Foscolo, Manzoni, Leopardi: saggi - 09

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persino a dolersi che non ci sia che un mondo solo da conquistare.
Don Abbondio non vuole conquistar nulla; nemmeno il paradiso, perchè
spera che il buon Dio glielo darà senza farlo troppo stentare. Don
Abbondio non solo non prende e non desidera la roba altrui, ma a chi
la tiene ingiustamente non domanda nemmeno la roba propria; e perda
il fiato Perpetua a dargli del baggeo. Che questa non sia generosità
pura, d'accordo; ma che non abbia altra ragione se non il desiderio di
scansare le brighe e le dispute, non pare. Se Don Abbondio ci tenesse
tanto alla roba, se ci tenesse come ci tengono gli avidi, qualche sfogo
con Perpetua lo dovrebbe pur fare (e già ben altri ne aveva fatti!),
e non contentarsi di dire che que' ch'è andato è andato. Lo vogliono
avaro, e tirano fuori la storia delle venticinque lire dovute da
Tonio, e della collana d'oro data in pegno, e quelle sollecitazioni e
quegli ammonimenti: _Tonio, ricordatevi: Tonio, quando ci vediamo per
quel negozio?_ e quel modo di contar le berlinghe nuove, voltandole
e rivoltandole, e quella maniera di aprir l'armadio, riempiendo
l'apertura con la persona. Ma tutto ciò prova che questa volta almeno
Don Abbondio vuol avere il suo, e che Don Abbondio è sospettoso: che
sia poi anche avaro, quel che si dice avaro, non prova. Le venticinque
lire Tonio le doveva per fitto di un campo, diciamo meglio, del
campo, probabilmente unico, di Don Abbondio, e pare le dovesse da un
po' di tempo. Ora, notate che Don Abbondio non si fa dare un soldo
d'interesse: è così che fanno gli avari? E vi pare che se fosse uno di
quegli avari bollati ed autentici, Don Abbondio potrebbe consegnare
tutto il suo _tesoretto_ a Perpetua, e lasciare che la lo vada a
sotterrar da sola (perchè gli è chiaro che ci va sola) appiè del fico?
Non dunque avarizia propriamente, ma apprensione parsimoniosa e gretta
d'uomo che non sa procacciare, non sa ajutarsi, e perciò tien di conto
quel poco che ha, e quando la soldatesca gli ha disfatta la casa, pena
un pezzo a rifar usci, mobili, utensili con denari presi in prestito.
Quali sono per Don Abbondio i piaceri della vita? un desinaretto
gustoso, ma senza pretese; un fiaschetto di vino sincero (più di una
botticina già non ne aveva); una passeggiata per quei viottoli, da'
quali si vede il lago; un po' di lettura, quando le _circostanze_ non
sieno tali da lasciargli _appena testa d'occuparsi di quel ch'è di
precetto_; un buon chilo, un buon sonno; e basta. Questi piaceri non si
possono godere senza quiete, e perciò la quiete è per Don Abbondio la
condizione prima e _sine qua non_ della felicità, quella che dev'esser
mantenuta e tutelata con ogni studio contro i nemici così interni come
esterni. Nemici interni Don Abbondio non ne dovrebbe avere, e non ne
avrebbe, se dipendesse dalla sua sola natura. Egli è nato per essere
l'amico di sè medesimo, sempre in pace con sè stesso; ambizioni,
gelosie, dubbii tormentatori, rimpianti amari, rodimenti secreti,
son tutte diavolerie ch'egli non conosce, o non dovrebbe conoscere,
nemmeno di nome. Se ne ha, gli son venute di fuori. Il mondo, ecco
il grande nemico; anzi ecco l'accolta e la confederazione di tutti i
nemici. Come si fa a conservare la propria quiete in un mondo pien di
furore e di trambusto, che di quiete non ne vuol sapere? Si ha un bel
tirarsene fuori, mettersi da banda, lasciare che ci pensi chi ci ha da
pensare, dire che gli ecclesiastici non devono _mischiarsi nelle cose
profane_, sentenziare che _la patria è dove si sta bene_. Trovarla,
quella patria! Il mondo non vi lascia tranquilli; se voi lo fuggite,
ecco che vi viene a cercare e vi tira in ballo. Per quanto s'ingegni,
Don Abbondio non può fare che, per un verso o per un altro, qualcuna di
quelle innumerevoli punte di cui il mondo è armato come un istrice, non
lo frughi e non lo punzecchi. Ed ecco perchè Don Abbondio _si rode_,
e ha, di solito, quella faccia _tra l'attonito e il disgustato_. Ma
quella faccia non l'ha sempre, e anzi non è la faccia sua naturale.
