Foscolo, Manzoni, Leopardi: saggi - 07

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simboli, non lascia bene intendere che si voglia. Si sente picchiare
agli usci un idealismo nuovo; ma non ci ha detto ancora quale sia il
suo ideale.
Così che confusione grandissima, d'onde stanchezza, malumore,
inquietezza, e, se non volontà, voglia di un qualche avviamento
ragionevole e di un qualche rinnovamento: condizione di spiriti e di
cose molto favorevole a chi con avvedutezza, con coraggio, con forza si
mettesse alla testa delle turbe esitanti, e, senza voltarsi indietro,
gridasse con aria inspirata: Seguitemi; o a chi, voltandosi indietro,
con aria compunta suggerisse: Torniamo al Manzoni.
Ora, che cosa significherebbe un ritorno sì fatto? Sarebb'esso un bene?
sarebb'esso un male? e come s'avrebbe a fare?
Il ritorno al Manzoni dovrebbe significare primamente detestazione
e rifiuto di tutte quelle forme e tendenze d'arte che il Nordau, nel
suo notabile libro sulla degenerazione presente, ha con esagerazione
manifesta, ma non senza giusto motivo, considerate e condannate come
immorali, insensate e perniciose; corrompitrici, nonchè delle anime,
dell'arte stessa; nate esse stesse dalla degenerazione, e sollecitanti
e aggravanti la degenerazione. Dovrebbe poi significare ritorno alla
ragione, alla sincerità, all'onestà; restaurato il senso della realtà,
della convenienza, della misura; l'arte rimessa in armonia coi grandi
interessi umani; la semplicità, la naturalezza, sostituite alla
_preziosità_ e alla stravaganza; un linguaggio piano, terso, dritto,
efficace, sostituito agli avviluppamenti, agl'imbellettamenti, agli
sdilinquimenti della locuzione e dello stile.
Ciò posto, qual è quel uomo di sano intelletto che, per tutti questi
rispetti, non giudicasse un bene, e un gran bene, il ritorno al
Manzoni? Ma qual è, d'altra banda, quell'uomo di sano intelletto, il
quale non volesse avvertire, in pari tempo, che il ritorno pieno,
cieco, incondizionato, sarebbe sicurissimamente un male, e un gran
male?
Abbiam veduto che il Manzoni si accosta in più occasioni, e in più
modi, alle scuole fiorite dopo il romanticismo. Egli è realista
quanto si può, ragionevolmente, desiderare che sia. Egli è molto
migliore psicologo di molti psicologisti che forse lo sdegnano. Egli
usa nel descrivere quella proprietà e precision di linguaggio che
mostran la via al plasticismo. Egli da molte bande rompe i confini
del romanticismo comune. Perciò facilmente, e da molte bande, si può
tornare a lui, e ci si può trovar d'accordo con lui; ma questa stessa
facilità può riuscire pericolosa, se altri dimentichi che il Manzoni
non risponde, non può rispondere, in fatto d'arte, a tutti i nostri
giusti desiderii, a tutti i nostri legittimi bisogni.
