in gran dispitto_ già prima d'entrarvi.
L'indole dell'Innominato non è di quelle che diconsi impulsive, la
cui nota più spiccata sembra essere la instabilità; e l'anima di lui
non può durare a lungo in una condizione d'atonia morale. Egli non è
uomo in cui possa il capriccio, che presto vanisce senza lasciar segno
di sè: in lui non si vedono se non impulsioni durevoli, coerenti,
coordinate; volizioni che muovono da uno stabile principio, e tutte
vanno diritte e spedite al segno. Egli sente per maniera d'istinto
ciò che Plutarco espresse con belle parole: potere la volontà fare un
eroe o un dio d'un uomo simile ad una belva. Avvertita la necessità
del ravvedimento, l'Innominato senz'altro si ravvede; e comincia
il ravvedersi come si conviene alla natura sua passionata, focosa e
violenta. I desiderii di lui sono intensi e indomabili, e vogliono
essere appagati presto e per intero. Presa la risoluzione di liberar
Lucia, egli par che frema dell'indugio, e che voglia acchetar sè stesso
col dire: «La libererò sì; appena spunta il giorno, correrò da lei, e
le dirò: andate, andate». La sua diventa _una rabbia di pentimento_:
l'impulsione degenera in ossessione, sforza alle opere, non soffre
ritardo.

V.
Col sorgere del nuovo giorno, l'anima già in parte mutata s'apre a
nuovo mutamento, e ciò in grazia di una seconda occasione, diversa
molto dalla prima, che ho accennata, ma non meno acconcia e propizia di
quella.
Che l'uomo antico perduri, per molta parte, nel nuovo, anche dopo la
battaglia di quella notte, ci è mostrato da un fatto. Uno scampanio
festoso risuona e si propaga nell'aria. L'Innominato salta fuori del
letto, corre a una finestra, guarda giù nella valle, e vede di molta
gente che s'accoglie e s'avvia, «tutti dalla stessa parte, verso lo
sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e con
un'alacrità straordinaria». E le sue prime parole son degne del bandito
superbo: «Che diavolo hanno costoro? che c'è d'allegro in questo
maledetto paese? dove va tutta quella canaglia?» Ma saputo che cagione
di quello scampanare e di quello andare, e di tutta quella festa è il
cardinale Federigo Borromeo, altre ne pronunzia, delle quali, parte
esprime un senso di dispetto nato dal contrasto fra l'allegrezza di
_quella canaglia_ e il rodimento proprio, e, più confusamente, dal
contrasto fra la condizion di _quell'uomo_, verso cui tutti corrono, e
la condizion di lui Innominato, da cui tutti rifuggono; parte esprime
la speranza che _quell'uomo_ possa dire anche a lui una di quelle
parole che consolano, dànno la pace e l'allegrezza. L'angosciosa notte
che ha passata vegliando deve avergli cresciuto nell'anima il terror
della solitudine, deve averlo fatto più accessibile a quell'influsso
di suggestione che sempre muove potente dall'operare delle moltitudini.
Vanno tutti a vedere il cardinal Federigo; ebbene, ancor egli ci andrà,
dopo aver lasciate per Lucia parole amorevoli che la rassicureranno.
Il proposito di liberare Lucia, e il proposito di visitare il cardinale
s'integran l'un l'altro.
E a visitare il cardinale egli va com'uno che sia _portato per forza
da una smania inesplicabile, piuttosto che condotto da un determinato
disegno_. Al primo incontrarsi con quello, egli non potrà reprimere
in cuor suo un sentimento di stizza e di vergogna superba; ma sarà
come l'ultimo ribollimento delle antiche passioni, come l'ultima
ribellione dell'uomo antico al nuovo. L'uomo nuovo ha ereditata la
volontà dell'antico, e se ne giova per combattere questa suprema
battaglia, riportare questa suprema vittoria. Il cardinal Borromeo,
il quale mostra di sapere assai bene che le testimonianze di stima
sono tra le forme più efficaci di suggestione, quando si tratti di
educare o di convertire, il cardinal Borromeo di quel fatto s'avvede,
e parla della _sicurezza d'animo_, della _volontà impetuosa_, della
_imperturbata costanza_ dell'Innominato come di qualità e d'energie, da
cui può venir tanto bene in avvenire quanto male già venne in passato,
e fa vedere Dio glorificato da un nuovo uso di quelle, e l'Innominato
stesso più grande assai nella virtù di quanto sia stato mai nella
colpa. Il cardinal Borromeo non tenta di spezzare quella volontà che
già da sè stessa si volge al bene, e non tenta nemmen di deprimere
quell'orgoglio, cui le grandi imprese debbon piacere naturalmente.
