Foscolo, Manzoni, Leopardi: saggi - 05

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del Lenau la Poesia risponde fiere parole a chi la invita a uscir di
solitudine, a rinunciare al sogno, a por sè stessa al servigio di una
causa; e si dice ben risoluta a fare il piacer proprio. L'Hugo, dopo
aver detto che nel giardino della poesia non v'è frutto vietato, si
ravvide, e disse che il poeta è un _servitore del vero_ e dev'essere
utile, e scrisse:
Honte au penseur qui se mutile;
Et s'en va, chanteur inutile,
Par la porte de la cité!
Ma lo stesso suo portabandiera, il Gautier, non era più di questa
opinione quando esclamava: «La muse est jalouse; elle a la fierté d'une
déesse et ne reconnaît que son autonomie». A che moltiplicare nomi ed
esempii? Il Manzoni considerò sempre l'arte come dipendente da qualche
cosa che è superiore all'arte.
E sta bene; ma a essere considerata in tal modo l'arte corre pure
qualche pericolo. Può avvenire che l'artista, guardando un po' troppo
fisso in quella cosa superiore, si disgusti del reale e del vero, se
ne diparta, ne perda il senso, e insieme con l'arte sua si smarrisca
dietro idealità esagerate, che, per poco che si lascino in balìa di
sè stesse, diventano vacue e puerili. Che molti romantici finiron con
perdere affatto il senso del reale e del vero, e annegaron nel sogno,
è cosa tanto universalmente nota che basta un cenno a ricordarla.
Il realismo fu appunto una reazione a quel male; ma di quel male il
Manzoni rimase immune; e poichè il realismo non tardò poi molto a
traviare ancor esso, a cadere in un romanzesco diverso dal precedente,
ma non migliore di quello, a promuovere una specie d'idealismo a
rovescio, si può davvero dire che il Manzoni fu più realista di molti
realisti. E ciò non deve sembrare punto strano, se si pensa che i
principii fondamentali del romanticismo non ripugnano ai principii
veramente fondamentali del realismo, e che il Manzoni osserva molto
fedelmente quelli, e molto rigorosamente gli applica. Egli scrive:
«je crois ne dire qu'une vérité très simple, en avançant que la poésie
ne doit pas inventer des faits». E ancora: «cette nécessité de créer,
imposée arbitrairement à l'art, l'écarte de la vérité et le détériore à
la fois dans ses résultats et dans ses moyens»[43]. Si può contraddire
in modo più chiaro e più risoluto ad Aristotele e a Platone? E che
cosa potrebbe dir di meglio, o di peggio, un realista di professione?
E quando dice che l'inventar fatti è «ce qu'il y a de plus facile et
de plus vulgaire dans le travail de l'esprit, ce qui exige le moins
de réflexion, et même le moins d'imagination»[44], non anticipa il
Manzoni concetti e giudizii espressi poi con molta più burbanza,
con molta più saccenteria, dai maestri e dai curatori del realismo
contemporaneo?[45]. Checchè altri possa credere o dire, il Manzoni ha
pochi pari nel senso del reale, e giustamente il De Sanctis ne fece
la osservazione. I _Promessi Sposi_ sono, tutto sommato, un romanzo
realistico nel miglior senso della parola, e più di certi romanzi
del Balzac, il quale tutti sanno come troppe volte siasi tuffato nel
romanzesco, e in un romanzesco di pessima lega. Sul finire del maggio
1822, il Manzoni scriveva, parlando del suo libro al Fauriel: «Quant
à la marche des événements, et à l'intrigue, je crois que le meilleur
moyen de ne pas faire comme les autres, est de s'attacher à considérer
dans la réalité la manière d'agir des hommes, et de la considérer
surtout dans ce qu'elle a d'opposé à l'esprit romanesque»[46]. Non so
davvero quanto quel modo di non far come gli altri potesse piacere ai
romantici.