Certo, il Manzoni è un artista vero, un artista grande; e sono ben
poco accorti coloro che, sotto quegli andamenti suoi, così semplici
e bonarii, non iscorgono l'arte meravigliosa e squisita, che sempre
illuse e sempre disperò gl'imitatori; ma bisogna pur dirlo, la sua
natural timidezza gli nocque, gli nocquero i troppi rispetti, e i
troppi scrupoli, e le troppe esitazioni. Non tutta l'arte fu in lui;
e quella che fu, egli intese a restringere entro confini un po' troppo
angusti, a farla men padrona di sè e de' suoi movimenti di quanto possa
piacere a chi ha dell'arte il culto libero e vivo. Quella tendenza
si fece in lui sempre più imperiosa e più forte con gli anni; e
forse, insieme con la cresciuta incontentabilità, fu tutto un nodo di
renitenze e di ripugnanze religiose e morali quello che gli strinse
l'animo, e lo ridusse, tanto innanzi tempo, alla inoperosità ed al
silenzio. L'arte ha bisogno di libertà; il che non vuol già dire,
come pur giova credere a tanti, che le si debbano concedere tutte le
licenze. La sobrietà le giova; ma non l'astinenza; e il cilizio la
uccide. Non è necessario che l'arte sia presuntuosa, impertinente,
sfacciata; ma non è bene che sia tutta e sempre troppo modesta,
docile, casalinga. Può impersonarsi in Beatrice; non deve impersonarsi
in Lucia; e Lucia non deve vietare a Saffo di lasciarsi vedere e di
parlare. Tutto ciò che nell'anima umana, e nella vita umana, è passione
impetuosa, disordinata e traboccante energia, ribellione santa e
superba, splendore e pompa di bellezza e di fortuna, sogno, stranezza,
mistero, l'arte del Manzoni non l'espresse, e, veramente, non lo poteva
esprimere; ma non c'è ragione perchè l'arte non lo esprima; anzi lo
deve esprimere. Se si va dietro al Manzoni di dopo i _Promessi Sposi_,
si rischia molto di riuscire alla negazione dell'arte.
Il Manzoni mise fuori dell'arte, e volle quasi sbandita dalla
coscienza, tutta una parte di umanità, tutta una età della storia,
il mondo antico e pagano: ma l'arte si muove liberamente nel tempo e
nello spazio, e una delle virtù sue più mirabili consiste nel potere
rifar vivo ciò ch'è morto, presente ciò ch'è remoto, e deve sdegnare
ripugnanze che, comunque nate e cresciute, offendono lei e offendono
l'umanità tutta quanta. Invano romanticismo e realismo, concordi in
questo, ci contendono l'antico. Noi ripenseremo e ravviveremo nell'arte
anche l'antico, e la stessa mitologia; non più al modo puerile dei
classicisti, fingendo presente un passato irrevocabile; ma facendo
scaturire una vena di alta e d'inesauribile poesia dallo scontro di
un passato che l'anima sente passato con un presente che l'anima sente
presente. Nulla v'è più poetico delle memorie: nulla più poetico di un
mito ellenico ripensato da una coscienza del secolo XIX, e più, credo,
del XX.
Torniamo al Manzoni per la lingua; ma non lo seguitiamo in ogni suo
passo, e non ci fermiamo ad ogni sua fermata. Facciamo pur getto
della _langue marbrée_ dei decadenti; invochiamo un nuovo Molière
che volga in burla il nuovo _langage précieux_ e ne faccia perdere il
gusto; accettiamo di buon grado la lingua piana, schietta, comunemente
intesa, che il Manzoni adopera e raccomanda; ma non assoggettiamo
troppo duramente l'artista letterario al giogo pesante dell'uso; ma
non dimentichiamo che la lingua atta ad esprimere il pensiero e il
sentimento di tutti può non essere interamente atta ad esprimere il
pensiero e il sentimento di alcuni; ma lasciamo che lo scrittore possa
talvolta forzar l'uso della lingua, come il pensatore forza l'uso del
pensiero; e lasciamo ch'egli cerchi, disotterri ed inventi per produr
nuove impressioni, per ispianar la via a nuove idee.
Torniamo alla prosa del Manzoni, e imitiamola, se siamo da tanto;
ma non crediamo però che sia tutta perfetta, e conveniente a tutte
le materie. Prosa mirabile, senza dubbio, e rara troppo nella nostra
letteratura, anzi unica, ma un pochino povera di colore e di suono, e
che si risente un po' troppo della riservatezza e della timidità del
suo autore.
