Foscolo, Manzoni, Leopardi: saggi - 14

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trovarsi più facilmente fra coloro in cui suol essere più eccitabile
il sentimento e più viva e pronta la fantasia; cioè fra gli artisti in
generale. Ora, è frequentissimo il caso che gli artisti appunto (fatta
eccezione, s'intende, dei musicisti) siano poco aperti alla impressione
musicale, e poco se ne dilettino: il che potrebbe essere effetto di
una specificazione soverchia delle facoltà estetiche e di una troppo
esclusiva applicazione di esse a una data forma di arte e a quella
soltanto. Fu notato che i pittori sogliono avere più senso musicale,
e più inclinano alla musica che gli scultori e gli architetti; ma fu
sempre notato che molti letterati e poeti non hanno punto nè quella
inclinazione, nè quel senso. Il Balzac detestava la musica; il Gautier
preferiva il silenzio; i De Goncourt e il Maupassant si confessavano
sordi, ecc. ecc.[244].
Ma sono molti anche gli esempii contrarii; e lasciamo stare che
nell'antichità, e poi ancora nel medio evo, finchè musica e poesia
durarono congiunte, e formarono quasi un'arte sola e una sola
professione, difficilmente i poeti avrebbero potuto essere nemici o
noncuranti della musica. Numerosissimi luoghi della _Commedia_ mostrano
che Dante ebbe della musica un senso squisito; e ben se ne avvide
il Giordani, il quale meditò (quante mai cose meditò e non fece il
Giordani!) di scrivere un saggio sopra Dante e la musica. Ogni qual
volta parla di canto, di dolci note, di armonie d'organi, il poeta ne
parla a guisa d'uomo cui l'arte dei suoni inebbria e rapisce l'anima.
_L'amoroso canto_ di Casella, che _solea quietar tutte sue voglie_,
consola ancora, là, sulla prima sponda del purgatorio, l'anima tanto
_affannata_ dal terribile viaggio[245]. Il Petrarca, che compose
le dolci sue rime ajutandosi col suono e col canto, scriveva dalla
solitudine di Valchiusa all'amico Francesco de' SS. Apostoli: «Che dir
degli orecchi? Canti, suoni, armonie di corde o di liuti, ond'io già
provai tanta dolcezza, che si parea rapirmi fuor di me stesso, qui non
avvien che si sentano»[246]: e nel _De remediis utriusque fortunae_ fa
che il Gaudio ostinatamente enumeri in contradditorio con la Ragione
tutte le dolcezze che derivano dalla musica[247].
Che lo Shakespeare fosse un appassionato di musica tutti quasi i
suoi drammi ne fanno fede; e un appassionato fu, come di ragione, il
Metastasio, che se ne intendeva assai, e cantava, e componeva, e i suoi
versi lo dicono anche troppo. Un appassionato il Goethe non fu, ma pure
gustò l'arte del Mendelssohn, che, fanciullo, era andato a trovarlo, e
ammirò il Beethoven. Il Klopstock ebbe orecchio finissimo e la musica
lo faceva andare in estasi. Il Byron non poteva udire musica tenera
o dolorosa senza sciogliersi in lacrime. Il Moore e lo Shelley hanno
ciascuno una poesia intitolata _Music_; e il primo, che per ridurre i
proprii versi a maggior perfezione usava cantarli, dice il linguaggio
parlato esser languido e povero a paragon della musica[248]; e il
secondo rassomiglia il proprio cuore, assetato di musica, a un fiore
morente, assetato di rugiada[249]. Nella _Lucie_ di Alfredo De Musset
leggiamo:
Fille de la douleur, Harmonie! Harmonie!
Langue que pour l'amour inventa le génie!
Qui nous vins d'Italie, et qui lui vins des cieux!
Douce langue du cœur, la seule où la pensée,
Cette vierge craintive et d'une ombre offensée,
Passe en gardant son voile et sans craindre les yeux!
Qui sait ce qu'un enfant peut entendre et peut dire
Dans tes soupirs divins, nés de l'air qu'il respire,
Tristes comme son cœur et doux comme sa voix?
On surprend un regard, une larme qui coule;
Le reste est un mystère ignoré de la foule,
Comme celui des flots, de la nuit et des bois!