Il Manzoni detesta il romanzesco, detesta cioè una cosa di cui i
romantici erano divenuti molto teneri. Sino dal 1804, il Senancour,
che fu uno dei primi romantici francesi, avvertiva, in un luogo del suo
_Obermann_, che _romantico_ e _romanzesco_, non solo non vogliono dire
lo stesso, ma anzi vogliono dire il contrario; e aveva ragione, o, per
lo meno, avrebbe dovuto aver ragione. Se non che i romantici fecero poi
quanto bisognava, e più di quanto bisognava, per giustificare il detto
del Pagani Cesa, il quale sentenziò che romantico e romanzesco sono
in sostanza tutt'uno[47]. I romantici furono, generalmente parlando,
grandi ammiratori del Tasso, e cooperarono la parte loro a raffermare
ed esagerare la leggenda di lui: il Manzoni, per contro, ne faceva
poca stima, e si meravigliava che il Goethe avesse potuto sceglierlo
a protagonista di un dramma. Le ragioni di quella grande ammirazione e
di quel quasi disprezzo furono senza dubbio parecchie; ma il carattere
romanzesco e del poema e del poeta ebbe ad essere, credo, una delle
principali.
Il Manzoni ha vivo ed acuto il senso del reale perchè ha sana la mente,
e non soggiace a quelle perturbazioni affettive che non lasciano
vedere nè uomini nè cose quali son veramente. La consueta sua calma
gli permette di considerare attentamente gli uni e le altre quanto
è necessario per vederli sotto ogni aspetto e conoscerli bene: la
consueta sua rettitudine lo pone in grado di giudicarli con equità; e
il gusto che gli procurano la chiara visione e la sicura conoscenza
della realtà non lascia ch'egli s'invaghisca di chimere e di sogni.
Senza quella calma, senza quella rettitudine, senza quel gusto, non vi
può essere vero realismo.
Nei _Promessi Sposi_ è realistica quella che chiameremo la favola;
sono realistici i personaggi, o perchè presi in quella mezzanità che
per essere più comune sembra anche essere più reale, o perchè, se pure
escono da quella mezzanità, nulla mostrano di più o di meno che umano;
sono realistiche, e meravigliosamente realistiche, le narrazioni e
le descrizioni della carestia, della sommossa, del passaggio delle
soldatesche, della pestilenza, della casa di don Abbondio, della casa e
della vigna di Renzo, e tante e tant'altre. Di un po' romanzesco, nel
vero senso della parola, parmi nei _Promessi Sposi_ non ci sia altro,
o quasi altro, che la misteriosa e criminosa tresca della monaca e di
Egidio.
Se poi si viene a discorrere di quello che dicesi _ambiente_, ed è uno
degli elementi della realtà sulla importanza del quale ha più battuto
la scuola realistica, non fa quasi bisogno di ricordare quanto nei
_Promessi Sposi_ ne sia accurato lo studio e fedele la riproduzione,
almeno per quanto spetta all'ambiente morale e sociale. Che vuol dire
tener conto dell'ambiente? Non altro, se non riconoscere e porre in
rilievo la connessione che i fatti particolari hanno coi generali,
i fuggevoli coi duraturi o costanti, la dipendenza dei primi dai
secondi, la ragione e il modo di prodursi di quelli. Ora, io non
so se in nessuno dei romanzi realistici più decantati si vegga con
tanta consequenza e tanta costanza quanta nei _Promessi Sposi_ il
fatto particolare provocato, condizionato, generato in certo modo
dal fatto generale; la storia di pochi uomini offerta come un caso
della storia di tutto un popolo. «Les mémoires qui nous restent de
cette époque présentent, et font supposer une situation de la société
fort extraordinaire. Le gouvernement le plus arbitraire, combiné avec
l'anarchie féodale et l'anarchie populaire; une législation étonnante
par ce qu'elle présente et par ce qu'elle fait deviner, ou qu'elle
raconte; une ignorance profonde, féroce et prétentieuse; des classes
ayant des intérêts et des maximes opposées; quelques anecdotes peu
connues, mais consignées dans des récits très dignes de foi, et qui
montrent un grand développement de tout cela; enfin une peste, qui a
donné de l'exercice à la scélératesse la plus consommée et la plus
déhontée, aux préjugés les plus absurdes, et aux vertus les plus
touchantes, etc. etc... voilà de quoi remplir un canevas; ou plutôt
voilà des matériaux qui ne feront peut-être pas déceler la malhabileté
de celui qui va les mettre en œuvre... A cet effet, je fais ce que je
puis pour me pénétrer de l'esprit du temps que j'ai à décrire, pour y
vivre; il était si original que ce sera bien ma faute, si cette qualité
ne se communique pas à la description». Così scriveva il Manzoni al
Fauriel nella importantissima lettera testè citata; ma quando pure non
ci fosse stata questa dichiarazione dell'autore, e il Cantù non avesse
scritto quel suo noto commento storico al romanzo, ogni colto lettore
potrebbe riconoscere agevolmente da sè nel romanzo stesso, non solo lo
studio perseverante, coscienzioso, minuto di una età che non è certo
tra le più conosciute, ma ancora la evocazione meravigliosa e potente;
e non so davvero se altro ve n'abbia in cui la storia riviva con pari
illusione di realtà e di presenza, e in cui, a dispetto pure di qualche
sproporzione od eccesso, realtà e finzione sieno più intimamente, più
organicamente fuse. Parve anzi a taluno che di storia ce ne sia persin
troppa, non solamente in quelle parti del racconto, ov'essa appare,
dirò così, in forma propria ed esplicita, come nelle descrizioni,
dal Goethe giudicate troppo lunghe, della sommossa e della peste; ma
in quelle ancora ov'essa è implicita, e fittamente intessuta con la
propria azione del romanzo; e che questa propria azione del romanzo sia
governata un po' troppo insistentemente da quella che chiameremo azione
generale della storia. Ma, di grazia, può essere questo veramente
un difetto? e se difetto, può essere difetto da rimproverare a un
romanzo storico? e a un romanzo storico di carattere così spiccatamente
realistico?