Come appena la burrasca è passata, Don Abbondio si rasserena, prende
un'aria gioviale, ride, scherza, dice che s'ha a stare allegri il
più che si può; e a questo fine si capisce che una delle sue grandi
regole dev'essere di non _rimestare_ le cose vecchie, che non han
rimedio. Perpetua è morta di peste. Povera Perpetua! Credete voi che
Don Abbondio n'abbia a fare il panegirico, intenerirsi, amareggiarsi?
Se viveva, questa è la volta che si maritava. È morta. Non ci pensiamo
più. Dio l'abbia in gloria.
La più gran virtù che secondo Don Abbondio gli uomini possano avere
è, in comune con le mule, d'essere quieti. E per questo, se i birboni
gli danno molto travaglio, i santi gliene dan poco meno, e si vede
che Don Abbondio non vorrebbe avere da fare nè con gli uni, nè con
gli altri. La santità è rinunziamento di sè medesimo, zelo operoso del
bene, spirito di sacrifizio; in una parola, eroismo. I santi come Fra
Cristoforo e Federigo Borromeo meritano d'essere chiamati campioni e
atleti di Dio. Ma appunto questi atleti e campioni hanno coi facinorosi
una somiglianza molto sgradevole. Non possono star tranquilli essi,
e non vogliono lasciar tranquilli gli altri. Sempre sono in orgasmo
e in faccenda, tira di qua, premi di là, vogliono rifare il mondo;
_e lascian poi alle volte le cose più imbrogliate di prima_. E il
bello, anzi il brutto, si è che non fanno nessun conto della propria
vita, e pochissimo dell'altrui, quando si tratta di far trionfare
il bene. Sono un gran tormento! Ma poi sono anche curiosi: purchè
frughino, rimestino, critichino, inquisiscano; anche sopra di sè. E
come si scaldano la fantasia! Un malandrinaccio viene a dire che s'è
convertito, e loro gli buttano le braccia al collo: quella, a casa
degli uomini di giudizio, _si chiama precipitazione_. E le conversioni?
Sono una gran bella cosa. Nessun dubbio: Don Abbondio vorrebbe che
tutto il mondo si convertisse (nè per questo è poi necessario di
diventar santi); ma uno non si può convertire quietamente? senza far
tanto chiasso? senza scomodar tanta gente?
Agnese, stizzita, pensa che Don Abbondio ha _sempre sacrificati gli
altri_; questo è un po' troppo. Bisognerebbe dire che sempre, quando
s'è trattato di _scegliere_ tra il sacrificio proprio e l'altrui, Don
Abbondio ha scelto l'altrui. Brutto egoismo, ma non del più brutto. E a
renderlo men brutto sta il fatto ch'egli non se ne conosce colpevole; e
non conoscendosene colpevole, può con tutta sincerità, se non con buona
ragione, meravigliarsi della durezza degli altri, e che ognuno pensi
solamente a sè, e che tutti abbiano così poco cuore; e stimarsi in
credito verso Renzo e Lucia; e dire con un'aria compunta di tribolato
ch'è il suo pianeta che tutti gli abbiano a dare addosso. L'egoismo
di Don Abbondio è assai più un egoismo passivo che un egoismo attivo.
