Foscolo, Manzoni, Leopardi: saggi - 02

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meno che ad altri di esemplare in sè pienamente l'antico. Ora io credo
che il Foscolo ebbe parecchio del romantico, non solo negli anni suoi
giovanili, ma anche dopo, e per tutto il tempo della non lunga sua
vita; e credo che certi atteggiamenti romantici fossero congeniti in
lui, e, più dei classici, connaturali all'indole sua. E anche questo è
argomento che si collega con le _Ultime lettere_.
Per ciò che spetta agli anni giovanili non vi può essere incertezza.
Sappiamo che dal Cesarotti egli imparò ad ammirare i poemi di Ossian,
e che ebbe care le lugubri fantasie di Edoardo Young, le quali
rivivono in alcuni dei primi suoi versi, come la elegia _In morte
di Amaritte_, e quella intitolata _Le rimembranze_. Altre sue brevi
poesie di quel tempo (1796-1797), quali il sonetto che incomincia:
«Quando la terra d'ombre è ricoverta», e gli sciolti _Al Sole_,
hanno un colorito romantico che non può sfuggire a nessuno. Veniamo
alle _Ultime lettere_. Sono esse o non sono romantiche? Facendo tale
domanda si fa quasi implicitamente quest'altra: È, o non è romantico
il _Werther_? Per rispondere basterà ricordare che il giovane Werther,
il quale antepone Ossian a Omero, è non solo un personaggio romantico,
ma a dirittura come il capostipite di tutta una famiglia romantica;
che aveva ragione il Lessing quando diceva che nessun giovane greco
o romano si sarebbe innamorato e poi ucciso al modo di Werther;
che l'aveva quasi madama di Staël, quando a proposito della forma
epistolare data dal Goethe al suo romanzo, diceva che gli antichi non
pensarono mai a dare così fatta forma alle loro finzioni (e scordava
le _Eroidi_ di Ovidio, il quale fu considerato come un precursor dei
romantici); e finalmente che il romanzo del Goethe fu uno dei libri che
più accesero la fantasia a Giovanni Ludovico Tieck, romanticissimo fra
i romantici. Perciò, con esso, il Goethe ajutò senza dubbio alcuno e
promosse quella scuola romantica di fronte alla quale mutò poi e rimutò
atteggiamento.
È a lamentare che sieno andati perduti certi _pensieri_ del Monti
intorno all'_Ortis_, perchè forse si sarebbe potuto rilevare da essi
che certe vestigia dell'_audace scuola boreal_ egli le aveva sapute
scorgere nel romanzo, e perchè forse ci sfogava attorno un qualche
poetico e classico risentimento. Ma anche senza il suo ajuto, ognuno
può vedere per questa parte più che non bisogni. Indubitatamente
le _Ultime lettere_ sono scrittura d'inspirazione e d'intonazione
romantica, sebbene non vi si riscontri questo aggettivo fatale, che per
ben due volte compare nel _Werther_. Romantico è in esse il carattere e
il tono della passione; romantico quel considerar la ragione come cosa
men alta e men degna del sentimento; romantico il modo di vedere, di
sentire, di ritrar la natura; romantica tutta la storia di Lauretta;
romantica l'enfasi e l'esagerazione del linguaggio, che sempre trasmoda
nel lirico; romantica la fusion dell'autore col personaggio di cui
narra la storia. E se qua e là ci si abbatte in quelle lettere a
qualche frasca o zerbineria mitologica; e se in un luogo sbucan fuori
non so che najadi o ninfe; e se Jacopo si scalmana dietro agli eroi di
Plutarco; ciò non basta a togliere al libro il carattere romantico che
per tanti rispetti gli si appartiene. E se quell'inframmettente del
Sassoli si deve biasimare per avere voluto finir di suo, e malamente,
quel primo saggio dell'_Ortis_ che fu la _Vera istoria di due amanti
infelici_, lasciato a mezzo dal Foscolo, non potrà già, a parer mio,
biasimarsi d'averne franteso e alterato il carattere, quando nella
seconda parte dà luogo a quell'Ossian che non l'aveva potuto trovar
nella prima e ci stiva tanto del Young quanto ce n'entra. Aggiungasi
che le _Ultime lettere_ furono in Italia, come il _Werther_ in
Germania, uno dei libri più cari alla gioventù romantica, quello,
fra tutti, che aperse (è il Foscolo stesso che rammaricandosene ce ne
assicura) più profonde ferite nel petto delle fanciulle patetiche[6].