Intendo come a più d'uno la qualificazione di realista data al Manzoni
possa sembrare inopportuna, data con un po' d'arbitrio, e quasi per un
impegno. Come? diranno: realista il Manzoni, che ogni po' si caccia
tra' suoi personaggi e interrompe il racconto con le osservazioni e
con l'ironia? realista il Manzoni, inventore di Lucia e di Federigo
Borromeo? Eh sì, realista: non mica, intendiamoci, nel pieno, o
comune significato della parola, ma pure realista, e in molte cose più
realista di molti realisti. Del resto, vediamo un po'. Questo dovere
imposto allo scrittore di non frammischiarsi ai proprii personaggi,
di non lasciarsi scorgere nell'opera propria, da quale principio
d'arte supremo, perpetuo, incontrovertibile, si fa scaturire? L'avete
proprio questa opinione che l'opera d'arte possa essere, o almeno
parere, un'opera della natura, fatta non si sa come, non si sa da chi,
anzi nata e non fatta, e contraddistinta, tutto il più, da un nome
vano senza soggetto? E quando l'autore di un libro, il voglia egli o
nol voglia, sel creda o non sel creda, si svela e si dà a conoscere
in tante altre maniere: e quando in ogni carattere che dipinge, in
ogni avvenimento che narra, in ogni frase che scrive, vi grida, come
Emilio Zola vi grida: io son io, in carne e in ispirito, con queste
facoltà, con queste tendenze, con questo concetto della vita e questo
sentimento delle cose; e si mescola in mille modi con quella realtà
ch'egli pretende rappresentarvi nell'inafferrabile vero e proprio
suo essere, e in mille modi la altera (_il mondo veduto attraverso a
un temperamento_), non v'accorgete voi che ha del pedantesco, che ha
dell'ingenuo, che ha del puerile il dirgli: tu non t'hai da far vedere
qui dentro; tu non userai mai in prima persona il pronome ed il verbo?
Voi affermate che quando l'autore si lascia vedere a quel modo e parla
a quel modo, nasce spontaneamente in chi legge il sospetto ch'egli non
sia in tutto sereno ed imparziale, ma acconci, muti, travisi variamente
il vero per amore a un qualche suo preconcetto, per indulgenza a una
qualche sua passione, o per altra ragion così fatta. E sta bene: ma
se l'autore non si fa vedere, sarà poi tolto a quel sospetto ogni modo
di nascere? e non ci sono cento altre maniere di sincerarsi quando il
sospetto sia nato? Il parlare in prima persona non trae mica con sè
la necessità di mentire; e il parlare in terza non è mica guarentigia
di verità. Non vi accorgete anzi che per isballarle grosse, senza che
altri vi possa dare sulla voce, il modo più sicuro, il più comodo è
appunto quella ostentazione di oggettività assoluta ed invariabile? Del
resto, come un romanzo non diventa realistico per ciò solo che l'autore
si tien nascosto dietro a' suoi personaggi, così un romanzo non cessa
di essere realistico per ciò solo che l'autore si lascia a quando a
quando vedere tra essi. Provatevi a leggere un romanzo del Balzac, e
vedete se vi riesce di scorrerne dieci pagine senza dar di petto nel
Balzac. E si tratta di un pontefice massimo del realismo!