Il Manzoni, quando compose il _Cinque Maggio_, costrinse la moglie a
sonargli il pianoforte, quasi per due giorni di séguito.
Dell'Hugo fu detto che detestasse la musica; ma prima di dar fede a chi
lo disse, conviene leggere con qualche attenzione una poesia intitolata
_Que la musique date du XVI siècle_, la quale è nella notissima
raccolta dei _Rayons et ombres_, e conta non meno di 222 alessandrini.
Comincia il poeta chiedendo agli amici: Qual è di voi che, sentendosi
oppresso dalla tristezza, non abbia trovato nella musica consolazione
e conforto? Poi, in versi meravigliosi, che non hanno riscontro in
nessun'altra letteratura, descrive, rifà il vasto, vario, ponderoso
canto dell'orchestra, il moltiforme miracolo della sinfonia.
Écoutez, écoutez! du maître qui palpite,
Sur tous les violons l'archet se précipite.
L'orchestre tressaillant rit dans son antre noir.
Tout parle. C'est ainsi qu'on entend sans les voir,
Le soir, quand la campagne élève un sourd murmure,
Rire les vendangeurs dans une vigne mûre.
Comme sur la colonne un frêle chapiteau,
La flûte épanouie a monté sur l'alto.
Les gammes, chastes sœurs dans la vapeur cachées,
Vidant et remplissant leurs amphores penchées,
Se tiennent par la main et chantent tour à tour,
Tandis qu'un vent léger fait flotter alentour,
Comme un voile folâtre autour d'un divin groupe,
Ces dentelles du son que le fifre découpe.
Ciel! voilà le clairon qui sonne. A cette voix
Tout s'éveille en sursaut, tout bondit à la fois.
La caisse aux mille échos, battant ses flancs énormes,
Fait hurler le troupeau des instruments difformes,
Et l'air s'emplit d'accords furieux et sifflants
Que les serpents de cuivre ont tordus dans leurs flancs.
E bisognerebbe citar tutto, sino alla fine. Cosa davvero curiosa! il
Leopardi, appassionatissimo di musica, di strumenti musicali non parla;
non mostra di prediligerne alcuno; non nota affinità particolari fra
certi sentimenti e il suono dell'uno o dell'altro di essi. La voce
umana dovette parergli di molto superiore ad ogni istrumento.
Se a non pochi poeti fece difetto il sentimento musicale; se altri
l'ebbero, come il Leopardi, assai vivo e profondo; che cosa dobbiam noi
pensare delle relazioni che passano tra la poesia e la musica, e della
somiglianza, o dissomiglianza loro? Dobbiam noi seguitare a ripetere
col Marini, che ridiceva quanto cent'altri avevano detto,
Musica e poesia son due sorelle[250];
o dobbiam finalmente risolverci a dire che tra le due ci può essere
conoscenza, ed anche amicizia, ma non consanguineità? Un critico
francese contemporaneo si sforzò di provare che quelle relazioni non
sono già così strette come comunemente si crede, e che la somiglianza
è pochissima, o nulla. Egli esce a dire assai risolutamente: «autant
la musique moderne ressemble, _au point de vue du rythme_, à la
poésie-musicale des Grecs, autant elle diffère, _à tous les points de
vue_, de la poésie moderne». E soggiunge: «Toute assimilation de la
musique à la poésie est aujourd'hui une simple figure de rhétorique,
une chimère ou une idée dangereuse»[251]. Parmi che l'autore dica cosa
per molti rispetti giusta, ma che ecceda alquanto nel suo giudizio. La
somiglianza che fu in antico, quando le due arti vivevano strettamente
congiunte, non mancò mai del tutto dopo che quelle si furono separate,
e dura, in una certa forma, tuttavia, come ne fanno fede il comun
sentimento e il comune linguaggio. Le due arti hanno, e il critico lo
riconosce: «un instrument commun, la voix humaine (dont l'orchestre
n'est qu'une extension), et un point de recontre d'ailleurs un peu
indécis: le rythme»[252]. Nei versi una musica c'è, e quanta sia, e
come efficace, si vede allora che si scompongono i versi e si riducono
in prosa. Il buon Baretti consigliava appunto di far così a chi li
volesse giudicar rettamente; ma un procedimento sì fatto, se agevola il
