Foscolo, Manzoni, Leopardi: saggi - 04

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vedremo, il solo caso in cui s'abbia a notare nel Manzoni una tendenza
classica, o un classico procedimento.

IV.
Il romanticismo fu, tra l'altro, un ritorno alla fede; uno studio di
mostrar falsa e di scalzare la inveterata opinione, espressa in modo
più particolarmente reciso dal Boileau, che i fatti e i dogmi del
cristianesimo ripugnino alle forme e alle trasposizioni dell'arte; un
desiderio e una sollecitudine di conciliare appunto quello con questa.
Perciò lo Chateaubriand scrive il _Genio del cristianesimo_. Degli
eccessi di reazion clericale che accompagnarono quel ritorno: gli
Stati cristiani riassoggettati tutti dal Lamennais alla indiscutibile
sovranità del Pontefice; il Pontefice proclamato da Giuseppe De Maistre
dogma capitale della fede cattolica (_le dogme capital du catholicisme
est le souverain Pontife_), ecc., ecc.; non è qui da discorrere.
Molti romantici furono cristiani; molti furono cattolici; qualcuno
dal cristianesimo o dal cattolicismo si condusse a grado a grado,
come l'Hugo, a un vago deismo o panteismo; parecchi, per altre vie,
riuscirono da ultimo all'ateismo. Il Manzoni fu cattolico, ma dopo
essere stato razionalista. In ciò egli somiglia, per tacer d'altri,
allo Chateaubriand; ma quanto diverso dallo Chateaubriand sott'altri
aspetti! Quanto l'autore dei _Promessi Sposi_ è più veramente,
intimamente, sostanzialmente cristiano che non l'autore dei _Martiri_!
Questi orgoglioso ed acre; quegli modesto e mite. Questi stuzzica e
accende la passione; quegli la attutisce e la spegne. Da taluno fu
messa in dubbio la sincerità del sentimento cristiano nel Manzoni; ma
debbo confessare che non ne intendo troppo il perchè. Può darsi (io per
altro nol direi) che il cristianesimo degl'_Inni sacri_ riesca un po'
scolorito, un po' freddo; ma quello dei _Promessi Sposi_? I _Promessi
Sposi_ sono opera e testimonio di una coscienza tutta cristiana,
profondamente cristiana, penetrata dello spirito dell'evangelo sino
negli ultimi suoi recessi; e però non si trova in essi nessuna di
quelle tante piccole contraddizioni, piccole defezioni, piccole
sconvenienze che si posson notare, e furon notate, nelle opere dello
Chateaubriand. Certo il Manzoni non pensò mai a fare del Papa il dogma
capitale del cattolicismo; ma ciò attesta, oltrechè la rettitudine
della sua mente, anche la rettitudine della sua fede. E da questa fede
vengono principii e norme non meno alla politica che all'arte di lui.