Che il Manzoni non s'indugia molto a ritrarre gli aspetti delle cose
esteriori; che parlando di quei paesi del lago non si cura di attenersi
strettamente e minutamente al vero; che non approfitta della sommossa,
e della peste per descriverci dieci volte Milano, di giorno, di notte,
e quando fa sole e quando piove; che non ispende molte parole per
informarci del caldo e del freddo, del secco e dell'umido, della calma
e del vento, tutto ciò è verissimo; ma resta a sapersi se sia questo
un difetto, e quanto abbia guadagnato la letteratura realistica dalla
bella qualità opposta a questo difetto. Può darsi che il Manzoni si
mostri in tutto ciò un po' troppo scarso, un po' troppo restio, e
dico _può darsi_ perchè non ne sono propriamente sicuro; ma gli è per
altro certo ch'egli fa benissimo, e opera da realista sensato, a non
lasciarsi sopraffare e soffocare dalle cose, come la più parte dei
romanzieri russi, e parecchi non russi, e che da questo suo modo di
operare viene al romanzo e ai lettori di esso vantaggio non piccolo.
Il Manzoni inventò Lucia e Federigo Borromeo; anzi inventò quella
e non inventò questo; perchè se il Federigo da lui ritratto non è
tutto il Federigo storico, è parte rilevante e vera di quello. Chi
ha qualche pratica con la storia dei santi vede che Federigo è un
santo, come, grazie al cielo, ce ne furon degli altri, e parecchi,
se non moltissimi. Chi è incapace di virtù nega la santità, come chi
è incapace di coraggio nega l'eroismo. Lucia è un po' raggentilita,
un poco stinta, se così posso esprimermi, ma molto più vera che non
si creda, e, ad ogni modo, tirata in su non più di quanto infiniti
personaggi di romanzi realistici sieno tirati in giù. Oltre di che
è da dire che il Manzoni, nel formare i caratteri, riesce alquanto
più realista (nientemeno!) del Balzac, il quale, di solito, forma i
personaggi suoi tutti di un pezzo, e rimettendo in opera il vieto
procedimento classico, segno di tante censure, li accende di una
passione unica, che è il principio unico e la ragione unica di tutto
quanto essi dicono e fanno; mentre il Manzoni forma complicatamente i
suoi, e li mostra, il più delle volte, quali sogliono essere in natura,
composti di elementi discordi, combattuti da contrarie tendenze. Fra
Cristoforo e l'Innominato manifestano questa lor condizione nel fatto
stesso della conversione, così com'è motivata, predisposta, condotta.
Federigo è un santo che ha molte parti, molti aspetti, e che il povero
don Abbondio non riuscirà mai nè a indovinare, nè a intendere. L'Agnese
è di certa natura tutt'altro che semplice. Renzo avrebbe molte buone
ragioni per essere preso tutto di una passione unica e fisso in un
solo pensiero, e per non volere pensare ad altro; e pure, sebbene
l'amore, anzi l'amore contrastato, sia sempre (e dev'essere) presente
in tutto ciò ch'egli pensa, dice ed opera; sebbene si vegga ch'esso è
come la molla secreta che lo fa muovere, e lo spinge, senza ch'egli
possa darsene conto, a farsi predicatore di riforme e seguitator di
sommosse; pure, dico, egli conserva, da povero contadino, la facoltà di
prendere parte a una quantità di cose che non sono il suo amore, e non
hanno troppa attinenza col suo amore. Don Abbondio pare che sia nato al
mondo per aver paura, e non conosce altra consigliera che la paura, e
c'è da stupire che la paura non l'abbia ammazzato in qualche incontro,
un bel pezzo prima dell'incontro coi bravi. La paura si può dire che
sia la sua coscienza. Ciò nondimeno se voi riuscite a togliergli un
tratto quella paura di dosso, anzi di dentro, come, per una volta
tanto, ci riescono gli avvenimenti, voi vedete fiorir d'improvviso un
don Abbondio non più veduto, ma non impreveduto, e che, sebbene tanto
diverso dal solito, non contraddice a quello, anzi è un nuovo aspetto
di quello. Ora aggiungete a tutto ciò che i personaggi dei _Promessi
Sposi_ mostrano d'avere fra loro quel collegamento, e gli uni sugli
altri quel reciproco influsso, che lasciano pur vedere i personaggi del
Balzac, nei migliori suoi romanzi.