Ora, il romanticismo delle _Ultime lettere_ è un indice del
romanticismo del Foscolo. Intendo che sì fatta asserzione può suscitare
molte e non lievi obbiezioni, ma non tali, credo, che la buttino a
terra. Di che romanticismo del Foscolo, si dirà, andate voi ragionando,
se del 1800 è l'ode per la Pallavicini, e del 1802 quella per l'_Amica
risanata_, pregne l'una e l'altra di mitologia e di spirito greco?
E non è del 1803 la versione di Callimaco? E non è del luglio del
medesimo anno la lettera a Giambattista Niccolini giovinetto, nella
quale il Foscolo dice, tra l'altro, che i classici sono _le sole fonti
di scritti immortali_? Ora son quelli per l'appunto gli anni in cui
il Foscolo rivede il suo romanzo, lo conforma meglio col _Werther_, lo
riduce a lezione definitiva, lo stampa intero.
Il tema è delicato, e se ne vuol discorrere con circospezione, e
intendersi bene. Io non dico già che il Foscolo fosse un romantico:
dico ch'egli ebbe del romantico nel modo di sentire, di pensare, di
atteggiarsi, di vivere; e che l'anima sua, capace, come egli stesso
ne avverte, di molte contraddizioni, somiglia a un fiume formato dal
concorrere di più acque, varie d'origine, di temperatura e di colore e
non anche fuse insieme. E molto più romantico certamente sarebb'egli
riuscito se non fosse stata tutta classica la sua educazione; e se
dalla qualità di greco non avess'egli creduto di ricevere come una
particolarissima obbligazione e consacrazione di classicità; e se dai
casi e dalle tristi esperienze della vita, e dal disgusto di quanto
si vedeva d'attorno egli non fosse stato, dirò così, quotidianamente
risospinto verso l'antico. Le quali ragioni tutte, del resto,
non valsero ad impedire che qualche sottil vena di romanticismo
s'infiltrasse nei _Sepolcri_, e che la _Ricciarda_ riuscisse una
tragedia riboccante di romantici orrori[7]; e non tolsero al poeta,
la cui fede classica appar molto scossa negli ultimi anni, di dire,
parlando delle _Grazie_, che forse un giorno in altri suoi versi non si
sarebbero più vedute le deità dei Gentili.