Fate che lo spirito evangelico si accompagni con quel vivo e giusto
sentimento della realtà storica di cui s'è parlato testè, e avrete
l'idea democratica e il sentimento democratico del Manzoni, quali
prorompono negl'_Inni sacri_, nel celebre coro dell'_Adelchi_, nei
_Promessi Sposi_. È un'idea molto larga, ma, nel tempo stesso, molto
rigorosa; è un sentimento molto caritatevole, ma, nel tempo stesso,
molto cauto. Certi spiriti di democrazia il romanticismo doveva (con
molte eccezioni, restrizioni e contraddizioni, gli è vero) manifestarli
sino da' suoi principii, e ciò per parecchi motivi. Prima di tutto essi
erano, in parte, retaggio non alienabile di quel secolo xviii al quale,
come s'è visto, il romanticismo è congiunto assai più strettamente
che non paja; poi il sentimento cristiano, in quel suo rinnovarsi,
s'aveva di necessità a penetrare alquanto di quella evangelica pietà e
di quell'evangelico rispetto verso gli umili che il sentimento stesso,
quando divenga consuetudine e tradizione, lascia troppo facilmente e
troppo volentieri in disparte; poi, ancora, la semplicità e naturalezza
di quegli umili aveva a piacere a chi era sazio dell'artifiziato,
dell'aulico, dell'accademico; poi, finalmente, l'amore alla realtà,
e, in ispecie, alla realtà storica, non poteva non fare che gli occhi
e le menti si raccogliessero sopra quella che è la più vasta e viva
delle realtà umane, il popolo co' suoi bisogni, le sue passioni, i
suoi patimenti, le sue fedi. Molti romantici dunque (sarebbe un grande
errore dir tutti) furono, se non democratici, nel proprio senso della
parola, demofili, o popolari; e lasciato da banda l'uomo alterato e
travisato dalle raffinatezze cortigiane e non cortigiane, cercarono,
nè più nè meno di quanto abbiano poi fatto i realisti, l'uomo schietto
e comune. Lodevole sentimento e lodevol proposito, ma che in pratica
riesce assai difficile contenere entro gli angusti termini del giusto e
del ragionevole. Il Manzoni, anche in questo diverso da troppi, seppe
contenerveli con sapiente risolutezza. Egli ama il popolo, ma non
l'adula; ne sostiene le ragioni, ma non ne stuzzica le passioni: lo
vuol felice, ma non superbo. Diffida in sommo grado di certe formole,
di certi aforismi. Dice, per bocca d'Agnese, che tutti i signori hanno
del pazzesco: ma si burla dell'apotegma; _Voce di popolo, voce di Dio_;
e le giustizie delle moltitudini stima le peggiori che si facciano al
mondo[35].
I romantici vollero letteratura popolare, e il Bürger giunse a dire
che la poesia popolare è la sola vera poesia, e l'Hugo, in quel suo
linguaggio immaginoso, che ufficio del poeta è trasformare la folla in
popolo. Per questo rispetto si può dire che il Manzoni fu più romantico
di tutti i romantici, e coerente più di tutti; perchè fu popolare non
solo nella invenzione e nel fine, ma nello stile, nella lingua, e nella
dottrina stessa della lingua, facendo alleanza col Porta, rifiutando
la prosa poetica, e sino a un certo segno, ma non quanto si crede, la
lingua poetica.
Il romanticismo favorì e promosse per un verso l'individualismo, e
anzi da taluno il romanticismo fu definito, se definizione può dirsi,
una esplosione d'individualismo. Come definizione regge benissimo.
Non so come un tal fatto possa conciliarsi con quella innovata
idea della storia cui accennavo di sopra, con la sollecitudine per
le tradizioni e le usanze comuni, col concetto di una letteratura
popolare, e, sopratutto, con l'umiltà cristiana. Mi par di vederci
una grande contraddizione; ma non può esser còmpito mio (nè so di
chi potrebbe esser còmpito) lo scegliere tutte le contraddizioni
del romanticismo, piccole, grandi e mezzane. Fatto sta che una certa
continuata e impertinente ostentazione di sè, quello che un Francese
direbbe l'_étalage de la personnalité_, quello che uno psichiatra
potrebbe chiamare l'_esibizionismo_ letterario, è male cui van soggetti
moltissimi romantici, male che nei più si mantiene abbastanza remissivo
e tollerabile, ma che in alcuni diventa a dirittura smodato ed odioso.
Non serve far nomi che tosto corrono alla mente di ognuno. Ora, anche
di questo male andò immune il Manzoni. Non credo ch'egli giungesse
a dire col Pascal: _le moi est haïssable_; ma gli è certo che di sè
non parla se non il meno possibile: e se lascia intendere sùbito,
molto chiaramente, di volere esser lui, di non essere punto disposto
a lasciarsi stordire dai chiassi e trascinare dalla corrente, leva
anche sùbito altrui il sospetto ch'egli voglia drizzarsi sopra un
piedestallo, atteggiarsi a nume od a mostro.