Considerate che quasi tutti i suoi peccati sono peccati di omissione.
Ed ora veniamo a quella che non è la sola, ma certamente è la cagione
massima e incessante d'ogni suo procedere.
Don Abbondio è egoista per paura. Don Abbondio nacque (su di questo
non può cader dubbio) con la paura in corpo, e la paura gli s'accrebbe
via via, per lo spettacolo delle cose del mondo, per la praticaccia
(non oso dire esperienza) della vita, pel sentimento acuto, insistente,
angoscioso, d'essere _come un vaso di terra cotta, costretto a
viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro_; ed egli (anche su
di questo non può cader dubbio) non fece mai il menomo sforzo per
vincerla, o, almeno, per non lasciarla crescere. La paura è la parte
meglio organata, più viva e più stabile della sua coscienza; tanto che,
quand'egli non abbia proprio altro da fare, come durante quei giorni
passati nel castello dell'Innominato, essa, insiem col breviario, gli
tiene _compagnia_ e gl'impedisce di annojarsi.
La paura riesce sempre comica quando si lasci scorgere dove non è
pericolo, o quando al pericolo non paja proporzionata, o comechessia
si comporti in modo disdicevole al tempo, al luogo, alle persone,
all'occasione. La paura di Don Abbondio è comica perchè è esagerata,
permanente, intrattabile, spesso spesso allucinata e chimerica. Direi
ch'è la paura integra e totale, perchè non si vede come Don Abbondio
possa essere mai affatto sgombro di paura, e qual cosa al mondo sia
così piccola e innocua che non possa in un qualche momento far paura
a Don Abbondio. Perpetua trova le parole giuste quando scappa a dire:
_Se ha poi paura anche d'esser difeso e aiutato_... L'esempio di Don
Abbondio conferma in parte l'opinione del filosofo scozzese Dugald
Stewart, il quale disse la paura un male della fantasia. La fantasia
di Don Abbondio non s'impressiona dei soli pericoli presenti e reali,
ma ne immagina molti di possibili e di remoti, e in ogni cosa fiuta il
malanno, sospetta l'insidia. Ricevuto quel terribile avvertimento dei
bravi, Don Abbondio, dopo lungo travaglio e laceramento di spirito,
riesce a prender sonno; _ma che sonno! che sogni! Bravi, Don Rodrigo,
Renzo, viottole, rupi, fughe, inseguimenti, grida, schioppettate_. Sin
qui nulla di strano. In questo caso quella povera fantasia edifica, per
così dire, sul sodo; ma molte altre volte, anzi il più delle volte,
fabbrica in aria. L'Innominato s'è convertito: ha fatto benissimo;
ma sarà poi convertito davvero? e, dico, si mantiene? L'Innominato
si mette la carabina ad armacollo: _Ohi! ohi! ohi! cosa vuol farne
di quell'ordigno costui?_ L'Innominato ha dato le prove della sua
conversione: sia ringraziato il cielo! ma se quella marmaglia di
bravacci venisse a sapere?..... se s'immaginassero che fosse stato
lui, Don Abbondio, a convertirlo?... se presi da un furore bestiale,
per vendicarsi, lo martirizzassero?...[93] E Don Rodrigo? che dirà
mai di tutta quella faccenda Don Rodrigo?... E se monsignore venisse
a sapere tutto l'imbroglio del matrimonio?... _Ah! vedo che i miei
ultimi anni ho da passarli male!_ Risoluto, prima di tutti e più di
tutti, di fuggire davanti all'esercito invasore, vede, _in ogni strada
da prendere, in ogni luogo da ricoverarsi, ostacoli insuperabili e
pericoli spaventosi_. E gli si riaffaccia l'idea del martirio. E gli
rispunta dentro il dubbio circa la conversione dell'Innominato. E
gli viene il sospetto che l'Innominato voglia fare il re e scendere
in campo a far la guerra anche lui, col duca di Savoja, col duca
di Mantova, con la Spagna e con l'imperatore. E sogna assalti e
battaglie, per quanto giuri a sè stesso che in una battaglia non ce lo
coglieranno; e si vede preso tra due fuochi. In mezzo alla desolazione
e al lutto della peste gli dà ancor noja la cattura di Renzo, e pensa
che questi potrebbe fare qualche sproposito da rovinar lui e sè stesso
insieme.