Con questo non voglio già dire che l'arte del Manzoni non discordi
assai volte da quella dei realisti ordinarii, ma credo che dovrebbe
rincrescere se non discordasse. I realisti ordinarii, quelli
sopratutto dell'ultima maniera, si sa che hanno soppressa nell'opere
loro la composizione, sotto pretesto che la natura non ce la dà. Ci
sono dell'altre cose parecchie che la natura non ci dà, e che noi,
appunto per questo, andiam procacciando con istudio, con fatica, con
pericolo. Veramente la natura s'è sempre ostinata a non volerci dare
nè fabbriche, nè statue, nè quadri, nè spartiti, nè romanzi. A taluno
potrebbe forse venire il sospetto che a decretare quella soppressione
i realisti sieno stati ajutati, non diremo spinti, da quel naturale
desiderio ch'è il desiderio di scampar fatica; ma poichè tale sospetto
potrebb'essere temerario ed ingiusto, basterà notare che in nessuno
degl'intenti loro, qual che si fosse la ragione che li moveva, i
realisti riuscirono così bene come riuscirono in questo. Molti dei
loro romanzi pajono un effetto del caso, e si potrebbero applicar ad
essi le parole con cui certo personaggio di una commedia francese senza
scioglimento accomiatava gli spettatori: _il n'y a pas de raison pour
que cela finisse_....; e ci si potrebbero aggiungere queste altre: _il
n'y avait pas de raison pour que cela commençât_. Non così il romanzo
del Manzoni. La composizione di esso potrà esser guasta in certe parti
da digressioni un po' troppo lunghe; l'equilibrio ne potrà rimanere
turbato; ma, tirate le somme, bisogna pur riconoscere che il romanzo,
com'è fortemente immaginato, così è anche fortemente composto; che esso
è dotato, a dispetto delle digressioni, di coerenza e di compattezza
mirabili; che è un'opera, non del caso, ma dell'arte, nel più alto e
schietto significato della parola. Parve a taluno che nei _Promessi
Sposi_ non ci sia altra unità che la unità morale: io credo ci sia
pure la unità logica, e anche (ma qui bisognerebbe discutere) la unità
estetica.
Per questi, e per alcuni altri rispetti, il Manzoni è romantico e non
realista. Di fronte alla realtà, il romanticismo fu più attivo che non
il realismo. Esso concedeva all'arte molto che il realismo le nega:
esso voleva la composizione, la concentrazione, la scelta, e quella
che il Taine chiamò convergenza delle impressioni. Mi sembra che molti
comincino ora ad avvedersi che il realismo fece male a disvoler tutto
questo.

VII.
Non abbiamo ancora finito di discorrere degli effetti che vengono
all'arte manzoniana dall'avere il Manzoni tolto a fondamento di quella
il vero.
Va da sè ch'essa aborrirà quasi istintivamente tutte quelle forme del
fantastico, del lugubre, del mostruoso, del terribile, che gl'Inglesi
designarono con la denominazione espressiva di _german horrors_, e che
non sono poi cosa talmente germanica che non si trovi anche, in qualche
misura, fuor di Germania, o natavi spontaneamente, o trattavi dalla
curiosità o dalla moda[48]. In Italia se n'ebbe un andazzo, a dispetto
del clima, delle consuetudini, degli umori; venutovi primamente (se
non vogliamo tener conto di alcune più remote e più comuni origini
medievali e cristiane) coi poemi di Ossian, con le _Notti_ del Young,
con la poesia sepolcrale. Nei _Sepolcri_ del Foscolo se ne vede qualche
traccia, e anche nelle _Ultime lettere di Jacopo Ortis_; e sino dal
1805, Luigi Cerretti, vecchio ormai, si scagliava contro il depravato
gusto di coloro che esultavano «in dipingere gli abbracciamenti
del delitto colla morte, e il fragor con cui piombano nel baratro
tenebroso»[49]. Non so se queste parole alludano, come parrebbero,
a una qualche traduzione o imitazione, che già corresse l'Italia,
della famosa _Leonora_ del Bürger; ma so che il Cerretti avrebbe
potuto ripeterle, e allungarle, e inasprirle qualche anno più tardi,
quando saltò su il Berchet, nella _Lettera semiseria di Grisostomo_,
a proporre alla imitazione degl'Italiani appunto quella _Leonora_ e,
di giunta, il _Cacciator feroce_ dello stesso poeta. A dir vero, lo
stesso Berchet, in quella che faceva la proposta, esprimeva pure il
dubbio che le due poesie, fondate, come sono, sul meraviglioso e sul
terribile, non avessero a incontrare gran fatto il gusto degl'Italiani;
e già il Londonio aveva sentenziato disdegnosamente che le _romantiche
melanconie_ del settentrione non potevano allignare in Italia, e ne
dava grazie al cielo, alla ridente natura, all'indole del popolo[50].