L'esagerato e permaloso individualismo fu una tra le molte cause di
quello che dissero male del secolo; male pressochè del tutto ignoto,
sott'altro nome e altre sembianze, agli uomini delle età che furono
dopo l'antica e innanzi alla presente, e serbato forse agli avvenire
assai più di quanto altri sperino o dicano. In mezzo alla dilagante
giocondità del secolo scorso, esso si manifestò da prima con le forme
tenui e coi miti caratteri della melanconia, nata dalla sensitività
tormentata e alterata, e a poco a poco crebbe e si esacerbò, riuscendo
da ultimo nei parossismi di Renato, di Manfredo, di Rolla, di
tant'altri. Questo male diventò un tempo mal comune, o, a dir meglio,
comune ostentazione, perchè son sempre pochi quelli che lo possono
provar davvero e grandemente; e anche in Italia s'ebbe il flagello
degl'imberbi fatali, _pallidi, capelluti_, e delle _geroglifiche
donne_, scherniti sulle scene, inchiodati alla gogna dal Giusti.
Il Manzoni non fu ammalato di questo male, sebbene egli fosse, in un
certo senso, un gran pessimista. Quel male non può andar disgiunto
dal pessimismo; ma il pessimismo, o, almeno, un certo pessimismo può
aversi senza quel male, o, almeno, senza talune forme di quel male. Il
Manzoni non conobbe, o non patì a lungo la melanconia; non già perchè
la vita riposata e normale ne l'abbia preservato, ma perchè l'animo suo
non la riceveva. Egli non condusse nè la vita dolorosamente inquieta
dello Chateaubriand, nè la vita dolorosamente quieta del Leopardi; ma
nè i grandi dolori si richiedono a far l'uomo triste quand'egli sia da
natura inclinato alla tristezza, nè la vita del Manzoni fu così scevra
di grandi dolori da torgli occasione e modo di diventar triste. Anzi a
renderlo tale avrebbero potuto bastare e parer troppi, quand'egli fosse
stato di altro temperamento, gl'incomodi della salute, e gl'impedimenti
al lavoro che troppo spesso gliene venivano. Giovinetto, ritraendo sè
stesso, aveva scritto:
m'attristo spesso;
Buono al buon, buono al tristo, a me sol rio;
ma forse scrisse a quel modo per ossequio all'usanza; forse fu stato
d'animo superficiale e passeggero. Certo si è, non solo che egli
non languì mai sotto il peso di quella formidabile noja di cui lo
Chateaubriand era gravato e gravava le spalle de' suoi personaggi come
d'un manto di non so quale regalità decaduta; nè conobbe i laceramenti,
l'amara sazietà, i torbidi spiriti di ribellione dei personaggi del
Byron e del Byron stesso; ma che fu, tutta la vita, se non lieto,
sereno, e di una compostezza d'animo veramente assai più classica
che romantica. Egli fu grande ammiratore del Goethe, di cui doveva
molto piacergli, tra l'altro, la equanimità gagliarda, la tranquillità
luminosa; ma non so davvero come e quanto gustasse il _Werther_.
E pure, dicevo, il Manzoni fu pessimista in un certo senso, e non
deve far meraviglia che fosse. San Francesco di Sales, che fu buon
cristiano, scrisse una volta che la tentazione di attristarsi d'essere
al mondo è una tentazione assai forte. Io non so se questa tentazione
egli sia riuscito a vincerla sempre; ma so che l'ebbero molti altri
buoni e santi cristiani, e debbo pur credere che tutti quelli che non
vedevano l'ora di volare in cielo, o poco o molto dovessero attristarsi
d'essere quaggiù, perchè l'uomo naturalmente s'attrista d'essere in un
luogo quando gli piacerebbe molto d'essere in un altro.