La conversione dell'Innominato s'ha da compiere in grazia di quella
volontà e di quell'orgoglio: il pianto dirotto che manifesta la
conversione compiuta, scioglie in lui ogni avanzo di malvagia passione;
non iscioglie quella volontà rettificata, quell'orgoglio purificato.
L'Innominato può farsi _cortese ed umile_ con Don Abbondio, prima
quando gli cede il passo, poi quando gli tiene la staffa; può chinare
la fronte fin sulla criniera della mula quando passa davanti alla
porta spalancata della chiesa; può con lo sguardo atterrato e confuso
chieder perdono a Lucia, e ajutarla, _con una gentilezza quasi timida_,
a entrare in lettiga; ma non si creda che quell'animo sia svigorito,
che il leone sia diventato un agnello. Già nello andar su al castello,
egli aveva, solo con le occhiate, fatto intendere a' suoi bravi di non
muoversi; il che vuol dire che quelle occhiate serbavano l'espressione
e la forza di prima. Ajutato Don Abbondio a rimontar sulla mula,
risalito egli stesso a cavallo per accompagnare i suoi protetti e
tornare a Federigo, egli riappare quello di un tempo: il suo sguardo ha
ripreso _la solita espressione d'impero_, e Don Abbondio avverte tra
sè che a tenere a segno i bravi non ci vuol meno di quella faccia lì.
Al cardinale e ai commensali egli si mostra _ammansato senza debolezza,
umiliato senza abbassamento_.
Il discorsetto che la sera stessa fa ai bravi, e il tono con cui lo fa,
mostrano quanta parte dell'uomo antico persista nel nuovo. Ai bravi
non doveva parere ammansato e umiliato gran che. «Per quanto vari e
tumultuosi fossero i pensieri che ribollivano in que' cervellacci,
non ne apparve di fuori nessun segno. Erano avvezzi a prender la voce
del loro signore come la manifestazione d'una volontà con la quale
non c'era da ripetere: e quella voce, annunziando che la volontà era
mutata, non dava punto indizio che fosse indebolita. A nessuno di loro
passò neppur per la mente, che per esser lui convertito si potesse
prendergli il sopravvento, rispondergli come a un altr'uomo. Vedevano
in lui un santo, ma un di que' santi che si dipingono con la testa alta
e con la spada in pugno». E che della spada avrebbe ancora, a un buon
bisogno, saputo servirsi, e' lo mostra al calar delle bande alemanne,
quando s'appressa pericolo di invasione e di guerra.
Se si potesse fare, senza andar troppo per le lunghe, sarebbe forse
opportuno ora mostrare come la conversione di fra Cristoforo, mentre
somiglia per certi rispetti alla conversione dell'Innominato, sia, per
altri, molto diversa da quella[91]; e perchè Don Abbondio, ch'è, per
così dire, il rovescio dell'Innominato, rimanga, anche dopo la solenne
predica del cardinal Federigo, quello di prima, quello di sempre.
Per concludere: l'Innominato diventa un santo in virtù di quelle stesse
energie che già fecero di lui un demonio. Dopo la conversione gli
elementi essenziali del suo carattere non si può dire che sieno mutati:
la forza non è più violenza, ma rimane pur sempre forza. Volendo
parlare per metafora, e sorpassando alquanto il giusto segno del vero,
si potrebbe dire che l'antico tempio rimane, quanto a struttura e a
proporzioni, immutato; che solo vi si adora un nuovo Iddio. In altri
casi, profondamente diversi da quello che abbiamo sin qui esaminato,
com'è nuovo il Dio, così è nuovo il tempio.