Torniamo al concetto che il Manzoni ebbe di una letteratura popolare,
che tragga vivezza, forza, fecondità dall'essere in istretta comunione
col sentimento e con la vita del popolo: sarà questo il modo migliore
di combattere il nuovo bizantinismo; ma riconosciamo che, come non
tutta la musica può essere popolare, così non tutta la letteratura può
essere popolare; e che quando vengano a mancare certe forme dell'arte
più squisite e più peregrine, tutta l'arte pericola, tutta l'arte
decade.
Torniamo ai _Promessi Sposi_, perchè la sazietà e il disgusto di tanta
letteratura pazza, sconcia, brutale, quanta ne dilagò per l'Europa in
questi ultimi anni, ci rende forse più che mai disposti a gustarne le
immortali bellezze. Torniamo ai _Promessi Sposi_, e ridiventiamo magari
manzoniani, ma con discernimento e con misura, senza preoccupazioni
estranee e dannose all'arte, senza ricadere in quella cieca e stupida
idolatria contro cui, sono più che vent'anni, si levò giustamente il
Carducci. Torniamo ai _Promessi Sposi_; ma badiamo che se essi sono,
com'ebbe a dire il De Sanctis, una «pietra miliare della nostra nuova
storia», la nostra storia ha pure altre pietre miliari, e che questa
non deve esser l'ultima, non deve segnar fine alla via. Torniamo ad
essa, non per fermarci, ma per ritrovare la strada smarrita.


PERCHÈ SI RAVVEDE L'INNOMINATO?[84]

I.
Lessi già in più di un libro, e udii dire da molte persone, fra le
quali non mancavano critici patentati, che il carattere dell'Innominato
pecca d'inverisimiglianza e d'inconsistenza; che il Manzoni, nel
colorirlo e nell'atteggiarlo, non addimostrò quel conoscimento
sottile e profondo della umana natura, del quale porgono così larga
testimonianza molti altri caratteri del suo immortale romanzo; che
in ispazio di una notte, o poco più, un uomo non può rinnegare tutto
sè stesso, non muta essere, non si trasforma di scelerato in santo;
che il ravvedimento dell'Innominato somiglia troppo ad uno di quegli
espedienti sbrigativi di scena mercè dei quali si spinge al fine
desiderato un'azione che di per sè non potrebbe arrivarci[85].
Tali, o poco dissimili affermazioni, specie se accompagnate da quel
tono di saccenteria imperativa con cui, molte volte, la critica
supplisce alla ragion che non ha, possono far colpo sull'animo di
chi si lascia impressionare facilmente, o non è preparato abbastanza
a discuterle; ma non credo, davvero, che sieno responsi d'oracoli,
e non vi si possa contrastare. E poichè esse s'appuntano contro un
libro il quale (checchè siasi detto e fatto) non è men vivo oggi di
quello fosse mezzo secolo fa, e domani potrebbe essere anche più vivo
di oggi; contro un romanzo il quale, dileguata oramai, o stando per
dileguare, l'affannosa tregenda di tanti romanzi veristici, realistici,
naturalistici, nati, intristiti, morti nel corso di pochi mesi, o di
qualche anno, appare agli occhi degli spassionati, comunque credenti
o miscredenti, più vero, più reale, più naturale di tutti essi; io non
credo possa parere fatica sprecata quella di discuterle un tantino, e
di cercare quale sia la loro sostanza e quanta la ragionevolezza.
Un primo dubbio da chiarire è questo: possono o non possono accader
nell'uomo mutamenti interiori e repentini tali, che il pensare, il
volere e l'operare di lui prendano, a muover da certo punto, in modo
risoluto e durevole, un indirizzo in tutto diverso da quello seguito
prima, e, talora, a quello di prima contrario? I fatti rispondono
anticipando le dottrine, e rispondon che sì. Innumerevoli sono, a
cominciar da San Paolo, i casi di subitanea conversione e di subitaneo
ravvedimento; e se di molti si può dubitare che seguissero proprio
così come la tradizione li narra, non è possibile dubitare di tutti.