Considerate, di grazia, che una certa forma di pessimismo scaturisce
spontaneamente, e non può non iscaturire, dal proprio centro della
dottrina cristiana, da quell'idea d'un mondo corrotto e maledetto
sin dalle origini, caduto in balìa di malvage potenze, redento sì, ma
redento da tale che dice il suo regno non essere di quel mondo, e solo
fuor di quel mondo, in un lontano avvenire, in una incognita patria,
promette la restaurazione degli umani destini e il finale trionfo del
bene. Quale gloriosa e salutare speranza, ma quanto combattuta, e da
quanti pericoli circondata! Non udite voi il lungo gemito di tutte le
creature sonar cupamente nelle parole di san Paolo? E il grido di tutti
i santi che, come san Paolo, chiedono in grazia la morte per esser con
Cristo? E gl'incalzanti epifonemi di un Pascal, descrivente l'eccesso
delle umane miserie e il terrore dell'infinito? Capisco: non è il
pessimismo buddistico, nè quello dello Schopenhauer o del Leopardi,
poichè mette capo in una grande speranza; ma è o non è, almeno
per quanto concerne il mondo di qua, una maniera di pessimismo, e
sommamente dolorosa, e sommamente terribile? E non è dottrina cristiana
la formidabile dottrina della predestinazione?
Il Manzoni è cristiano, e come cristiano è pessimista in questo senso:
e forse quella indolenza sua, rimproveratagli le tante volte da tanti,
nasce in parte, senza ch'ei se ne avvegga, dal sentimento profondo
della disperata vanità di tutte le cose, di una comune sciagura sempre
rinascente e sempre irreparabile: sentimento che si risolve in questa
invariabile domanda: a che pro? Ma più ancora che alla meditazione
dell'idea cristiana pare a me che il suo pessimismo derivi da quella
sua così vasta e chiara e continuata visione della vicenda storica
nel tempo e nello spazio. Egli sa che non vi può essere se non poca
giustizia nel mondo, perchè glielo dicono le Scritture; ma sopratutto
il sa perchè _vede_ ciò che Renzo non vede, la giustizia offesa e
conculcata in mille modi, continuamente, sfacciatamente, violentemente,
in alto e in basso, nelle cose grandi e nelle cose piccole, per
interesse, per furore, o per semplice gusto. Egli sa che la virtù è
soggetta a mille prove, a mille pericoli, perchè così vuole la legge
del riscatto e della giustificazione; ma sopratutto il sa perchè
_vede_ che scopertamente, o di soppiatto, la virtù è sempre schernita,
insidiata, perseguitata. Egli sa che non vi può essere felicità nel
mondo, perchè il mondo è valle di lacrime, nel bujo della quale splende
solo, come s'esprimono le Sacre Carte ed egli ripete, una speranza
piena d'immortalità; ma sopratutto il sa perchè _vede_ gli angosciosi
rivolgimenti, le formidabili sciagure, le immani rovine della storia,
e le orde umane rovesciarsi le une addosso alle altre, furenti di
cupidigia, sitibonde di sangue, e alla guerra tener dietro le carestie,
e alle carestie tener dietro le pesti, e le tenebre dell'errore e della
paura avviluppare ogni cosa. I _Promessi Sposi_ si chiudono, se non
colle parole, col concetto di questa sentenza: Non isperate d'essere
contenti davvero.
Non so se il Manzoni avesse meditate ed intese le non troppo chiare
disquisizioni di Federico Schlegel intorno all'ironia ed al suo
officio nell'arte: so che quella sua ironia, così sottile e pur così
indulgente, è un modo d'espressione di quel suo pessimismo.

V.
La vivezza del sentimento religioso condiziona nel Manzoni taluni
principii d'estetica romantica che, per nascere e prender forza,
non abbisognavano dell'ajuto di quel sentimento, ma ravvolti, per
così dire, in esso, ne ricevevano nuovo vigore, e raffermavansi con
risolutezza più intollerante e più battagliera e recisione anche
troppa.