DON ABBONDIO

Il Manzoni fu, tra l'altro, un grande umorista; il più grande ch'abbia
prodotto l'Italia; uno dei più grandi che sien nati al mondo. Tutto
in lui cooperava a renderlo tale: la bontà dell'animo e l'acume della
mente; la vivezza del sentimento e la mancanza di sentimentalismo; la
chiara visione delle cose del mondo e la inoperosità; lo scetticismo
che non esclude la fede e la fede che non diventa credulità. Il
Manzoni è un grande umorista perchè è un realista e un idealista
al tempo stesso; ha, cioè, vivo il senso del reale e chiara la
nozione dell'ideale. L'umore scaturisce appunto dal cozzo del reale
e dell'ideale, quando avvenga in una mente equilibrata e serena:
perciò, nè il realista puro, nè il puro idealista lo possono avere.
Fu detto da taluno che l'umorismo è inconciliabile col sentimento
cristiano; ma se l'umorismo nasce da contrasto fra l'ideale e il reale,
e se richiede certo sentimento della necessaria imperfezione della
umana natura, e ancora della universa vanità delle cose finite, non
si vede dove possa stare la ragione della inconciliabilità; e se si
considera che l'umorismo suppone la simpatia e la pietà, sembra che
il sentimento cristiano debba piuttosto favorirlo che contrariarlo.
E di vero, l'umore è assai più dei moderni che degli antichi; e il
Cervantes, il Swift e lo Sterne furono buoni cristiani (anzi parroci
gli ultimi due); e Gian Paolo, il quale espressamente definì l'umore
un _comico romantico_, disse non potersi dare umore senza l'idea
dell'infinito. L'umore è affatto opposto all'ironia, alla parodia, al
sarcasmo, come già ebbe a notare lo Schopenhauer: perciò il Swift non
è sempre umorista; il Voltaire è di rado; e bisogna andar cauti nel
dire che Arrigo Heine sia. L'umore non esclude punto in chi l'accoglie
il sentimento della superiorità propria, anzi lo richiede; ma questo
sentimento dev'essere senza burbanza e senza asprezza, quale si
conviene a uno spirito che, tutto intendendo, tutto perdona. Pardon's
the word to all, dice un personaggio dello Shakespeare, e perdonare
sempre, sempre, tutto, tutto, sono le ultime parole di Fra Cristoforo.
Il Manzoni non pretende di dominare i proprii personaggi con lo scherno
e col disprezzo, come usa il Flaubert. Egli si studia di tenersi allo
stesso loro livello, si contempla in essi, e sempre, quando ride di
quelli, ride anche un pochino di sè. L'umore non nasce se non negli
spiriti più possenti, più aperti, più generosi; esso è forse la
forma più alta di cui si possano velare l'umana sensitività e l'umano
giudizio.
Dei personaggi dei Promessi Sposi parecchi sono abitualmente e
sostanzialmente umoristici; altri diventano in certe occasioni[92].
Renzo riesce umoristico durante quel suo primo soggiorno a Milano.
Così gli uni come gli altri, mentre dànno esempio di debolezze più
propriamente e più strettamente individuali, dànno anche esempio di
umana debolezza in genere; onde il lettore che li guarda e gli ascolta
e tien loro dietro, nel punto stesso che si abbandona lietamente al
riso, non può tenersi dall'esclamare o dal sospirare, con un leggiero
spunto di melanconia: umana fragilità! umana miseria!
Ma di tutti que' personaggi il più umoristico è sicuramente Don
Abbondio. Anzi, dopo l'inarrivabile ed unico Don Chisciotte, divenuto
oramai una specie di entità morale necessaria allo spirito umano
e all'umano discorso, credo sia Don Abbondio il personaggio più
profondamente umoristico della universa letteratura. E questo, perchè?