giudizio del valore logico di una poesia, rende impossibile il giudizio
del valore poetico. Aggiungasi che la poesia, perchè se ne senta tutto
l'effetto, non bisogna contentarsi di leggerla mentalmente, ma ad alta
voce, e, se occorre, declamarla; e la declamazione è già un mezzo
canto, cioè una mezza musica, perchè importa continua variazione di
tono, di movimento, di colorito, e trae valor dal metallo, dall'impasto
e dalla estensione della voce[253]. Un maestro della difficilissima
arte del leggere, Ernesto Legouvé, biasimando severamente la stolta
usanza di coloro, che, quando leggono versi, fanno il possibile perchè
non pajano versi, ma prosa, scrisse: «Puisqu'il y a un rythme, faites
sentir le rythme! Quand les vers sont peinture et musique, soyez,
en les lisant, peintre et musicien! Que de passages où le pathétique
lui-même naît de l'harmonie![254]». Si può dire che la declamazione
è un'arte diversa dalla poesia, pur diventando, in certe occasioni,
sussidiaria di quella; ma mentre non intendo che razza d'arte possa
essere la declamazione presa in sè stessa, separatamente cioè dal
discorso poetico (versi o prosa), non intendo nemmeno come si possa
fare arte diversa e sussidiaria di quello speciale procedimento o
metodo da cui un'altr'arte viene a ricevere il suo maggior possibile
valore e la maggior possibile significazione. La poesia non è un'arte
muta come la pittura, la scultura, l'architettura; la poesia è un'arte
parlata, un'arte sonora, come la musica. E se è assurda la pretensione
di coloro che vogliono fare della poesia una musica, e non altro che
una musica; non è già assurdo che, come il musicista si giova di certi
strumenti per produrre certe impressioni, così il poeta si giovi di
certi suoni per produrre certi effetti. E poichè non tutte le lingue
sono musicali egualmente, riman confermato, anche per questo capo, che
non tutte le lingue sono egualmente poetiche.
Fu asserito già da più d'uno che gli oratori possono trarre dallo
studio della musica beneficio non piccolo: ma se è vero ciò; se è
vero quanto più in generale afferma lo Spencer, che, cioè, la musica
reagisce sulla parola parlata; non si capisce perchè dallo studio,
o almeno dal natural sentimento della musica, non avessero ad avere
qualche beneficio anche i poeti. A riuscire poeta non è necessario
gustare la musica; troppi esempii lo provano. Ma non credo sia del
tutto indifferente che il poeta la gusti o non la gusti; nè credo
possibile che dall'amore o dall'avversione un qualche effetto non
derivi all'arte sua. Non so sino a qual segno il poeta che gusta la
musica possa avere miglior senso del ritmo poetico, e formar versi
di miglior suono, a paragone del poeta che non la gusta; ma credo
che quello che la gusta sia tratto, se non altro, a esprimere con
la propria poesia piuttosto certi sentimenti che certi altri, e quei
sentimenti in ispecie che meglio si affanno alla musica, e furon perciò
detti musicali.
Un'ultima osservazione. Avvertì Salomone nei _Proverbii_: «Simile a
colui che tolga ad uno la veste in una fredda giornata, o versi l'aceto
nelle ferite, è colui che ad uomo triste canta allegre canzoni». Nulla
è più vero. I melanconici non amano se non la musica melanconica, e
detestan la gaja. Ma è pur da ricordare che l'intelletto, l'eterno
curioso, può far vincere all'uomo moltissime ripugnanze. Il Leopardi
preferì, senza dubbio alcuno, la musica triste, anzi si deve tenere
per fermo che non amò se non quella; ma ciò non gli tolse già d'andare
ad ascoltare in Roma un'opera buffa, che non gli piacque punto[255],
e in Napoli il _Socrate immaginario_, musicato dal Paisiello, che gli
piacque moltissimo[256]. Se si pensa alla diversa impressione che la
melodia e l'armonia producon nell'animo, è da credere che il Leopardi
inclinasse più alla prima che alla seconda.

CAPITOLO IV.
IL SENTIMENTO DELLA NATURA NEL LEOPARDI.