Ma che non possono, anche contro il cielo e la natura e l'indole, la
sazietà del consueto, il desiderio del nuovo, la voga? I germanici,
e, per amor di giustizia, soggiungeremo, gli anglici orrori trovarono
favore anche in Italia, e persino quelli di cui Anna Radcliffe
rimpolpettava romanzi vi ebbero cure di traduttori e plauso di lettori
e più di lettrici. Onde il povero Monti, già presentendo la fine di
ogni cosa, piangeva le Grazie fugate dai lemuri e dalle streghe, e
le ombre d'Ettore e di Patroclo soppiantate dai romantici spettri, e
che il solo tetro si chiamasse bello: e alzando il dito verso quella
malaugurata e scelerata Leonora, gridava:
Di fe' quindi più degna
Cosa vi torna il comparir d'orrendo
Spettro sul dorso di corsier morello
Venuto a via portar nel pianto eterno
Disperata d'amor cieca donzella,
Che, abbracciar si credendo il suo diletto,
Stringe uno scheletro spaventoso, armato
D'un oriuolo a polve e d'una ronca:
Mentre a raggio di luna oscene larve
Danzano a tondo, e orribilmente urlando
Gridano: _pazïenza, pazïenza_[51].
Scrivendo al D'Azeglio nel 1823, il Manzoni diceva che per romanticismo
in Italia s'intendeva comunemente «un non so qual guazzabuglio di
streghe, di spettri, un disordine sistematico, una ricerca dello
stravagante, una abiura in termini del senso comune»; e soggiungeva:
«un romanticismo insomma, che si è avuto molta ragione di rifiutare, e
di dimenticare, se è stato proposto da alcuno; il che io non so»[52].
Quell'_io non so_ è di troppo, e per caso noi cogliamo il nostro Don
Alessandro in una delle sue non rarissime bugiole o dissimulazioni
innocenti. Don Alessandro sapeva benissimo che, in una certa misura,
quel romanticismo era stato proposto, e che, in misura alquanto
maggiore, era anche stato attuato; ma sapeva pure, e voleva si sapesse,
che da lui quel romanticismo non doveva aspettarsi nè ajuto, nè
incoraggiamento, nè indulgenza[53]. Avviso ai _compagni di patimenti
letterarii_ e a quanti altri potessero averci interesse. Quelle
particolari mostruosità poi che furono le _mostruosità della scuola
satanica_, il Manzoni detestò da quanto il Niccolini, che le detestò
con tutta l'anima.
Badate che nelle parole riferite pur ora il Manzoni accenna anche al
_disordine sistematico_ e alla _ricerca dello stravagante_, due cose
ancor esse molto contrarie alla conoscenza e alla rappresentazione
del vero; l'una, perchè mette tutto sossopra, l'altra, perchè tutto
travisa. Nella Lettera sulle unità drammatiche il Manzoni scrisse: «Il
est hors de doute que la sagesse vaut mieux que l'extravagance; et même
que celle-ci ne vaut rien du tout»[54]. Avrebbe potuto dir meglio il
Boileau? E non vi pare anzi che tra il Boileau ed il Manzoni ci sia
alle volte sin troppo accordo? Non so perchè mi ricorra nella mente la
sentenza di Edgardo Poe: non esservi bellezza senza stranezza.