Cominciamo dal dire che noi, a ragione o a torto, vogliamo bene a
Don Abbondio. Non si dà forse lettore dell'immortale romanzo che al
primo accenno che il povero curato sta per rientrare in iscena non si
senta tutto esilarare di dentro e non affretti con benevola e giuliva
impazienza il momento di rivederne l'aspetto e di riudirne la voce. Gli
vogliam bene istintivamente, perchè ci diverte e ci rallegra; ma non
gli vogliamo bene per questa ragione soltanto. Le sue disgrazie, che
sono in parte immaginarie, non ci rattristano, perchè prevediamo che
non gli faranno gran male, e che un uomo come quello non può essere
serbato a nulla di tragico e nemmeno di epico; ma ci rincrescerebbe
se lo dovessimo vedere in un pericolo grande davvero, maltrattato sul
serio, schernito più del ragionevole: e quando pure siam forzati a
dirgli che ha torto, che si conduce male, sentiamo di doverglielo dire
con moderazione, con bonarietà, senza contristar troppo quella sua
canizie, e facendoci forza perchè il rimprovero non vada a finire in
una risata. Noi vogliamo anche bene a Don Abbondio per sè stesso, quale
la natura e i casi l'han fatto: e com'è, a parer mio, di tutta evidenza
che gli voleva bene il Manzoni, il quale sembra che non si sapesse
risolvere a lasciarlo in disparte; e come (questo conta ancor più) gli
volevano bene coloro stessi a cui aveva con la sua condotta procurato
tanti dispiaceri. Renzo e Lucia non son contenti se non sono maritati
da lui.
E perchè siamo in tanti a volergli bene? Perchè sentiamo che Don
Abbondio non è cattivo, e che a riuscire a dirittura un bravo uomo
forse non altro gli manca che un po' di coraggio, e che il coraggio,
chi nol sa? _uno non se lo può dare_. Gli è chiaro che se dipendesse
da lui solo Don Abbondio non farebbe male a una mosca. Se dipendesse
da lui, e se bastasse il desiderio, Don Abbondio vorrebbe tutti
tranquilli, tutti contenti, ed essere l'amico di tutto il genere umano,
e che la terra non fosse una valle di lacrime, ma come un'anticipazione
del paradiso; dove si potrebbe poi andare con comodo, il più tardi
possibile. A desiderar tutto questo ci vuol poco, ma a volerlo e a
procacciarlo gli è un altro pajo di maniche. Ad ogni modo, un tal
desiderio è già per sè stesso una bella cosa; e il povero Don Abbondio
che l'ha, e vede intorno a sè tanti che non l'hanno; tanti che, senza
necessità, mettono il mondo a soqquadro; che hanno a noja il _bene
stare_; che potrebbero _andare in paradiso in carrozza_ e preferiscono
_andare a casa del diavolo a pie' zoppo_, Don Abbondio può, con qualche
ragione, stimarsi migliore di molti altri, vantarsi del suo buon cuore,
e credere sinceramente con Perpetua (le illusioni sono facili in queste
materie, e le esagerazioni ancor più) credere che _se pecca è per
troppa bontà_. Gli è certo che Don Abbondio odia tutti i birboni, non
solo perchè son diavoli, che non lasciano in pace nessuno, capaci di
mandare di quelle imbasciate ai poveri curati, ma perchè sono birboni,
nemici di Dio, e andranno tutti all'inferno. Il cardinale gli rinfaccia
di avere ubbidito all'iniquità, ed è vero, pur troppo. Ma intendete
bene, _ubbidito_. Dall'ubbidire al far di suo ci corre. Allorchè,
avendo ancora nelle orecchie le minacce dei bravi, gli balena l'idea
che avrebbe potuto suggerire a quei signori di portare ad altri la
loro imbasciata, e cioè a Renzo, o ad Agnese, o a Lucia, che fa Don
Abbondio? caccia via quell'idea, perchè s'accorge _che il pentirsi di
non essere stato consigliere e cooperatore dell'iniquità è cosa troppo
iniqua_. E quando pensa che ad altri potrebbe parere ch'egli volesse
tenere dalla parte dell'iniquità, che dice il malcapitato? _Oh santo
cielo! Dalla parte dell'iniquità io! Per gli spassi che la mi dà!_
Di gran bugie dice Don Abbondio a quel povero Renzo; ma perchè le
dice? forse per gusto? le dice per salvar la pelle; e se gli uomini