Chi voglia farsi un'idea del romanticismo giovanile del Foscolo, basta
ponga mente a due cose: l'una, che la prima materia del romanzo la
porsero le lettere a quella Laura intorno a cui si fecero già tante
congetture e tante dispute; l'altra, che le lettere ad Antonietta
Fagnani si riscontrano in moltissimi luoghi, come fu notato, con
le lettere del romanzo. Quante movenze, quante espressioni, quanti
riscaldamenti romantici in quelle lettere alla Fagnani, la quale
era, lei, tutt'altro che romantica! Prima di tutto, la passione,
stimolata dì e notte dalla fantasia, esacerbata dalla riflessione,
artificiosamente incalzata di là da' suoi termini naturali, intricata
nelle peripezie di romanzesche avventure, con ostentazione di mistero,
sospetto d'inimicizie coperte, ansietà di tradimenti, repentagli
di duelli, ruggiti di rabbia e dì dolore, aspettazione di morte,
minacce di suicidio. Chè il Foscolo ebbe tutto il tempo di vita sua il
desiderio, e dirò pur l'ambizione, di uno di quegli amori smisurati,
fatali, mortali, che tutti i romantici sognarono; e fra tanti ch'ei
n'ebbe, non n'ebbe uno solo mai che veramente fosse di quel carattere,
checchè ne possa egli dire e voler far credere nelle sue lettere
amorose, e sebbene parecchi degli amori suoi, anche prima di quello
colla Fagnani, fossero stati romanzeschi a segno da meritargli da
colei il soprannome di _romanzo_ e _romanzetto ambulante_. Poi quella
mostra vanagloriosa e quel come culto di una infelicità maggiore di
ogni altra infelicità, e nel tempo stesso più nobile di ogni altra,
e più recondita, e più fatale, disperata di soccorso, perpetua,
inintelligibile ai profani, ajutata da un'arte crudele e squisita
di _esulcerare le proprie piaghe_, chè l'arte di Jacopo, mentre le
_Lettere_ di Jacopo sono, a detta dello stesso Foscolo, il libro
del cuore del Foscolo. Onde quel parlar sempre, e sino alla sazietà,
di delusioni irreparabili, e di contraddizioni fra il sentimento e
l'esperienza, e di un sentir troppo intenso e profondo, e di _anima che
divora il corpo_, e di cuore che è _eterna causa di pianto_, e di un
_tempo presente divorato col timor del futuro_; e quelle notti insonni,
popolate di fantasmi, e quell'orror pei viventi, e quello stemperarsi
continuamente in lacrime, e il _piacere dell'infortunio_, fratel
carnale della pindemontiana e anglogermanica _gioja del dolore_ (_joy
of grief; Wonne der Thränen_), e l'oppio e il digiuno, e il pugnale
liberatore. Poi anche la incurabile melanconia che lo possedette fin
da fanciullo; quella stessa pensosa e poetica melanconia, che più
antica assai dello Chateaubriand, dal quale Teofilo Gautier la voleva
scoperta o inventata[8], giudicata dal Cesarotti uno dei caratteri del
genio, celebrata in Italia dal Bertola e dal Pindemonte, derisa dal
Parini, fu, vera o finta, uno dei contrassegni particolari d'infiniti
romantici, molti dei quali dovettero invidiare al Foscolo la _magra
e melanconica persona_, di cui sembra che questi inorgoglisse, pure
conoscendosi brutto. «Le melanconie», egli diceva, «non mi lasciano che
di rado, ed io ne godo ch'esse alberghino meco»[9]. E alla melanconia
s'accoppiava una vaghezza di sentimenti _patetici_ e di _patetiche_
viste, onde il poeta si congratulava con l'amica, perchè un ritratto di
lei, sebbene poco somigliante, pure serbava _tutto tutto il suo caro e
patetico atteggiamento_. Aggiungete poi un grande disprezzo per quella
_stupidità che si chiama saviezza_, un odio orgoglioso per ogni maniera
di volgo, un gesto da fulminato impenitente, una ostentazione di animo
imperterrito, e per soprammercato, i rimorsi di Didimo Chierico, e
poi ditemi, se in mezzo alle molte contraddizioni, e ai non pochi
vacillamenti, non vi pare di riconoscere nel Foscolo uno di quei _bei
tenebrosi_ di cui andò tanto superba l'arte romantica, e se non vi
fa pensare a qualcuno di quei personaggi misteriosi e fatali in cui
s'incarnò Giorgio Byron.

IV.
Quanto sono venuto dicendo riguarda in più particolar modo il Foscolo
giovanissimo, ma si può seguitare a dire, almeno in parte, anche del
Foscolo meno giovane, e del Foscolo non più giovane.