Qui, forse più che altrove, bisogna distinguere nella vita di Giacomo
Leopardi un prima e un dopo, essendo questo della natura un sentimento
che varia moltissimo, con la età, le occupazioni, le esperienze, le
vicende, la salute dell'uomo.
Se dovessimo credere alla tarda testimonianza di Antonio Ranieri,
il poeta avrebbe nutrito per la campagna un «odio ingenito»; nessun
altr'uomo avrebbe «tanto odiato la campagna quanto Leopardi la
odiava»[257]. Un tempo fu creduto al Ranieri ogni cosa sul conto del
Leopardi; ora non gli si vorrebbe creder più nulla. Anche in ciò,
probabilmente, la via giusta sarà la via di mezzo tra l'uno e l'altro
eccesso. Può essere che negli ultimi anni della sua travagliatissima
vita il Leopardi prendesse in avversione la campagna, come tante altre
cose aveva già prese in avversione; ma ciò non prova punto ch'egli
l'avesse odiata sempre; e il Ranieri ebbe sicuramente torto di parlare
di _odio ingenito_; e anche più torto hanno coloro che tiran fuori la
testimonianza del Ranieri per asserire che il Leopardi non ebbe vero
sentimento della natura.
Da giovane anzi, quando, innamorato di solitudine, fuggiva coloro da
cui era fuggito, e accusava la luna se lui scopriva all'altrui sguardo,
o altri al suo; quando si doleva d'aver conosciuto _le cittadine
infauste mura_ e l'umano consorzio; quando scriveva la _Vita solitaria_
e il _Passero solitario_; il Leopardi amò la campagna e amò la natura.
Della patria sua non altro gli piaceva che lo spettacolo dei colli
e dei campi, con gli Apennini da una banda e il mare dall'altra; ma
quello piacevagli soprammodo e lo consolava di tanti disgusti. «Quando
io vedo la natura in questi luoghi che veramente sono ameni (unica
cosa buona che abbia la mia patria) e in questi tempi spezialmente,
mi sento così trasportare fuori di me stesso che mi parrebbe di far
peccato mortale a non curarmene.....»[258]. Di sì fatto amore non è
capace chi non sappia vivere in solitudine; e chi della solitudine
si piace non è quasi possibile che non inclini a quell'amore. Ho già
ricordato un luogo del _Parini_ ove il poeta dice di non intendere
come chiunque vive in città grande, eccetto se non trapassi il più
del tempo in solitudine, possa mai ricevere dalle bellezze della
natura «alcun sentimento tenero o generoso, alcun'immagine. sublime
o leggiadra»[259]. Chi legge con qualche attenzione alcune poesie del
Leopardi non può non sentirvi quel particolar tuono di famigliarità e
di tenerezza che solo può nascere dalla convivenza stretta, dalla lunga
consuetudine.
Ora si noti che la età in cui gli uomini più si sentono attratti
dalla natura non suol essere l'età della giovinezza. I giovani, troppo
curiosi di conoscere il mondo umano e la vita, troppo desiderosi di
accaparrar l'avvenire, tendono spontaneamente colà dov'è maggiore
frequenza e varietà di uomini, ove la vita è più intensa e molteplice;
alle grandi città. Essi sono di loro natura così inquieti e mutabili,
che malamente si possono accordare con la quieta e non mutabil natura;
e il muto linguaggio di questa è così disforme dal loro, che essi, o
non lo intendono, o poco l'ascoltano. Lo stesso Leopardi quante volte
non lamentò di dover consumare l'_età verde_, l'_unico fior della
vita_, nel _natio borgo selvaggio_,
intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper![260]
quante volte, conscio di sè, appassionato di gloria, non desiderò la
città grande, il vasto e popoloso teatro, dove l'uomo può farsi vedere
e conoscere, raccogliere il plauso ed il premio che gli è dovuto!
L'età migliore per amar la natura, e per fruire del suo consorzio, è
quella prima e ancor verde stagione della vecchiezza, quando l'uomo,
conosciuti gl'inganni e le vanità del mondo, sciolto dalle passioni,
ma non esausto di sentimento, sereno, ma non anneghittito, desidera
la pace, ed è tuttora in grado di abbellirla con l'affetto e la
fantasia[261].