si contentassero di mentire solo quando corrono pericolo della vita,
la verità non avrebbe bisogno di star di casa in un pozzo. Del resto,
tenete per certo ch'egli sarebbe contentissimo se potesse veder
contenti Renzo e Lucia. Di Lucia, quando sa del tiro che le han fatto,
e va (sia pure di mala voglia, _a cavallo_) a torla di prigione,
egli sente pietà, e pensa a tutto ciò che _quella povera creatura_
deve aver patito, e le viene innanzi _con un viso, anche lui, tutto
compassionevole_, sebbene sia _nata per la sua rovina_. Di Renzo dà
buone informazioni al cardinale, e, più tardi, si raccomanda, a chi
può, perchè gli sia tolta anche quella cattura di dosso. Morto Don
Rodrigo, cessato ogni pericolo, ecco saltar fuori, non un Don Abbondio
nuovo, ma un Don Abbondio che prima non si poteva vedere, nascosto come
era nel vecchio; un Don Abbondio garbato, bonario, amorevole, di una
piacevolezza e di una festività da non credere; che vuole a ogni costo
maritar lui i due giovani, a cui, _in fondo, aveva sempre voluto bene_,
e ne cura paternamente gl'interessi, sebbene gliene avessero fatti
dei tiri... Pur troppo! pur troppo! _son que' benedetti affari che
imbroglian gli affetti_. Ma, direte, si rallegra che Don Rodrigo sia
morto. Eh, chi non se ne rallegrerebbe? Se ne rallegra, ma, certamente,
gli perdona, e loda Renzo d'avergli perdonato. Loda anche la peste e
dice che _quasi quasi ce ne vorrebbe una ogni generazione_; e perchè?
perchè è quella che spazza via tanti birboni. Spazza via anche molti
galantuomini; ma s'intende che Don Abbondio non parla per loro. Don
Abbondio celebra con tutta sincerità le glorie dei galantuomini, e il
successore di Don Rodrigo, tanto diverso da questo, gli sembra, non più
soltanto un galantuomo, ma a dirittura un grand'uomo. Don Abbondio non
è un malvagio, e se _un po' di fiele in corpo_ lo ha anche lui, quel
_po'_ esclude l'assai, e chi non ne ha punto getti la prima pietra. Se
lo conoscesse malvagio davvero, il cardinale non gli parlerebbe come
gli parla; non si contenterebbe, sembra, di accennar solamente a una
possibile remozione da quell'ufficio di cui Don Abbondio ha tradito i
doveri.
Ma Don Abbondio è un egoista. Sicuro, ch'è un egoista; ma bisogna
distinguere. L'egoismo è di molte maniere: da quello umile e accidioso
di chi lascia sistematicamente andare l'acqua alla china, a quello
tronfio e furioso di chi mette il mondo sossopra. Da Taddeo e Veneranda
si va su su, per gradi, sino a Marozia e a Napoleone. L'egoismo di
Don Abbondio è un egoismo povero, timido, mingherlino, casalingo,
pedestre. Considerate, di grazia, il concetto ch'egli s'è formato della
felicità, i suoi bisogni, i suoi desiderii. Si può essere più modesto
e più discreto? Don Abbondio non vuol ricchezze, non sogna onori, non
si cura di vantaggi. Curato di campagna è, curato di campagna morrà;
contento dell'oscuro suo stato, sebbene i curati sieno servitori del
comune, condannati _a tirar la carretta_. Che ai cardinali si dia
della signoria illustrissima o dell'eminenza, a lui che può importare?
Che può importare a lui che vescovi, abati, proposti, canonici
s'arrabattino e s'azzuffino per un titolo, e che il papa li contenti
o non li contenti? _Gli uomini son fatti così; sempre voglion salire,
sempre salire_.... Ma Don Abbondio non vuole nè salire nè scendere;
Don Abbondio vuol rimanere dov'è, senza cercar nessuno, senza chiedere
_altro che d'esser lasciato vivere_, felice di sgattajolare, di
rimpiattarsi, d'essere piccolo, oscuro, negletto, di non essere veduto
e neanche saputo. _Oh se fossi a casa mia!_ ecco il grido che gli
prorompe dal fondo dell'anima e che veramente compendia tutte le sue
aspirazioni.
I grandi egoisti vorrebbero tutto per loro, e, o con l'astuzia, o
con la forza, pigliano dell'altrui quanto più possono, e giungono
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