Mettiamo in sodo un primo fatto importante, ed è che, comunque il poeta
possa giudicare, negli anni maturi, il romanzo della sua giovinezza, e
dolersi del malo esempio che molti potevano averne ricevuto, e dire che
gli rincresceva d'averlo scritto, quel romanzo non gli esce più dalla
mente e dal cuore, e sempre egli lo viene ricordando, l'un anno dopo
l'altro, nelle sue lettere e sempre egli si riconosce, e si compiange,
e si ammira nel _povero_ Jacopo. Nel 1806, scrivendo all'Albrizzi, si
firmava _il tuo Ortis_. Nel gennajo del 1806, scriveva alla Marzia:
«Mi sento l'animo come nel tempo ch'io scriveva l'_Ortis_»; e un'altra
volta le diceva che se avesse potuto scrivere un altro _Ortis_ gli
sarebbe parso di star meglio, e sarebbe forse guarito. Nel 1812
ricordava al Pellico il _nostro povero Ortis_. Nel 1813, trovandosi in
uno dei suoi tanti travagli amorosi, scriveva al Trechi: «Sigismondo
mio, il povero Ortis è morto»; e morto non era se riviveva in lui.
Essendo in Isvizzera nel 1815 e nel 1816, si faceva scrivere al nome di
Lorenzo Alderani, il supposto amico e quasi fratello di Jacopo, e con
quel nome si sottoscriveva, e di quel nome si serviva anche in istampa.
Curava nuove edizioni del _melanconico libricciuolo_, dolendosi degli
errori e di altri guasti che ne avevan deturpate parecchie, lamentando
le traduzioni cattive, compiacendosi delle buone; e ad alcune copie
della stampa di Londra, del 1817, poneva in fronte una lettera a
Samuele Rogers, ove dice tra l'altro: «Io in questa operetta cerco alle
volte e riveggo il mio cuore quale era uscito di mano della natura». E
quale in sostanza egli conservò sempre, come par quasi che presentisse
Melchiorre Cesarotti, quando, nel 1802, gli scriveva a proposito di
essa: «Veggo purtroppo ch'è l'opera del tuo cuore; e ciò appunto mi
duol di più, perchè temo che tu ci abbia dentro un mal cancrenoso e
incurabile». Altri, come l'abate Luigi di Breme e madama Bagien, lo
chiamano Ortis, _ce pauvre Ortis_, e pare a me dicessero più giusto che
non facesse egli stesso, quando in una lettera del 1820 alla Russel,
e in uno dei frammenti del romanzo autobiografico, chiamava l'Ortis
suo amico e suo sfortunato amico. Perciò non ha torto il Chiarini
quando dice che un fondo di Jacopo Ortis rimase nel Foscolo per tutta
la vita, e che il Foscolo «fu molto più Jacopo Ortis del suo eroe»;
e aveva torto la contessa d'Albany quando negava così senz'altro che
il suicidio di Jacopo Ortis fosse una ragione per credere al suicidio
del Foscolo. Si può qui considerare un bel caso dell'influsso che alle
volte un libro esercita sulla persona e su tutta la vita del proprio
autore.
Nel 1795, il poeta giovinetto, _avvolto di un'elegante melanconia_,
si deliziava spesso _mormorando i patetici versi di Ossian_: il poeta
maturo si burlò degli _ossianeschi_, e sentenziò che «la materia
dell'_Ossian_ dissente tanto da' nostri costumi e dalle nostre idee
poetiche, che l'imitarlo riescirebbe ridicola affettazione»; ma non per
ciò se ne scordava, e in una lettera del 1814, alla contessa d'Albany,
trascriveva alcuni versi della traduzione cesarottiana, serbati nella
memoria, e ripetuti a lenimento del dolore che gli divorava l'anima, e
a schermirsi dagl'_irritamenti della fortuna_.