Il Leopardi da giovane amò la natura, e l'amò come Werther, in
solitudine, senza amici, con un senso di dolce melanconia, con un
intero e tenero abbandono, e in una maniera di vaga ed estatica
contemplazione, che non esclude la visione degli aspetti parziali e
particolari, ma non lascia che alcuno di essi spicchi troppo fra gli
altri[262]. C'è in una lettera ormai famosa, scritta dal nostro poeta
al Giordani ai 6 di marzo del 1820, da Recanati, un passo che nessuno
si meraviglierebbe di leggere in una lettera del giovine Werther. «Sto
anch'io sospirando caldamente la bella primavera come l'unica speranza
di medicina che rimanga allo sfinimento dell'animo mio; e poche sere
addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza,
e vedendo un cielo puro, un bel raggio di luna, e sentendo un'aria
tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune
immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi
a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura,
la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo. E in quel momento
dando uno sguardo alla mia condizione passata, alla quale ero certo di
ritornare subito dopo, com'è seguìto, m'agghiacciai dallo spavento, non
arrivando a comprendere come si possa tollerare la vita senza illusioni
e affetti vivi, e senza immaginazione ed entusiasmo; delle quali cose
un anno addietro si componeva tutto il mio tempo, e mi facevano così
beato, non ostante i miei travagli»[263].
La riflessione può venir distinguendo nel sentimento e nel godimento
della natura tre modi, i quali difficilmente nella pratica possono
rimanere dissociati del tutto; anzi, con varia proporzione, si
associano fra di loro, e mutuamente si condizionano. La natura può
essere goduta: sensualmente, da chi ne guardi sopratutto gli aspetti;
sentimentalmente, da chi si finga con essa certa comunione di affetti e
di vita; intellettualmente, da chi ne indaghi e ne ravvisi l'ordinanza
e l'essere. I poeti e gli artisti, in genere, sono quelli che ne
godono sensualmente e sentimentalmente; gli scienziati e i filosofi, in
genere, sono quelli che ne godono intellettualmente.
Io non ho a tesser qui una storia del sentimento della natura,
mostrando quale e quanto sia stato nell'antichità, poi nei tempi
di mezzo, poi nei tempi moderni; e perchè si abbia in conto di
sentimento assai più moderno che antico; e come le vicende della
civiltà l'abbiano condotto a quella condizione e a quel grado in cui
lo vediamo al presente. Così fatte storie non mancano, e di molti de'
maggiori poeti s'andò ricercando, da trent'anni a questa banda, qual
fosse propriamente il sentimento della natura. Perciò, tralasciando
ogni altra considerazione generale, vengo a dire del sentimento del
Leopardi in particolare, e, prima di tutto, cercherò di definirne il
temperamento e il carattere.
Il Leopardi, secondo porta l'indole sua, non contempla la natura quale
semplice soggetto conoscente, ma bensì quale soggetto conoscente e
appassionato. Egli non gusta, direbbe lo Schiller, la natura nel modo
ingenuo, ma nel modo sentimentale, in quanto che viene associando le
impressioni di quella coi sentimenti, le preoccupazioni e i ricordi
proprii, o interpretando la natura secondo sè stesso. Il modo del
suo sentimento si scosta affatto dal classico, e si assimila molto al
romantico, quale fu descritto da madama di Staël: «Un nouveau genre
de poésie existe dans les ouvrages en prose de J.-J. Rousseau et de
Bernardin de Saint-Pierre; c'est l'observation de la nature dans ses
rapports avec les sentiments qu'elle fait éprouver à l'homme. Les
anciens, en personnifiant chaque fleur, chaque rivière, chaque arbre,
avaient écarté les sensations simples et directes, pour y substituer
des chimères brillantes; mais la Providence a mis une telle relation
entre les objets physiques et l'être moral de l'homme, qu'on ne
peut rien ajouter à l'étude des uns qui ne serve en même temps à la
connaissance de l'autre»[264]. Questo giudizio è giusto. L'uomo non
potè sentir sè nella natura, trasfondersi in lei, se non dopo averne
espulse le anime divine che tutta la occupavano. Ciò appunto ebbe a
notare lo Chateaubriand, quando disse la mitologia essere stata quella
che tolse agli antichi di vedere e dipingere la natura come i moderni
la vedono e la dipingono. Riman da avvertire che l'uomo il quale solo
vede la natura attraverso i proprii affetti, non la conosce gran che
meglio dell'uomo che solo la vede attraverso le proprie immaginazioni;
e che la natura non è meno alterata dall'antropomorfismo del sentimento
che dall'antropomorfismo del mito. Il sentimento che abbiam detto
romantico, allora tocca l'estremo suo grado quando l'uomo si sente
quasi confuso con la natura, non sa più da essa discernersi. Chiedeva
il Byron: Non sono le montagne e l'onde e i cieli una parte di me e
dell'anima mia, com'io di loro?