La paura di Don Abbondio è sempre composta di più paure diverse, le
quali, quando non sieno manifestate, son sottintese, appunto come
possono essere sottintese molte idee _in un periodo steso da un uomo di
garbo_. Queste molte paure non riescono mai a comporsi in una maniera
stabile di equilibrio o di dipendenza. Sono in un rimescolamento
continuo, si rincorrono, si urtano, si dànno il gambetto. Quella che
un momento fa era la prima, adesso è l'ultima; quella ch'era in coda
appare in testa. Talvolta entrano l'una nell'altra, come le favole
indiane e le scatole giapponesi. Mentre ha indosso quella paura così
grande per dover andare in compagnia dell'Innominato, ecco che dentro
a quella paura grande se ne caccia una piccola (dato che di piccole
per Don Abbondio ce ne possano essere), la paura che la mula abbia dei
vizii.
La paura di Don Abbondio diventa anche più comica quando si vede
che quelle tante cautele e quelle tante furberiole ch'essa gli vien
persuadendo, non solo non bastano a preservarlo da' guai, ma anzi
lo fanno incappare in qualche guajo più grosso di quelli che avrebbe
voluto fuggire. Facendo di tutto per non avere impicci, egli è sempre
negl'impicci. Don Abbondio non s'era fatto prete per vocazione;
s'era fatto prete con la speranza di _vivere con qualche agio_ e
quietamente, mettendosi _in una classe riverita e forte_, e non gli
era mai passato per il capo che a fare quel mestiere pacifico ci fosse
bisogno di coraggio. Quando, udita quell'umile confessione: «Torno a
dire, monsignore, che avrò torto io... Il coraggio, uno non se lo può
dare», il cardinale chiede a Don Abbondio: «E perchè dunque, potrei
dirvi, vi siete voi impegnato in un ministero che v'impone di stare in
guerra con le passioni del secolo?», Don Abbondio non può non pensare
tra sè che, appunto, quel ministero egli lo aveva scelto per non avere
a far guerra a nessuno, e con la speranza che nessuno volesse farla
a lui. E quando il cardinale, insistendo, gli domanda: Perchè questo
coraggio, che vi mancava, non l'avete chiesto a Dio, che certamente ve
l'avrebbe dato?, Don Abbondio potrebbe rispondere con tutta sincerità
che non pensò a chiedere a Dio una cosa di cui credeva di non avere
affatto bisogno. Ora, Don Abbondio, fattosi prete per amor della pace e
per evitare i pericoli, viene a trovarsi, appunto perchè è prete, nel
più gran travaglio, e nel più gran pericolo di tutta la sua vita. Per
fuggire a questo pericolo, Don Abbondio tradisce il proprio officio,
inventa pretesti per non maritare i due giovani, si rassicura alquanto
sentendosi più esperto delle cose del mondo, _più accorto_ che non
un ragazzone che pensa alla morosa; ma poi tanto male gli viene del
suo stesso rimedio, ch'egli si pente d'averlo adoperato, ed esclama:
_gli avessi maritati! non mi poteva accader di peggio_. Quando coloro
ch'eran fuggiti all'appressarsi dei lanzichenecchi tornano alle loro
case, Don Abbondio è l'ultimo a seguirli, l'ultimo ad abbandonare
l'asilo che così liberalmente a tutti aveva offerto l'Innominato, e
questo per la speranza di assicurarsi meglio da' mali incontri: la
conseguenza si è che i primi tornati in paese gli portan via anche
quel poco che i lanzichenecchi gli avevan lasciato. Ha dunque ragione
Perpetua di dire che s'egli avesse un po' di coraggio avrebbe assai
meno guai; ma che ci fan le parole? il coraggio uno non se lo può dare.