La melanconia séguita a essere compagna inseparabile del poeta maturo
com'era stata del giovane; anzi prende nome e qualità di _melanconico
genio_, e il poeta, che ammira la _melanconia_ della Bibbia, gode in
pari tempo di poter dire: _il mio amico Amleto_. Quella certa smania
di singolarità che la contessa d'Albany gli rimproverava nelle sue
lettere, e ch'egli un po' stizzosamente negava, era male congenito in
lui, del quale, o non seppe, o non volle guarire mai, e che appare
per più rispetti somigliantissimo a quella teatralità di cui tanti
romantici, anche non zazzeruti, ebbero a far pompa[10]: onde forse
l'ammirazione sua per il Byron, levatosi come un «Achille giovinetto
tra uno stuolo di eroi più provetti»: pel nuovo Euforione cui anche
il Goethe applaudiva, e che le opposte tendenze dei classicisti e
dei romantici pareva dover conciliare in un'arte più comprensiva
e più alta. E sempre l'uomo provato da tanti disinganni e da tanti
dolori mostrò di porre, come avrebbe potuto fare il più romantico
dei romantici, la passione al disopra della ragione; e sempre l'anima
sua, benchè _inaridita_ (come a lui piaceva di dirla), fu straziata da
_fatali_ ricordi, e si dibattè nel tumulto dei sensi e degli affetti,
nella febbre e nel delirio di una passione _forsennata_; e sempre le
sue lettere d'amore, specie se scritte a donne _pallide, patetiche,
sibilline, fatali_, donne _funestamente a lui care_, sono come pezzate
di colori romantici, tassellate di espressioni romantiche, riboccanti
di romantica mestizia. Leggete ciò che delle notturne angosce,
cagionategli da un nuovo rimorso, egli scriveva alla _Donna gentile_
nel marzo del 1816, e leggete il _Manfredo_ del Byron, e poi dite se
l'uomo reale non sembra appartenere con l'immaginario a una stessa
famiglia.
Il De Sanctis avvertì, e con ragione, un elemento romantico in quei
_Sepolcri_ in cui Ippolito Pindemonte trovava, anch'egli con ragione,
troppe antiche memorie; ma l'elemento romantico è nell'anima stessa
del Foscolo. Che importa che il poeta non se ne avveda, o nol voglia
confessare? Che importa ch'egli stia nel 1814 più mesi senza leggere
altro che Omero? Che importa che nel 1823 scriva: «I moderni sono
troppo ciarlieri per me», e sempre torni agli antichi? Egli ha in
fronte uno stigma romantico che non può cancellarsi. Come i romantici,
egli è un rivoluzionario che grida tutto essere da rifare in arte.
Come i romantici, o almeno come i più dei romantici, egli non riesce
a fermare in sè quel perfetto equilibrio della ragione e del cuore,
ch'è una condizione principale dell'arte classica, e che egli in
arte vagheggia, non senza contraddire a sè stesso. Come i romantici,
egli s'intrude sempre nell'opera propria, nè saprebbe intendere il
Goethe quando sentenzia che una cosa deve essere l'opera, e un'altra
cosa, affatto distinta, il poeta. Aggiungasi che egli, se avversò
Chateaubriand, col quale ebbe pure più di una somiglianza, se derise
la Staël, fu amico e lodatore sincero di parecchi romantici, fra'
quali tutti basterà ricordare il Pellico; e che quando fu fondato il
_Conciliatore_, il giornale della nuova scuola, egli promise, sia pur
freddamente, di scriverci, mentre il Monti al giornale moveva guerra
prima ancor che nascesse. Chi ponga mente a tutto ciò, non potrà poi
troppo meravigliarsi di quella esagerazione del Lampredi, che, nel
_Poligrafo_, chiamò Ugo Foscolo il _corifeo dei romanticismo_; anzi lo
accusò d'aver preso del romanticismo la parte men sana e d'averla resa
_perniciosissima, generalizzandola_.
Il Foscolo è molto difficile da conoscere e da giudicare, e tale
difficoltà fu da lui stesso avvertita; ma non tanto difficile tuttavia
che non si possa attraverso alle sue molte contraddizioni, per entro
a quel misto di _dandy_ e di _bohème_ che si nota in lui, scoprire i
caratteri principali e i principali stati dell'agitatissima anima sua.