Are not the mountains, waves and skies, a part
Of me and of my soul, as I of them?
Al Leopardi parve talvolta di sentirsi confuso co' silenzii del
solitario luogo, dove, sedendo immoto, consumava l'ore obblioso del
mondo, inconscio quasi di sè[265].
Il Leopardi amò da giovane la natura di un amore che molto s'assomiglia
all'amore ch'ei nutrì per la donna. Il Leopardi ebbe da natura un'anima
amante, guastatagli poi dalla esperienza, e più dal male. Parlando di
sè sotto nome di Eleandro, egli dice: «Sono nato ad amare, ho amato,
e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva»[266].
Leggansi quei primi, indimenticabili versi delle _Ricordanze_, e si
vegga quanto affettuosa e dolce e piena fosse stata la comunione e la
confidenza di lui con la natura, quando, fanciullo ancora, passava le
sere contemplando le _vaghe stelle dell'Orsa_,
ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna;
e distraeva l'occhio dalle _luci_ del cielo, che tante _fole_ gli
creavano nel pensiero, per vagheggiare la lucciola errante _appo le
siepi e in sull'aiuole_, e porgeva l'orecchio al sussurro che levavano
al vento
I viali odorati ed i cipressi
Là nella selva.
Quelle prime impressioni non gli si dileguarono dalla memoria mai
più. Desto assai per tempo all'amor della donna, egli aveva, a
diciannov'anni, dimenticato, insieme con l'amor della gloria e degli
studii, anche quello della natura:
Quando in dispregio ogni piacer, nè grato
M'era degli astri il riso, o dell'aurora
Queta il silenzio o il verdeggiar del prato[267];
ma poi aveva, come il Goethe, amato in cospetto della natura, chiamando
lei testimone di quella vita nuova e di quella nuova letizia, a cui
si sentiva nascere; versando nel materno seno di lei quell'onda di
felicità che gli traboccava dall'anima; confondendo insieme i due
amori:
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti
E quinci il mar da lunge, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Ciò ch'io sentiva in seno[268].
Il _Passero solitario_, l'_Infinito_, la _Vita solitaria_, composizioni
tutte della prima giovinezza del poeta, nate, la prima, nell'aprile
del 1818, l'altre due l'anno successivo, esprimono in vario modo un
sentimento medesimo. Nella prima è la tenerezza che mette ne' cuori la
primavera, la quale
Brilla nell'aria e per li campi esulta;
è l'allegrezza delle creature festeggianti il _lor tempo migliore_.
Nell'altre due la contemplazione della natura suscita un pensier
panteistico, provoca lo smarrimento dell'anima nell'infinito mare
dell'essere:
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco
Il cor non si spaura[269].
E il pensier suo s'annega in quella immensità, e gli è dolce naufragare
in quel mare. Svegliato dal sole nascente, che
I suoi tremuli rai fra le cadenti
Stille saetta,
egli sorge, e benedicendo s'affaccia allo spettacolo delle cose:
E sorgo, e i lievi nugoletti e il primo
Degli augelli sussurro, e l'aura fresca,
E le ridenti piagge benedico.
La natura gli addimostra ancora alcuna pietà, sebbene gli sovvenga di
giorni in cui ell'era verso lui assai _più cortese_; e a quella pietà
egli si fa incontro, e, come pellegrino stanco, posa il capo in grembo
all'antica madre e in lei s'addormenta.