La paura di Don Abbondio non è solamente comica, com'è quella di Sancio
Panza; è anche umoristica, e in grado superlativo. Don Abbondio e
Sancio son tutt'e due paurosi, ma la paura si atteggia in ciascun di
essi diversamente e in diverso modo si appalesa. Sancio non pensa a
nascondere la propria, ad accattarle scuse, ad ammantarla di decoro.
Egli la lascia vedere qual è, indipendente affatto dalla ragione,
subitanea ne' suoi investimenti, vile troppo nelle dimostrazioni e
negli effetti. Sancio parla molto e volentieri, e con certa sensatezza
grossolana, di solito; ma non gli viene in fantasia di fare il
chiosatore e l'interprete della propria paura e di raziocinarvi
attorno. Egli se la lascia venire addosso come un accesso di terzana,
e quando gli è passata, dà una scrollatina e non ci pensa più. Don
Abbondio che, o poco o molto, sa di latino, e deve, se non altro per
l'uso della confessione, avere qualche famigliarità con le sottigliezze
della casistica, e vorrebbe pur sapere chi fu Carneade, Don Abbondio
tiene un altro procedere. Egli converte la paura in prudenza, anzi in
sapienza; riesce a farsi di una debolezza una virtù, di una vergogna
un onore. _Initium sapientiae timor Domini:_ non si può, slargando
un poco il concetto, pensare che la sapienza consiste appunto nella
paura? Altri l'ha fatta ben consistere nell'inerzia, e altri ancora
nell'ignoranza. Gran giudizio bisogna avere, e gran pazienza, chi vuol
vivere in questo mondo e tirare innanzi! Credere di potergli tener
testa, di vincerlo, di mutarlo, è idea da matti. Non sapete quanto
il mondo è più forte di voi? Non sapete che ha il diavolo dalla sua?
Dunque? Dunque per non uscire con l'ossa rotte bisogna tenersi in una
specie di _neutralità disarmata_, tergiversare, dissimulare, scansare,
inchinarsi, cedere, nascondersi, e, in caso di necessità estrema,
mettersi col più forte[94]. Ricordate che tornando bel bello dalla
passeggiata, per quella stradicciuola di montagna, Don Abbondio, prima
d'incontrarsi coi bravi, buttava con un piede verso il muro i ciottoli
che gli facevano inciampo al cammino? si può credere che sieno stati
quelli i soli ostacoli che in sessant'anni di vita egli abbia rimosso
da sè con animo deliberato, con fare risoluto.
Don Abbondio finisce che forse non sa più nemmeno d'essere quel pauroso
che tutti vedono in lui. Oltre di ciò, dato alla paura il titolo di
prudenza e di sapienza, egli non ha più nessuna ragion di nasconderla;
anzi ne ha parecchie di lasciarla vedere, come una virtù da farsene
bello, e acquista il diritto di censurare chi non si regola come lui,
chi manca di giudizio, chi compera _gl'impicci a contanti_. La propria
paura, o prudenza che s'abbia a dire, Don Abbondio l'ha in conto di
cosa, non solo ragionevole e confacente, ma legittima e giusta; e
perciò strasecola quando il cardinale gli dice sul viso che anche a
costo della vita avrebbe dovuto fare il proprio dovere: «Monsignore
illustrissimo, avrò torto. Quando la vita non si deve contare, non
so cosa mi dire». Quanto questa paura è diversa da quella che così
poveramente (bisogna proprio dir così) fu descritta da Teofrasto!
quanto è diversa da quella che porse inesauribile materia di riso sulle
scene antiche e moderne!