Chi prima avversava una fede, se ne fa, inaspettatamente, seguace;
chi si ravvoltolava nelle sozzurre, si leva ed è mondo: i persecutori
si trasformano in patroni; i carnefici invocano il martirio. Quanti
furono che, come l'apologista Arnobio nel III secolo, e Santa Chiara
da Rimini nel XIII, si convertirono per aver creduto d'udire una voce
dal cielo che li ammoniva! Quanti che da un umile atto, da un'unica
parola di carità, furono richiamati indietro, tolti da quella via
di perdizione su cui stavano per muovere gli ultimi passi! Giovanni
Colombini, che prima fu tristo uomo e mondano, e poi istitutore
dei gesuati e santo, si ravvide un giorno leggendo per caso, mentre
gli allestivano il desinare, la Vita di Santa Maria Egiziaca, gran
peccatrice e grandissima penitente. Jacopone da Todi, veduto il cilicio
che, sotto le ricche vesti, copriva il corpo della moglie morta, nauseò
le vanità tutte ond'erasi compiaciuto, disse addio al mondo, diventò
il _giullare di Dio_. Di Corrado, fratello del duca Lodovico d'Assia,
e cognato di Santa Elisabetta d'Ungheria, si narra che fosse uomo oltre
ogni dire superbo e violento. Nel 1232 poco mancò che non ammazzasse di
propria mano, in pieno capitolo, l'arcivescovo di Magonza. Un giorno,
trovandosi egli nel suo castello di Tenneberg, in compagnia di molti
seguaci, i quali tutti, dal più al meno, eran con lui di un animo e
di un procedere, una donna di mala vita osò chiedergli l'elemosina; e
avendola egli trattata assai duramente, con rinfacciarle la sozzura
ond'era lorda, quella non rispose se non dipingendo la miseria e
l'orrore della propria vita. Scosso dalle parole della peccatrice,
il superbo riprenditore passò la notte in angosciosa vigilia, fatto
subitamente conscio di sè, ripensando il passato e l'avvenire,
considerando quant'egli fosse più malvagio e più vile di lei, e più di
lei immeritevole di perdono. La mattina di poi seppe che molti de' suoi
seguaci e ajutatori avevano pur passata la notte a quel modo; e allora,
fatto proponimento di mutar vita, si recarono da prima, tutti insieme,
al santuario di Gladenbach, poi a Roma, a ottenervi la remissione dei
loro peccati. Ho riferito un po' per disteso questo esempio, perchè
si può notare in esso qualche conformità col caso dell'Innominato; ma
tralascio di recarne altri, parendomi che non bisognino[86].
Del suo personaggio dice il Manzoni, che un nuovo _lui_, cresciuto a
un tratto terribilmente, era sorto a giudicare l'antico. Come poteva
sorgere questo nuovo _lui_? Come può dentro ad un uomo nascerne, per
così dire, un altro, che si sovrappone e talvolta si sostituisce al
primo? Così al cardinal Federigo, come alla buona donna che va a tôrre
Lucia in castello, il Manzoni fa dire che Dio ha toccato il cuore
all'Innominato; e fa dire al popolo che la conversione dell'Innominato
è un miracolo. E questa a dir vero è la spiegazione più ovvia e più
semplice che ne possa dar quella fede che immagina un intervento della
Provvidenza divina in tutti i fatti, sien essi naturali o umani, di
cui non si scorga palese a primo aspetto la cagione, il principio,
lo svolgimento. Ed è questa la spiegazione che meglio appaga la
mente degli uomini dal Manzoni rappresentati nel suo romanzo, e, con
certe modalità, la mente ancora dello stesso Manzoni; ma non è, di
certo, la sola che se ne possa dare; e non è a creder che, rifiutata
questa, il fatto della subita conversione appaja, o inaccettabile,
o inesplicabile, mentre può escogitarsene un'altra, che il Manzoni
stesso deve avere, per lo meno, intravveduta, e che forse avrebbe
potuto parergli, esaminandola alquanto, non dirò sufficiente, ma quasi
sufficiente. Il mio assunto è questo: che il Manzoni delineò e colorì
il carattere, narrò la storia del suo personaggio per modo, che il
fatto del costui ravvedimento si può intendere come l'esito naturale
di tutto un processo psichico naturale; come una peripezia che non
contraddice, ma si conforma alle leggi psicologiche, ed in ispecie a
quelle che governano la formazione, la consistenza, le variazioni del
carattere; come un fenomeno insomma che può avere del mirabile, ma che
ad esser chiarito non abbisogna punto della ipotesi del miracolo[87].