Il principio che voleva il vero e il reale nell'arte non poteva,
negli animi che l'accoglievano, scompagnarsi da un senso più o meno
vivo d'avversione per la mitologia pagana, e, se non per l'arte
classica, per la imitazione dell'arte classica. Il Manzoni cominciò
classicheggiante, come tanti altri, e invocò Apollo e le Muse e le
Grazie, e salì con la fantasia gli ardui gioghi di Pindo e di Parnaso,
bevve al pegaseo fonte, e vagheggiò la Gloria, figlia del Tempo e di
Minerva, _sospir di mille amanti_; ma rinnegò ben presto e, sembra,
senza stringimento di cuore, quei _numi d'Atene_, da' quali Carlo
Tedaldi Fores, venuto al punto della conversione, non sapeva staccarsi
senza tristezza e senza lacrime; e mai non conobbe quel sentimento di
dolce rammarico che allo Schiller inspirava il canto degli _Dei della
Grecia_, e al Leopardi quello delle _Favole antiche_, e al De Musset
quei teneri versi dei _Vœux stériles_:
Grèce, ò mère des arts, terre d'idolâtrie,
De mes vœux insensés éternelle patrie,
J'étais né pour ces temps où les fleurs de ton front
Couronnaient dans les mers l'azur de l'Hellespont.
Il Manzoni appunto di quella idolatria si sente offeso, appunto quella,
come cristiano, detesta, e ne vorrebbe spenta sin la memoria. L'_Ira
d'Apollo_, scherzo composto in sul primo accendersi della guerra
fra classici e romantici, ha carattere essenzialmente letterario,
esprime un concetto in tutto conforme al comune; ma più tardi, e non
molto più tardi, l'avversione del Manzoni crebbe a segno da diventare
odio, e pareggiare quello degli antichi cristiani, e vincere lo
stesso aborrimento espresso dallo Chateaubriand con tanto ardore e
tanta impetuosità di parole. In fatti, nella famosa lettera a Cesare
D'Azeglio (22 settembre 1823), egli, dette le ragioni per le quali a
lui, come agli altri romantici, sembra assurdo, nojoso, ridicolo l'uso
della mitologia, soggiunge: «Ma la ragione, per la quale principalmente
io ritengo detestabile l'uso della mitologia, e utile quel sistema
che tende ad escluderla, non la direi certamente a chicchessia, per
non provocare delle risa, che precederebbero e impedirebbero ogni
spiegazione; ma non lascierò di sottoporla a lei, che se la trovasse
insussistente, saprebbe addirizzarmi, senza ridere. Tale ragione per me
è, che l'uso della favola è vera idolatria»[36]. E séguita, recando le
ragioni che lo fan pensare a quel modo.
Per ciò che spetta alla imitazione dei classici, dichiara egli stesso
di nutrir «sentimenti molto più arditi, molto più irriverenti» che
non la più parte dei romantici, e di nutrirli, principalmente, perchè
«la parte morale dei classici è essenzialmente falsa»; perchè negli
scritti loro manca di necessità «quella prima ed ultima ragione, che
è stata una grande sciagura il non aver conosciuta, ma dalla quale è
stoltezza il prescindere scientemente e volontariamente»; perchè egli
non può nè vuole chiamar suoi maestri «quelli che si sono ingannati»,
e ingannerebbero lui pure[37]. Che cosa avrebbe mai detto il Tasso
se avesse potuto udire, il Tasso di cui il Manzoni reca altrove gli
argomenti contro l'uso della mitologia?