Talor m'assido in solitaria parte,
Sovra un rialto, al margine d'un lago
Di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
Ed erba o foglia non si crolla al vento,
E non onda incresparsi, e non cicala
Strider, nè batter penna augello in ramo,
Nè farfalla ronzar, nè voce o moto
Da presso nè da lunge odi nè vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
Ond'io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto, e già mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, nè spirto o senso
Più le commova, e lor quiete antica
Co' silenzi del loco si confonda[270].
Qui la natura è ancora la madre antica e benefica. Qual de' suoi figli
può non amarla, se essa tutti gli ama? Udite Vittore Hugo:
Ainsi, nature! abri de toute créature!
O mère universelle! indulgente nature!
Ainsi, tous à la fois, mystiques et charnels,
Cherchant l'ombre et le lait sous tes flancs éternels,
Nous sommes là, savants, poètes, pêle-mêle,
Pendus de toutes parts à ta forte mamelle![271]
La natura che il Leopardi ritrae ne' suoi versi non è nè molto
spettacolosa, nè molto variata. Egli non potè _approvvigionarsi_
d'immagini vivendo, come il Rousseau, in mezzo alle austere bellezze
dell'Alpi e sulle rive di un lago meraviglioso, o correndo, come lo
Chateaubriand, il Byron e lo Shelley, le terre ed i mari. Il grande
paesaggio romantico, quale lo amava l'autore della _Nuova Eloisa_,
il paesaggio formato di monti scoscesi, di tenebrose foreste, di
torrenti, di cascate, di abissi, non è dipinto, nè abbozzato da lui;
e del resto il gusto di esso, che da non molto era sorto in altre
regioni d'Europa, non era per anche penetrato in Italia, dove troppo
gli contrastavano un senso educato ad altre bellezze e la tradizione
classica[272]. I monti e il mare appajono appena, alla sfuggita, in
qualche verso. Le _sibilanti selve_, l'_atro bosco_, sono indicati con
un'unica pennellata. Vere e proprie descrizioni, particolareggiate,
colorite, minute, simili a quelle che così frequenti s'incontrano in
tanti poeti moderni, e più che negli altri forse, negli Scozzesi, non
s'incontrano in lui; ma io non posso credere ch'esse sole rivelino un
forte e puro sentimento della natura[273]. Il Leopardi non va erborando
come il Rousseau, non osserva la natura delle rocce come il Goethe, non
è curioso di pompe e di contrasti di colore come il Leconte de Lisle.
Il sentimento ch'egli ha della natura è, starei per dire, un sentimento
diffuso, rispondente a una visione di aspetti generici, non di aspetti
specifici[274]. Se si tolgono que' pochi versi della _Vita solitaria_,
ov'è tratteggiato il lago cinto di piante taciturne, i tre dell'_Inno
ai Patriarchi_, ov'è dipinto il sole che, dopo il diluvio, emerge dalle
nuvole, e alcuni della _Ginestra_, ove il poeta fa apparire un istante
l'_arida schiena_ dello _sterminator Vesevo_ e i campi _dell'impietrata
lava_, non si trova nelle poesie di lui altra descrizione di cui un
pittore possa far quadro. Non una volta il Leopardi descrive una scena
di paese per sè stessa. Egli, o non ha la percezione completa dello
spettacolo naturale, o, avendola, subito comincia a lavorarvi attorno,
astraendo e associando; e gli è solo in grazia di questo processo
doppio di astrazione e di associazione che un paesaggio può ridursi
a non sembrar altro che uno stato d'animo, come disse l'Amiel (_un
paysage quelconque est un état de l'âme_)[275].
Piante e animali il Leopardi guarda fugacemente, senza curarsi di
ritrarne in modo distinto e particolare gli aspetti e la vita, come
uomo che l'occhio e l'animo abbia rivolto ad altro. Nella _Vita
solitaria_ e nell'_Infinito_ fa cenno di piante, ma non dice che
piante sieno; e se nell'_Ultimo canto di Saffo_ ricorda il murmure
de' _faggi_, e nelle _Ricordanze_ i _cipressi_, e nella _Ginestra_
l'arbusto da cui il componimento s'intitola, sono, questi, esempii
assai rari di designazione specificata e concreta. Certo, il Leopardi
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