Studii oramai non più nuovi hanno dissipati molti errori e molte
illusioni circa la presunta identità e la presunta immutabilità della
persona morale umana. L'_Io_, quell'_Io_ che fu creduto un tempo
indivisibile e invulnerabile, fisso in mezzo al perpetuo rigirarsi
delle immagini, delle idee, degli affetti, come il punto matematico
nel centro della ruota, fu veduto spostarsi e scorrere, e sdoppiarsi,
e sfaldarsi in mille guise. Furon vedute nella stessa persona fisica,
più persone morali, quando solo diverse, quando affatto contrarie,
incalzarsi a vicenda, e l'una sopraffare e soppiantar l'altra con
certa regola di ritorno e d'alternazione, e l'una non serbar ricordo
dell'altra, e un uomo stesso esser più uomini in uno. Fu veduto
sotto l'influenza della suggestione, o sotto quella del magnete,
l'uomo trasmutarsi d'indole; perdere in certa qual maniera sè stesso;
detestare quanto aveva prediletto, prediligere quanto aveva detestato;
pensare, volere, operare ciò che in condizione propria e normale non
avrebbe mai pensato, voluto, operato. L'anima apparve, come il corpo,
un organismo delicato e complesso e mobile, perpetuamente in corso
di farsi, disfarsi, rifarsi; e il carattere non sembrò più quella
congegnatura rigida e stabile ch'era stato tenuto in passato.
Che una di quelle che si dicono, e non a torto, crisi morali possa,
se profonda e gagliarda abbastanza, mutare intimamente un carattere, è
cosa riconosciuta dai più, e non difficile da spiegare, quando si pensi
che così fatte crisi turbano, più o meno, l'equilibrio delle forze
interiori, ne alterano l'aggiustamento e la coordinazione, sprigionano
occulte energie, dànno moto e vigore a tendenze rimaste insino allora
sequestrate e dormenti. Ma può anche darsi che la crisi produca un
mutamento grande nel modo di pensare, di volere e di operare di un uomo
senza troppo mutarne il carattere; senza provocarvi, cioè, una vera
sostituzione di elementi fondamentali nuovi a elementi fondamentali
vecchi; senza scomporre quell'assodata compagine di facoltà maestre,
di passioni maestre, di tendenze maestre entro cui, per così dire, la
vita dello spirito si scomparte e s'inquadra. L'uomo si torrà dalla via
insino allora battuta, e, risolutamente, prenderà a batterne un'altra,
o divergente da quella, o anche opposita a quella; ma procederà per la
via nuova mosso in somma, nel fondo, da quelle stesse energie che già
lo fecero camminar nell'antica, e serbando fors'anche l'andatura di
prima. Si vedrà, poniamo, il soldato impaziente e impetuoso, mutato in
santo, portare la tonaca, a un dipresso, come un tempo la cotta d'armi;
serbare sotto il cappuccio un cipiglio non molto dissimile da quello
ch'era solito lasciar vedere sotto la celata, e muovere alla conquista
del cielo con, in parte almeno, i procedimenti usati nella espugnazione
delle città. Fanfulla frate e Fanfulla guerriero sono sempre in
sostanza lo stesso Fanfulla[88].