Dichiarazioni di questa sorte ci mettono un po' d'inquietudine
addosso. A che dovrebbero poi riuscire? Esse ci fanno ricordare di quel
sant'Andoeno che nel secolo VII chiamava scellerati Omero e Virgilio;
di Leone, abate di san Bonifacio e legato apostolico, scrivente, nel
X, ai re Ugo e Roberto di Francia che i vicarii e i discepoli di san
Pietro non vogliono avere a maestri Platone, Virgilio, Terenzio, e gli
altri del filosofico bestiame, _neque ceteros pecudes philosophorum_;
e non voglio dire ci facciano ricordar di Teofilo, vescovo di
Alessandria, che buttava nel fuoco quanti libri _d'idolatria_ gli
capitavano nelle mani. Tutti i romantici schietti detestarono più o
meno il Rinascimento, e si capisce che non lo potevano amare; ma non
c'è egli ragion di credere che il Manzoni lo detestasse più degli
altri, e troppo più del bisogno? Abbiam trovato già tante volte, in
cose meno importanti, un Manzoni meno romantico dei romantici, che ci
dispiace trovarlo in questa romantico _ultra_, e da mandare a braccetto
nientemeno che con Giuseppe De Maistre; ma che s'ha a fare? diremo di
lui ciò ch'egli ebbe a dire del suo Bortolo: quel Manzoni era fatto
così; se ne volete un altro, fabbricatevelo.
Cioè, no: era e non era fatto così; era insomma di una cotal fattura
intricata e complessa, da non poterci veder chiaro sempre. Questo
nemico dei classici ha del classico qualche volta (ne abbiamo avuto già
qualche indizio), e più di quanto altri possa credere, e dove altri
non immagina. Il Carducci notò con ragione, e negl'_Inni sacri_ e in
altre liriche, movenze classiche del verso e della strofe, e _purissima
delineazion virgiliana_ nelle immagini, e altro ancora[38]; e gli è
un fatto che il Manzoni non dimenticò mai (e forse se ne confessava
come di un peccato) quelli cui egli stesso aveva dato nome di _prischi
sommi_. Da giovane celebrò Omero in versi divenuti immortali; da
vecchio, in prosa, disse di Virgilio cose mirabili. Guardate il Manzoni
sotto certo aspetto, considerate per bene certi caratteri dell'arte
sua, ed egli vi parrà il più classico dei romantici.
Ne volete un'altra prova, un po' leggiera, a dir vero, ma che pure ha
il suo peso? Cercate un po' quale
Corrispondenza d'amorosi sensi
passi tra il Manzoni e la luna. Tale invito pare una celia e non è.
Quando il Carducci fece del sole un simbolo del classicismo, e della
luna un simbolo del romanticismo, accennò poeticamente una relazione
vera, per quanto ideale[39]. Che i romantici, dopo aver rinunziato,
e per sempre, al culto di Artemisia e di Diana, per poco non ne
instaurarono un nuovo, è noto anche troppo. Il sole cominciò a venir
loro in uggia, a parer loro un pochino _volgare_: la luna invece,
specie se velata da un lembo di nuvola discreta, come accortamente
insinuava uno dei loro, molto più amabile, più spirituale e più
_interessante_. Perciò la presero a confidente, inspiratrice e
consolatrice loro, la celebrarono in tutte le lingue e su tutti i toni,
la mescolarono a tutte le umane faccende, la consacrarono regina della
poesia non meno che della notte, e inventarono la _sinfonia della luna_
un bel pezzo prima che lo Zola inventasse la _sinfonia dei formaggi_.
Sinfonia per sinfonia, mi par meglio la loro, benchè meno gustosa.
Quella che un secentista malcreato aveva ardito chiamare _frittata
del cielo_, diventò il _volto pensoso che dall'alto dei cieli scruta
il mistero dell'ombre e degli oceani_. Gli _amica silentia lunae_ di
Virgilio si mutarono in intimi ed arcani colloquii; e già il Meli, ch'è
tutt'altro che un romantico, poneva sulle labbra del suo Dafni questo
saluto:
Li placidi silenzii,
All'umidu to raggiu
Di la natura parranu
L'amabili linguaggiu.