Ma la paura di Don Abbondio tocca il più alto grado dell'umore quando
noi consideriamo com'essa contrasta con quel carattere sacerdotale che
dovrebbe essere il proprio carattere di lui, con quell'officio che egli
tiene assai più che non l'eserciti. Qui abbiam risoluto, anzi violento,
il contrasto fra il reale e l'ideale; e per questo rispetto il
colloquio fra Don Abbondio e il cardinale, colloquio che parve alquanto
lunghetto, alquanto fuor di proposito, a più d'uno, è di capitale
importanza, e serve mirabilmente a dare spicco ai due personaggi, a
compierne l'immagine morale. Meno ancora che al soldato, è lecito al
prete d'aver paura. Il prete parla (o dovrebbe parlare) in nome di
una potestà talmente superiore ad ogni potestà terrena; ha (o dovrebbe
avere) un'idea così sicura e così efficace della santità del dovere;
stima (o dovrebbe stimare) così poco ogni bene e vantaggio mondano e la
vita medesima; spera (o dovrebbe sperare) un premio talmente superiore
a tutto quanto può perder quaggiù; che qualsiasi atto o pensiero di
viltà in lui appare una contraddizione irriducibile, un controsenso, un
assurdo. Ora, Don Abbondio è la negazione vivente, parlante, operante
dello spirito sacerdotale, quale appunto il cardinale l'intende, e
quale dev'essere inteso. Don Abbondio dovrebbe somigliare in qualche
modo, sia pur lontano, al cardinale; e non solo non gli somiglia, ma ne
dissomiglia tanto che non arriva mai nè a capirlo, nè a indovinarlo.
Così stando le cose, com'è che Don Abbondio non ci diventa odioso?
Com'è che quelle stesse mancanze che, commesse da un altro,
provocherebbero il nostro biasimo, e non altro che il nostro biasimo,
commesse da lui provocano il nostro riso, e quasi non altro che il
nostro riso? Perchè saremmo così poco indulgenti con altri e siamo così
indulgenti con lui? La ragione è facile a dire. Don Abbondio è uno di
coloro a cui si perdona volentieri perchè veramente non sanno quello
che fanno. Se egli mancasse al proprio dovere avendo di quel dovere
un'idea chiara e precisa; se facesse il male sapendo con certezza di
fare il male; noi non avremmo più qui nè un personaggio umoristico, nè
un personaggio comico, avremmo un personaggio tragico, o semitragico.
Don Abbondio rimane comico ed umoristico a dispetto di tutto, perchè se
ha degli scrupoli, se ha qualche piccolo rimorso, crede in bonissima
fede di farli tacere con quel suo argomento che _quando si tratta
della vita_...; argomento che a suo modo di vedere (e presumibilmente
anche di altri) non ammette replica. Don Abbondio riman comico ed
umoristico perchè voi vedete ch'egli è un fanciullon tanto fatto, a
cui qualcuno, non si sa chi, insegnò a dir messa, e che a sessant'anni
sonati, nonostante i suoi vanti di accortezza, egli è quasi quel
medesimo fanciullone che potev'essere a venti. Come vorreste fare a
prendervela con uno cui Perpetua fa lezione tutto il santo giorno,
ammonendo e rimbeccando, rinfacciandogli d'essersi ridotto _a segno che
tutti vengono, con licenza, a..._, risolvendo, nell'ora del pericolo,
_di prenderlo per un braccio, come un ragazzo, e di trascinarlo su per
una montagna_? con uno che s'accorge, tra meravigliato e stizzito, che
le ragioni del cardinale sono le ragioni stesse di Perpetua? con uno
che, starei per dire, ha fatto il prete senza saperlo? _Le parole che
sentiva, eran conseguenze inaspettate, applicazioni nuove, ma d'una
dottrina antica però nella sua mente, e non contrastata._
Don Abbondio è in qualche modo il rovescio di Don Chisciotte. Don
Chisciotte è sempre pronto ad adempiere i proprii doveri chimerici,
checchè gliene avvenga: Don Abbondio cessa di adempiere i proprii
doveri reali alla prima minaccia di un pericolo. Don Chisciotte, per
troppo animo, passa oltre il segno: Don Abbondio, per manco d'animo,
non ci arriva. Don Chisciotte si trincera nell'ideale e non vede più il
reale: Don Abbondio si trincera nel reale e non vede più l'ideale. Ma
Don Chisciotte e Don Abbondio hanno anche una parte in comune. Entrambi
vivono in un mondo pel quale non son fatti e che si burla di loro. Ad
entrambi le cose riescono al contrario dell'intenzione.