Non tutti i tempi sono egualmente favorevoli al prodursi delle grandi
crisi morali, sia della prima, sia della seconda maniera che ho
ricordata; ma favorevolissimi tra tutti son quelli ne' quali segua
alcun generale e profondo rivolgimento delle cose umane e degli umani
pensieri, con sostituzione di nuovi ad antichi ordini, instaurazione
di nuove credenze o restaurazione d'antiche, innovamento grande d'arti
o di scienze. Onde il vero, se bene inteso, delle parole di Origene,
quando afferma che Dio nella prima età della Chiesa soleva, con segni
e con visioni, produrre negli animi umani súbite commozioni e repentini
travolgimenti.
A chi tanto conosca di storia quanto si richiede a mezzana cultura io
non ho bisogno di dire come e per qual cagione i tempi dell'Innominato
fossero favorevoli a sì fatte crisi, specie se d'indole religiosa.
Ch'egli passi per una crisi per cui molti altri passarono, e prima e
dopo di lui, non è da meravigliare; ma bisogna vedere com'ei ci passi,
e notare, innanzi tutto, che la crisi sua è, non della prima, ma della
seconda maniera. In fatto, dopo il ravvedimento, egli appare sì un
uomo nuovo, ma non già così nuovo come sembra a primo aspetto; anzi,
nel nocciolo, rimane, direi, l'uom di prima; e non può non rimanere,
perchè il ravvedimento suo (così mi sforzerò di provare) nasce, per
molta parte, da quelle stesse qualità e forme del suo carattere che in
passato fecero di lui un superbo, un prepotente, un malvagio.

II.
Vediamo, in prima, quale sia il carattere del nostro personaggio.
«Fare», narra il Manzoni, «ciò ch'era vietato dalle leggi, o impedito
da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui,
senz'altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti,
aver la mano da coloro ch'eran soliti averla da altri; tali erano state
in ogni tempo le passioni principali di costui. Fino dall'adolescenza,
allo spettacolo ed al rumore di tante prepotenze, di tante gare,
alla vista di tanti tiranni, provava un misto sentimento di sdegno
e d'invidia impaziente. Giovine, e vivendo in città, non tralasciava
occasione, anzi n'andava in cerca, d'aver che dire co' più famosi di
quella professione, d'attraversarli, per provarsi con loro, e farli
stare a dovere, o tirarli alla sua amicizia. Superiore di ricchezze e
di seguito alla più parte, e forse a tutti d'ardire e di costanza, ne
ridusse molti a ritirarsi da ogni rivalità, molti ne conciò male, molti
n'ebbe amici; non già amici del pari, ma, come soltanto potevan piacere
a lui, amici subordinati, che si riconoscessero suoi inferiori, che gli
stessero alla sinistra».
Già da queste parole si possono rilevare gli elementi essenziali e
le fattezze più spiccate del carattere dell'Innominato. La facoltà
maestra di quest'uomo è la volontà, una volontà potentemente organata e
indomabile, che coordina, disciplina, unifica tutta la vita interiore;
una volontà secondata dall'_ardire_ e dalla _costanza_. Egli è uno di
quei forti perseveranti il cui esempio acquistò fede al detto _volere
è potere_, e certo non uno dei minori. Egli è uno di quegli atleti
pugnaci che soggiogano e foggiano a lor talento gli uomini e le cose
in mezzo a cui vivono, ma che sono anche atti, a un buon bisogno, a
soggiogare e rifar sè medesimi. Quest'uomo nutre in sè due passioni
principali che fanno muovere la sua volontà, e dànno indirizzo e
norma alle azioni: un orgoglio irrepugnabile e uno sfrenato amore
d'indipendenza.