A tia l'amanti teneru
Cu palpiti segreti
La dulurusa storia
Mestissimu ripeti;
e già Ippolito Pindemonte confessava:
Oh quante volte il giorno
Insultai col desio del tuo ritorno!
e soggiungeva:
Perchè sola ti vede,
Sola l'ignaro vulgo in ciel ti crede:
Ma il Riposo, la Calma,
Del meditar Vaghezza,
Ogni Piacer dell'alma,
La gioconda Tristezza,
E la Pietà con dolce stilla all'occhio,
Ti stanno taciturne intorno al cocchio.
Non so se dal giorno in cui il Goethe disse alla luna: _Tu sciogli
da ogni laccio l'anima mia!_ sino a quello in cui il Longfellow la
rassomigliò a uno _spirito glorificato_, ci sia stato poeta, o poco
o molto romantico, o grande o piccino, che per la luna non abbia
spasimato, o finto di spasimare. E tante ne dissero tutti costoro, e
così stucchevolmente si ripeterono, che non è da stupire se da ultimo
venne chi per beffa la paragonò a un punto sopra una i, e chi le diede
della celeste paolotta.
Parecchie saranno state, cred'io, le ragioni di quel romantico
invasamento; ma, forse, la più generale fu questa. Nella psiche
romantica domina il sentimento, e il sentimento è, di sua natura,
come già da gran tempo notarono gli psicologi, vago, fluttuante,
indefinito, specie poi se si dissolve in sentimentalità. Nella psiche
romantica domina ancora la fantasia, che similmente è vaga, fluttuante,
indefinita. Sotto il pallido raggio lunare gli aspetti delle cose si
scolorano, si stemperano, si smarriscono, e si prestano meglio alle
interpretazioni del sentimento e alle trasformazioni della fantasia.
Sia come si voglia, fatto sta che il Manzoni non amoreggia con la
luna nè punto nè poco. Abbiamo qua e là, nel romanzo, un villaggio
rischiarato dalla luna, un lago terso e tranquillo in cui la luna
si specchia, un bosco attraversato dai raggi della luna; ma sono
tocchi rapidi e sobrii anche troppo, e che non importano sentimento,
nè espresso, nè sottinteso. Non sono questi, davvero, i chiari di
luna dello Chateaubriand o di Vittore Hugo. Quella rapidità, quella
sobrietà, potrebbe essere indizio di amore tepido; ma il guajo è che
vi sono indizii d'irriverenza. La faccia badiale di don Abbondio, nella
quale spiccano, al lume d'una lucerna, due folti baffi, un folto pizzo,
tutti canuti, il Manzoni la rassomiglia a un dirupo sparso di cespugli
coperti di neve e illuminati dalla luna. All'osteria, dove il povero
Renzo piglia quella memorabile bertuccia, il Manzoni dà per insegna
la _Luna piena_. Il Pindemonte le avrebbe dato per insegna il _Sole
raggiante_.

VI.
Ora gli è tempo di dire più in particolare qualche cosa dell'arte del
Manzoni.
Il fondamento di essa arte è il vero, e segnatamente il vero morale.
«Allora le belle lettere saranno trattate a proposito quando le si
riguarderanno come un ramo delle scienze morali», scriss'egli in certe
sue _Note estetiche_[40]. Il vero morale primeggia; ma egli vuole pure
ogni altra maniera di vero, e non si tiene punto sicuro che ve ne sia
qualcuna cui l'arte non possa o non debba accostarsi. Nella lettera
sulle unità drammatiche leggiamo: «On peut bien, sans péril, condamner
_a priori_ tout sujet qui n'aurait pas la vérité pour base, mais il
me semble trop hardi de décider, pour tous les cas possibles, que tel
ou tel genre de vérité est à jamais interdit à l'imitation poétique;
car il y a dans la vérité un intérêt qui peut nous attacher à la
considérer malgré une douleur véritable, malgré une certaine horreur
voisine du dégoût»[41]. Il Manzoni sembra aver fatta sua la massima
del Boileau: _rien n'est beau que le vrai_; ma allargandola tanto da
farci capire anche il brutto, di cui legittima l'acconcia e sensata
rappresentazione.