Il Byron lo definiva _uomo antico_. A me il Foscolo sembra uomo assai
moderno sotto l'antica vernice. Tra l'altro, egli mostra apertamente
in fronte l'incancellabile suggello che Gian Giacomo Rousseau impresse
in tante altre fronti[11]; e credo che se invece di nascere nel 1778
fosse nato vent'anni più tardi e avesse avuto intorno meno impacci di
tradizioni e di scuola, egli avrebbe avuto il suo posto non più tra'
classici, ma tra' romantici. Peccato che non abbia scritti i parecchi
altri romanzi ch'ebbe in mente, da' quali forse altri e maggiori
indizi si sarebbero potuti ricavare! Che se il romanticismo avesse
a definirsi, come piacerebbe a qualcuno, prevalenza di soggettismo e
trionfo di lirismo, chi più romantico del Foscolo?


IL ROMANTICISMO DEL MANZONI[12]

Alessandro Manzoni passò sempre, in Italia e fuori d'Italia, per
caposcuola del romanticismo italiano. E non senza ragione, di sicuro,
chi consideri che nella lettera allo Chauvet sulle unità drammatiche
noi abbiamo il documento più cospicuo di quella letteratura polemica;
nella lettera a Cesare D'Azeglio il catechismo, per così dire, di
quella dottrina; nei _Promessi Sposi_, nelle tragedie, negl'inni sacri,
quanto di meglio quella letteratura produsse in Italia. Se non che,
dal tenere, così senz'altro, e in modo, direi, assoluto, il Manzoni
capo di quella scuola, possono nascere, e nacquero infatti, e nascono
tuttavia, alcune pregiudicate opinioni che, specie se spalleggiate
da un po' di avversione o di predilezione istintiva, non lasciano
rettamente intendere l'uomo, nè l'opera sua, nè quella scuola stessa di
cui si vorrebbe vedere in lui l'espressione più sicura e più piena. Il
Manzoni fu romantico, senza dubbio; ma non quel romantico che molti si
dànno ad intendere; e capo del romanticismo italiano egli non può esser
detto senza accompagnare quel titolo periglioso di molte avvertenze,
distinzioni e restrizioni, che ne scemano d'assai la portata, o ne
mutano non poco il carattere. I giudizii sommarii non valgono nulla,
neanche in letteratura. Del resto il Manzoni, come il Lamartine,
ricusò sempre il nome, l'ufficio e le brighe del caposcuola; e se il
Pieri, una volta, lo chiamò dispettosamente _corifeo del romanticismo
italiano_; e se altri dopo il Pieri, gli diedero quello stesso, o
altro simile titolo; ebbe pur sempre ragione il Mamiani di dire che il
presunto e acclamato _capitano procedette sempre solo_[13]. E di ciò si
ha, fra tant'altre, una prova nel fatto che il Manzoni favorì bensì il
_Conciliatore_, ma non vi scrisse; astensione che per un caposcuola del
romanticismo non lascia d'essere un po' curiosa.

I.
Parlare del romanticismo è, anche ora, cosa molto difficile, per
quanto appajano sedate, se non ispente affatto, le passioni che già
resero un tempo difficilissimo il parlarne. Perchè la difficoltà non
nasceva tutta dall'impeto e dal contrasto di quelle passioni, le quali
non lasciavano veder chiaro nella questione; ma nasceva, e in certa
misura nasce ancora, dall'oscurità, dall'estensione, dal viluppo della
questione stessa. Più forse di ogni altra dottrina letteraria, in
dottrina romantica, presa nel tutto insieme, appare a primo aspetto
una agglomerazione di parti malamente coordinate, e talvolta anche
repugnanti fra loro; sparsa di certe larve d'idee che, speciose in
vista, non si possono poi ridurre a forma definitiva e pensabile;
intralciata di troppi di quei giudizii che il Manzoni, parlando
d'altro, dice nati «prima sul labbro che nella mente, e che svaniscono
a misura che uno li contempla con attenzione». Se n'ha una prova in
quelle tante, troppe, definizioni che del romanticismo si diedero e si
dànno, e che tutte, qual più, qual meno, tornano inadeguate e vaghe,
specie se pretendano di far colpo con certa stringatezza e recisione
aforistica che il soggetto non comporta (_il romanticismo è il
liberalismo nell'arte, lo spiritualismo nell'arte, il vero nell'arte,
il trionfo del lirismo, il soperchiare del soggettivismo, il disordine
della fantasia, il senso del mistero, la forza dell'aspirazione_,
ecc.)[14] e se n'ha una prova anche maggiore nel vedere parecchie di
quelle definizioni contraddirsi e negarsi a vicenda.