Certo, prima del ravvedimento, egli è un malvagio; ma la malvagità di
lui non è, direi, originaria, costituzionale, immediata. È piuttosto
una malvagità avventizia, accidentale, secondaria; promossa bensì dalla
tracotanza e dall'orgoglio; ma nata, più che da altro, da un senso di
disagio e di disgusto, dallo spettacolo di quelle tante prepotenze,
di quelle tante gare, di que' tanti tiranni, che gli aveva acceso
dentro un sentimento misto di sdegno e d'invidia. Ora lo sdegno, quello
sdegno, in altra condizione di tempi e di luoghi, e quando non gli
fosse mancato alcun ajuto opportuno, avrebbe potuto divenir principio
di tutt'altro volere e di tutt'altra vita.
Egli fece il male; ma non si vede propriamente in lui quella
dilettazione istintiva e continuata e coerente del male che suole
esser propria de' veri e grandi scelerati. La forza sua, di solito,
«era stata ed era ministra di voleri iniqui, di soddisfazioni atroci,
di capricci superbi»; ma non sempre era od era stata tale. «Accadde
qualche volta che un debole oppresso, vessato da un prepotente,
si rivolse a lui; e lui, prendendo le parti del debole, forzò il
prepotente a finirla, a riparare il mal fatto, a chiedere scusa; o,
se stava duro, gli mosse tal guerra, da costringerlo a sfrattar dai
luoghi che aveva tiranneggiati, o gli fece anche pagare un più pronto
e terribile fio. E in quei casi, quel nome tanto temuto e aborrito
era stato benedetto un momento: perchè, non dirò quella giustizia, ma
quel rimedio, quel compenso qualunque, non si sarebbe potuto, in que'
tempi, aspettarlo da nessun'altra forza, nè privata, nè pubblica».
Quando una società non dia luogo se non a due condizioni d'uomini,
soverchiatori in alto, soverchiati in basso, gli è quasi impossibile
che gli orgogliosi, i forti, i violenti non si sforzino di essere
piuttosto tra' primi che tra' secondi, e non riescano, anche se non
isprovveduti di qualche virtù, malvagi affatto. L'Innominato diventò
tiranno; un pochino, e forse molto, per gusto proprio; ma più per non
essere tiranneggiato da altri: e seguì a lui ciò che di solito segue
a chi si pone sullo sdrucciolo del mal fare, dove un passo ne tira
un altro, e bisogna andar sino in fondo.[89] Il male è un terribile
_consequenziario_, e le colpe hanno come una tendenza a innanellarsi
l'una nell'altra e formare una strana catena, che più s'allunga e più
si fa tenace. La sterminata catena delle colpe sue l'Innominato può
scorrere con lo sguardo tutta intera, anello per anello, «indietro
indietro, d'anno in anno, d'impegno in impegno, di sangue in sangue, di
scelleratezza in scelleratezza»: la peccaminosa sua vita si svolge come
un sorite insino al giorno in cui egli s'avvede che le premesse son
false. In quel giorno il ravvedimento si compie.

III.
Questo ravvedimento ha una occasione immediata e una preparazione
remota.