Per essere giusti bisogna dire che quei due malanni, se c'erano (e
c'erano) anche in Italia, non però vi mostravano quel carattere maligno
che altrove, nè come altrove ci si eran diffusi. Le stravaganze
del romanticismo tedesco, derise dal Goethe, l'Italia, o non le
conobbe, o se ne liberò molto presto. Ciò che nel 1829 il Thiers
diceva del romanticismo francese: «Ses goûts fantasques et puérils
font le ridicule de notre temps», non si sarebbe potuto dire del
romanticismo italiano, forzato a stare in cervello e a rigar dritto
(e fu ventura nella disgrazia) dai molti guai a cui bisognava pensare
e, possibilmente, rimediare. L'aver dovuto in Italia far arme delle
lettere nocque in più modi all'arte, ma all'arte stessa anche in più
modi giovò, poichè non le lasciò nè agio nè possibilità di buttarsi
al singolare e all'inaudito, e di ammattire dietro all'esempio del
romanticismo francese, del quale ebbe a dire il Gautier, narratore
e giudice benevolo: «Développer librement tous les caprices de la
pensée, dussent-ils choquer le goût, les convenances et les règles;
haïr et repousser autant que possible ce qu'Horace appelait le profane
vulgaire, et ce que les rapins moustachus et chevelus nomment épiciers,
philistins ou bourgeois; célébrer l'amour avec une ardeur à brûler le
papier, le poser comme seul but et seul moyen de bonheur; sanctifier et
déifier l'Art regardé comme second créateur: telles sont les données
du programme que chacun essaye de réaliser selon ses forces, l'idéal
et les postulations secrètes de la jeunesse romantique»[55]. Cogliamo
anche questa occasione di notare che il romanticismo italiano, se
fu molto meno rigoglioso, fu anche molto più savio del forestiero;
che perciò in Italia la reazione realistica non irruppe con l'odio,
col furore, con la violenza onde fu accompagnata altrove; e che il
Manzoni poteva dissentire dal romanticismo italiano assai meno di
quello dovesse dissentire dal romanticismo forestiero, pur dissentendo
parecchio anche da quello.
Chi ama da senno il vero, aborre da tutto quanto possa, in uno o in
un altro modo, o poco o molto, alterarne la schiettezza, falsarne la
espressione. L'arte che voglia proprio esser vera dev'esser sincera
e dev'esser semplice; deve cioè ricusare tutti quegli artifizii e
lenocinii del linguaggio, dello stile, della trattazione, che se
anche non alterano, dirò così, sostanzialmente il vero, lo alterano
formalmente; se non nel principio suo, nei suoi effetti. _Veritatis
simplex est oratio_, lasciò scritto Seneca. Essa diffida in sommo
grado di quelli che diconsi ornamenti, e fra' suoi precetti, anzi
fra' principali, scrive anche questo: _il puro necessario: tutto
ciò che non è necessario è nocivo. Quod ultra est, a malo est._ Ecco
perchè il Manzoni è così schietto e così semplice e così naturale,
pur riuscendo così fine e così efficace. Il Manzoni non abusa mai
del pittoresco, tanto abusato da' romantici d'ogni risma; anzi nel
colore, come nel disegno, è tanto sobrio da potere, alle volte, parer
troppo. Il Manzoni, l'abbiam già notato, gusta poco la prosa poetica.
Il Manzoni gusta anche poco la lingua poetica, che non è da confondere
col linguaggio poetico, e il Sainte-Beuve gliene fa rimprovero; ma qui
è da notare ch'egli l'avversò meno di quanto si creda, come provano
certe sue lettere al Borghi. In una, scritta nel giugno del 1828,
egli osserva che _orde_ è forse _voce troppo nuova per la poesia_; in
un'altra, del febbrajo dell'anno seguente, che _trionfata_ è triviale;
in una terza, dell'aprile dell'anno medesimo, che _banchettare_ non fa
_buon suono_.
Ma checchè il Manzoni pensasse della prosa poetica e della lingua
poetica, gli è certo ch'egli preferiva la prosa alla poesia, e che la
ragione principale del suo preferir quella a questa era, a un dipresso,
la seguente: la prosa è, in tesi generale, il linguaggio del vero; la
poesia è, in tesi generale, il linguaggio della finzione. I romantici,
per contro, mostrano sempre una spiccata tendenza a mettere la poesia
sopra la prosa.
Questo punto è degno di attenzione particolare.

VIII.
Qualcuno che non conoscesse nè le tragedie, nè gli inni, nè le poesie
giovanili del Manzoni, potrebbe dire: il Manzoni preferiva la prosa
alla poesia perchè non si sentiva, e non era poeta: chi si sente ed è
veramente poeta, preferisce la poesia alla prosa. Chi conosca quelle
composizioni, o ne conosca almeno una parte, non dirà più così di
sicuro.
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