Ad ogni modo, sono lontani i tempi in cui Vittore Hugo, non convertito
per anche alla nuova fede, poteva dire che _classico_ e _romantico_
sono parole senza senso, e il Guerrazzi ripetere in Italia: «Io non
vorrei profferire nemmen i nomi di classici e di romantici, dacchè
per sè stessi non significano nulla». Veramente quei nomi qualche cosa
significano, e noi, ora, sempre più li veniamo intendendo, sempre più
discerniamo le cose e le idee significate per essi, e le attinenze,
conseguenze e ragioni loro. Contraddizioni e incertezze nella dottrina
ce ne furono anche troppe, ma dovute, la più parte, alla natura stessa
delle cose, le quali vanno per la lor china, come la necessità ne le
porta, nè si curano di accondiscendere alle dottrine perchè le riescano
più facilmente, di primo tratto, chiare, intere, bene spartite e
coerenti.
Risalendo ai principii e guardando un po' dall'alto, si vede ciò che
non si può vedere dal basso. I nuovi indirizzi dell'arte e le dottrine
che li accompagnano, e alle volte li precedono, sono determinati più
e meno (non mai del tutto) da moti molto più vasti e più profondi,
effettuatisi già, o che si vanno effettuando, negli ordini della vita
e del pensiero. Il romanticismo non fa eccezione a questa che è legge
costante e generale; ma esce in qualche modo dall'ordinario, e si
stringe a certo gruppo di casi particolari, ove quel nuovo indirizzo
si vede essere (sempre più e meno) l'effetto, non di moti concordi e
cooperanti, ma di moti discordi e contrastanti, e come la _risultante_
di più forze divergenti. Si vedono comunemente nel romanticismo gli
effetti della reazione politica e religiosa; ma non ci si vedono,
o ci si vedono molto meno, gli effetti di quello spirito contro cui
s'armò la reazione, di quello spirito che concepì e operò i grandi
rivolgimenti del secolo scorso[15]. La inclinazione religiosa e
mistica che l'arte romantica manifesta sin dal suo nascere; quella
infatuazione pel medio evo; quel sentimento di patria e di nazione
fatto più permaloso e più acuto, sono frutto di reazione senza dubbio;
ma quel vago, inquieto e talvolta protervo desiderio del nuovo;
quell'avversione acre all'autorità ed alle regole; quella baldanza
critica e battagliera; quel proposito democratico; quel confondere i
generi come si eran confuse le classi, son frutti dello spirito stesso
del secolo XVIII. Qual meraviglia se il romanticismo, formato, dirò
così, di un intreccio di forze contrarie, mostra in sè più di una
contraddizione? Se mentre esalta il sentimento sopra la ragione, si
serve della ragione per buttar giù il classicismo, con procedimenti
non troppo dissimili da quelli che i filosofi avevano usato contro la
fede? Se mentre riconsacra le patrie, scioglie inni all'umanità? Se
mentre ripone Dio sugli altari, prepara le vie all'incredulità e al
_satanismo_, correggendo esso stesso il detto di Enrico Heine, che il
romanticismo sia un fior di passione nato dal sangue di Cristo? Vedere
in queste incoerenze e in questi dissidii non altro che sintomi di
debolezza e d'inettitudine non è ragionevole. Essi, piuttosto, sono
sintomi di vita operosa, combattuta e profonda. Giudicar l'arte e la
dottrina che li accolsero in sè fatti di scadimento e di esaurimento,
senz'altro, è erroneo. Il romanticismo ebbe molte parti vive e vitali;
alcune vitali tanto che vivono ancora, anzi, pajono, mutati i nomi,
prender nuovo vigore. Il romanticismo fece ciò che non poteva più,
per nessun modo, il classicismo: rappresentò la coscienza dei tempi
nuovi nella molteplicità mutabile de' suoi aspetti, nel tumulto e nel
contrasto delle sue numerose tendenze, nel lutto insieme dell'agitata
e tormentosa sua vita. Fu qualche cosa più che la _epizoozia_ schernita
dal Monti.