A finire di rendere umoristica la figura di Don Abbondio abbiamo il
fatto che colui che la formò e le diè vita v'infuse dentro qualche
parte di sè. Non paja questa una proposizione temeraria, e tanto meno
irriverente. Gli umoristi non sarebbero più umoristi se volessero
esclusi sè stessi da quel riso ch'e' suscitano e comunicano altrui. Il
Manzoni mise di sè più e meno in parecchi de' suoi personaggi: in Don
Abbondio mise della propria inoperosità, della propria esitazione, del
proprio amor della quiete, del proprio orror degl'impicci; e basta. Ci
mise delle sue debolezze; non ci mise nessuna delle sue virtù[95],
Quello di Don Abbondio è uno dei caratteri più meravigliosi che l'arte
abbia mai creati; di una coerenza e consistenza rara; di una vivezza,
di una sincerità, di un'evidenza impareggiabile; senza rabberciature,
senza rinfianchi posticci. L'animo del lettore vi penetra e vi si
assesta come una mano in un guanto. Ognuno sente che Don Abbondio
dev'essere stato sempre lo stesso; ognuno è persuaso che egli rimarrà
sempre lo stesso. «No signore, no signore», dice quella furbacchiona
dell'Agnese al cardinale, «non lo gridi, perchè già quel ch'è stato
è stato; e poi non serve a nulla; è un uomo fatto così: tornando il
caso, farebbe lo stesso». E noi ne siam più che sicuri, nonostante la
compunzione di cui lo vediamo penetrato dopo la predica del cardinale,
e nonostante quella sua promessa, fatta proprio con animo sincero in
quel momento: «Non mancherò, monsignore, non mancherò, davvero».
I casi, gl'incontri e le situazioni in cui viene a trovarsi Don
Abbondio sono i più felici che si possano immaginare, non per lui
poveraccio, ma per mettere in mostra e sviscerare il suo carattere. I
bravi, Renzo, Perpetua, l'Innominato, il cardinale, Agnese, lo forzano
a scoprirsi da tutte le parti, a diventar trasparente come un vetro; e
non v'è godimento che superi questo di poter guardare un'anima per di
fuori e per di dentro, senza che pure una menoma particella ne rimanga
occulta od oscura. La struttura della persona morale è in Don Abbondio
così perfetta che finisce a suggerire la struttura della persona fisica
e a mettervela davanti agli occhi. La figura di Don Abbondio non è
descritta, e nemmeno, a dir proprio, abbozzata: appena un cenno qua e
là come per caso: due folte ciocche di capelli, due folti sopraccigli,
due folti baffi, un folto pizzo, tutti canuti, sparsi su una faccia
bruna e rugosa. Riavutosi dalla peste, Don Abbondio appare come _una
cosa nera_, pallido e smunto, con due povere braccia che ballan nelle
maniche, _dove altre volte stavano appena per l'appunto_. E questo
è il tutto. Quanti altri romanzieri avrebbero impiegate le due e le
tre pagine per ritrarcelo intero quel prete, dalla testa ai piedi,
senza lasciarne una sola fattezza! Ma col Manzoni non c'è bisogno.
Qui l'anima crea il suo corpo; e noi vediamo, proprio vediamo, un Don
Abbondio tozzo e corpulento, che suda e sbuffa a montare sopra una
mula, con una facciola tonda, con una espressione bonaria, quando non
gliela rannuvoli la stizza o la paura, con un portamento sommesso, con
un'andatura stracca e impacciata: così come, dal più al meno, lo videro
tutti coloro che lo ritrassero col pennello o col bulino[96].