L'occasione immediata la porge la vista di Lucia, _rannicchiata in
terra... raggomitolata nel cantuccio, col viso nascosto tra le mani, e
non movendosi, se non che tremava tutta_; la porgono quel suo rizzarsi
inginocchioni, e quel giunger le mani, e quelle semplici parole: _son
qui: m'ammazzi_; lo spettacolo doloroso della debolezza innocente, che,
sopraffatta ed offesa dalla violenza, non insorge, non impreca, ma si
umilia, e chiedendo misericordia, perdona. A quella vista, a quelle
parole, il fiero uomo non può non avvedersi di una come sproporzione
mostruosa, ch'è tra la forza adoperata da lui, e la condizione di
colei contro cui l'ha adoperata. E quella sproporzione deve apparirgli
come una viltà, tanto più spiacente al suo orgoglio, quanto il suo
orgoglio è più rigido e il suo coraggio più schietto; quel coraggio,
che per addimostrarsi nella forma sua più risoluta e più piena aveva
bisogno del _pericolo vicino_ e del _nemico a fronte_. Forse per
la prima volta in sua vita egli sente in confuso che la violenza
rimpicciolisce l'uomo, sebbene, a primo sguardo, paja ingrandirlo;
sente che la generosità è ancor essa una forma della forza, anzi è la
forma più magnifica; sente come una mal definita vergogna, naturale in
uomo nobile e d'alti spiriti, d'inferocire contro chi non è in grado
nè di offendere, nè di difendersi, simile a quella da cui avrebbe
potuto esser colto un cavaliere antico in sull'atto d'assaltare con
l'armi un inerme. E di quella vergogna nasce una certa esitazione,
come un leggiero smarrimento, che gli traspare dal volto, che gli
stempera il suono della voce, e di cui Lucia ben s'avvede. In cospetto
di un nemico forte e superbo egli sarebbe rimasto l'uomo di prima e
di sempre; al che accenna egli stesso, quando di Lucia va dicendo tra
sè: «Oh perchè non è figlia d'uno di que' cani che m'hanno bandito!
d'uno di que' vili che mi vorrebbero morto! che ora godrei di questo
suo strillare; e in vece...» In vece, in cospetto di quella povera
creatura che mai non l'offese, e contro cui non ha, egli, nè può avere,
ragione d'odio o di sdegno alcuna, l'uomo violento si sente disarmato,
perplesso, e come involto in un viluppo mal cognito di pensieri e di
sentimenti, nel quale più non sa rinvenirsi. E più debbono crescere la
irresolutezza e la vergogna di lui l'angosciosa instanza e la sommessa
fiducia con cui la poveretta gli si raccomanda, ricordandogli ch'e'
può ordinar ciò che vuole e dispor come vuole, e che tutto dipende da
un suo cenno; scongiurandolo di non soffocare una buona ispirazione;
mostrandosi persuasa ch'egli ha buon cuore, che sentirà compassione
di lei, che non vorrà farla morire. Qui segue un fatto psichico
delicatissimo, ma pressochè necessario, data la natura dell'uomo,
nobile intimamente, e non intimamente ribalda. Egli è uso a concedere
ajuto a chi ne lo chiede. Un segno della sua potenza, di quella
potenza ch'è manifestazione ed esplicazione della volontà sua e del suo
orgoglio, fu sempre la prontezza con cui concesse altrui la protezione
invocata. Ne soccorse tanti, a ragione o a torto, in sua vita! perchè
proprio a Lucia dovrebbe ora ricusar la sua grazia? Forse per rispetto
all'impegno preso con Don Rodrigo? Ma, dirà egli stesso, chi è Don
Rodrigo? E l'uomo forte e superbo si sentirà naturalmente inclinato
ad imporre la volontà propria piuttosto al potente che al debole. Fare
stare a segno i potenti e i prepotenti era una sua passione antica.
Lucia ha prodotto nell'animo dell'Innominato una impressione profonda
e nuova. L'immagine di lei lo persegue, non lo lascia prender sonno:
a un certo punto egli grida: «Non son più uomo, non son più uomo!»
Ma s'inganna così pensando e dicendo. Egli è uomo ancora, e, nella
sostanza, è lo stesso uomo di prima. Lucia non ha fatto se non
isconnettere e dissestare alquanto la compagine dello spirito di lui,
in guisa che vi si possa inserire alcun che di nuovo, e gli elementi
del carattere possano stringersi in nuova coordinazione[90].
Ma il ravvedimento, cui porge immediata occasione Lucia, ha pure una
qualche preparazione remota. Per essere esatti, bisogna dire che da
Lucia la compagine psichica dell'Innominato riceve un colpo sodo e
repentino; ma che, già da più tempo, quella compagine aveva cominciato
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