Del resto quando nella dottrina del romanticismo si sia fatta la
cernitura degli elementi avventizii, scioperati, caduchi, e siasi
cercato alquanto sotto la superficie, non si stenta molto a trovare
un nucleo saldo e incorruttibile, formato dal concetto di un'arte
che, non più dell'antica, ma più di quella che s'affanna a rifare
l'antica, scaturisca dall'intimo della psiche, e viva del vivo,
traendo spirito e norma dal veramente sentito e dal veramente pensato,
anzi che dagli esempii e dai precetti; sia, per così dire, immanente
e non derivata. Questo concetto, dal quale vennero al rivolgimento
letterario della fine del secolo scorso e di parte del presente alcuni
caratteri non troppo dissimili da quelli che contraddistinguono il
rivolgimento religioso del secolo XVI; questo concetto, che formò pure
il nucleo del realismo, è di tutta giustezza e inoppugnabile. E se il
romanticismo traviò poi in tanti errori e in tanti eccessi, traviò,
non già per averlo troppo osservato, ma bensì per non averlo osservato
abbastanza. E se, notando l'atteggiamento diverso che il romanticismo
ebbe a prendere tra le varie genti d'Europa, e come quella diversità
diventi alle volte contrasto e contraddizione, si volesse inferirne che
quel principio non è nè immutabile nè unico, s'inferirebbe il falso,
quando la diversità, il contrasto e la contraddizione nascono appunto
dall'essere quell'unico e costante principio applicato a condizioni
di vita e di coltura profondamente diverse, e da quella mescolanza di
elementi e di tendenze a cui ho accennato poc'anzi. Un solo e supremo
principio estetico e letterario, e molte e varie contingenze e tendenze
particolari, ecco perchè ci fu un romanticismo comune e generico, e ci
furono tante specie di romanticismo quanti i paesi in cui allignò.
Sebbene Hermes Visconti abbia definito _crocchio sopraromantico_ il
crocchio che intorno al 1820 si adunava in casa del Manzoni, pure
gli è indubitato che il romanticismo italiano, specie quello che in
Milano ebbe espressione più ragionevole e vita più rigogliosa, fu
di sua natura molto temperato, molto conciliativo: tanto temperato
e tanto conciliativo che, appunto in quell'anno, nella lettera
allo Chauvet, pubblicata poi il 1822, il Manzoni stesso era tratto
ad esprimere il dubbio non avessero i romantici italiani a udirsi
rimproverare di non essere abbastanza romantici. Egli per primo non
dovette sembrare a molti abbastanza romantico. A ragione, o a torto?
Ecco appunto la questione che io vorrei esaminare e discutere. Che
è a dire del Manzoni considerato nel romanticismo generale europeo?
Che è a dire del Manzoni considerato nel romanticismo particolare
italiano? Quanto al romanticismo italiano, leggonsi parole del Manzoni
che proverebbero pieno e perfetto in quegli anni medesimi l'accordo
suo con gli scrittori del _Conciliatore_, di cui erano stati soppressi
i fogli ma non le idee. In principio del 1821, scrivendo al Fauriel,
egli li chiamava suoi amici e compagni di patimenti letterarii, _amis
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