Don Abbondio è riuscito uno di quei tipi estetici di cui si dice con
ragione che hanno in sè molta più verità che non l'essere vivo e reale,
fatto d'ossa e di polpe. E Don Abbondio è diventato uno di quei simboli
di cui noi ci gioviamo, parlando, per significare una condizione di
umanità che non si potrebbe significare altrimenti senza molte parole.
Perciò Don Abbondio è immortale.


ESTETICA E ARTE DI GIACOMO LEOPARDI

CAPITOLO I.
DELLA PSICHE DI GIACOMO LEOPARDI.
Le idee estetiche del Leopardi non sono sistematicamente ordinate, non
formano un corpo di dottrina compiuto e coerente; ma sono, nulladimeno,
in armonia fra di loro; governano, entro certi limiti, il sentimento e
il pensiero di lui, e, sino ad un certo segno, ne spiegano l'arte. Il
poeta nè si arroga di risolvere, nè a dir vero si propone il problema
estetico; non istituisce indagini particolari; non tenta analisi
sottili; ma pone alcuni principii, enunzia alcune opinioni, ch'egli non
troppo si cura di conciliare con la rimanente sua credenza filosofica,
e non sono forse con essa troppo conciliabili. Il poeta, ch'è sensista
e materialista in tutto il rimanente di quella sua credenza, ci
si scopre idealista in estetica. Il poeta che in tutt'altro è un
pessimista, riesce quasi in estetica un ottimista.
Prima di esporre le idee estetiche del Leopardi, prima di ricercare
la qualità e la estensione del suo sentimento estetico, sarà opportuno
che noi ci formiamo un concetto sommario della costituzione psichica di
lui, senza rinunziare però a far di essa quel più particolare e minuto
studio che a volta a volta potrà essere richiesto dall'argomento.
Ricordo, sebbene possa parere superfluo, che le credenze e le
dottrine di ciascun uomo, e le stesse mutazioni di quelle, sono sempre
determinate e condizionate dalla struttura e dall'atteggiamento della
psiche, e che la psiche, di cui ci è ignoto il principio e l'essenza,
opera, per dirla col linguaggio dei matematici, _in funzione_
dell'organismo corporeo, dell'_ambiente_ fisico e morale, dei casi e
delle esperienze della vita.
Non si dà tipo psichico puro, coeguale in tutto all'uno o
all'altro di quegli schemi che la psicologia immagina per comodità
di classificazione e di studio. Il Leopardi è manifestamente
un _intellettuale_; ma non un intellettuale schietto: bensì un
intellettuale appassionato. Intellettuale egli è perchè vive moltissimo
nel pensiero e poco o punto nell'azione, e il pensiero esercita per
sè stesso, senza assoggettarlo a un fine pratico qualsiasi; ma poichè
soffre, si lamenta, si ribella troppo più di quanto s'addica a un
intellettuale risoluto, egli, sott'altro aspetto, si dà a conoscere
quale un _sensitivo_. E sensitivo è; di quella delicatissima,
esagerata, morbosa sensitività che di ogni più lieve tocco si offende,
e d'onde si genera nella psiche uno stato di _sentimentalità_ abituale,
intendendo con tal nome certa mescolanza e fluidità di sentimenti
vaghi, teneri, dolorosi, immaginosi, che non si appuntano in nessun
oggetto particolarmente determinato e chiaramente percepito, ma si
rigirano in sè medesimi e in sè medesimi si consumano.
Lo spirito del Leopardi non si può veramente dire uno spirito
unificato. Le tendenze divergenti e contrastanti sono in esso assai
numerose, e se l'arte ci guadagna, la ragione ci perde. L'intelletto
è nel poeta, sino ad un certo segno, sistematizzato ed autonomo;
ma sistematizzato ed autonomo è pure in lui il sentimento; e i due
sistemi e le due autonomie non troppo si accordano fra di loro. Così,
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