Ma chi dicesse che il vero, oltre ad essere il fondamento dell'arte
manzoniana, ne è anche la norma suprema ed unica, rischierebbe molto,
parmi, di dire il falso. Esaminiamo un po' la famosa formola: _l'utile
per iscopo, il vero per soggetto e l'interessante per mezzo_, che
il Manzoni introdusse nella lettera al D'Azeglio, e che molti anni
dopo cancellò, senza dircene le ragioni, e senza nemmeno darci modo
d'indovinarle. In questa formola abbiamo tre termini, e finchè v'è
accordo fra essi, tutto va bene; ma se l'accordo manca, non si sa più
come la vada. Mettiamo da banda l'_interessante_, che, come è l'ultimo
dei tre termini, così ancora è il meno importante, e badiamo agli altri
due. Sarebbe molto desiderabile che l'utile e il vero andassero, in
questo povero mondo, sempre d'accordo; ma è altrettanto notorio che non
sempre vanno. Che cosa succederà dunque quando l'utile vorrà a un modo
e il vero dirà a un altro? A quale dei due bisognerà darla vinta? Un
realista sincero e zelante risponderà senza esitare: il vero è sempre
utile, anche se non paja; ma il Manzoni che in parecchie altre cose
è, come vedremo, più realista di molti realisti, in questa non può
essere, e non concederà mai e poi mai che certe turpitudini si possano
dire o descrivere per la sola ragione che le son vere. Diremo dunque
che il supremo principio dell'arte manzoniana sia l'utile, inteso,
non occorre avvertirlo, com'egli lo poteva e doveva intendere? Nemmeno
questo, se ci pensiamo bene, potremo dire. V'è qui, parmi, un nodo un
po' difficile da sciogliere, e forse fu questa difficoltà la ragione
che persuase il Manzoni, divenuto sempre meno affermativo, e sempre più
circospetto, a cancellar le parole che lo formavano. Quanto a noi, per
trarci d'impaccio, potremo forse dire che il Manzoni intese il vero
a un dipresso come lo intese Alfredo de Vigny nelle sue _Réflexions
sur la vérité dans l'art_, e che formatasi nella mente una specie di
gerarchia di veri, prescrisse che quelli di sotto avessero sempre a
cedere a quelli di sopra.
Senza andare a cercar altro, riconosciamo che fondamento dell'arte
manzoniana è il vero, e che questo medesimo vero,
L'arido vero che de' vati è tomba,
è pure fondamento dell'arte romantica in genere. Cioè, diciamo
meglio: avrebbe dovuto essere; perchè i primi e i secondi romantici
lo gridarono a' quattro venti; ma poi e quelli e questi, veduto come
a voler fondare sul vero bisogni star sodo, e durar fatica molta,
ebbero per più comodo e più spediente di fabbricare sul falso, e di
quell'_interessante_, che avrebbe dovuto essere soltanto il mezzo,
fecero, senz'altro, bravamente il fine. Il Manzoni stesso, nella
lettera al D'Azeglio, accenna a questo che si contenta di chiamare
errore; ma non insiste, e non s'indugia a chiarire la contrarietà di
opinioni che anche per questo rispetto doveva essere fra lui e alcuni
suoi _compagni di patimenti letterarii_, e più particolarmente forse
fra lui e il Berchet[42].
Chi dell'utile fa lo scopo e del vero la materia dell'arte, va da sè
che ricuserà e condannerà il concetto espresso con la famosa formola:
_l'arte per l'arte_; concetto che da Platone agli estetici di jeri e di
oggi ebbe tanti amici quanti nemici, e tanti, senza dubbio, seguiterà
ad averne in appresso. A quella formola il Goethe s'accostò da vecchio;
ma il Foscolo la negò implicitamente ed esplicitamente. Per bocca
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