Foscolo, Manzoni, Leopardi: saggi - 17

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nella elegia del Leopardi! Anche a lui appare in sul mattino quella che
prima gl'insegnò amore, ma trista gli appare,
e quale
Degl'infelici è la sembianza.
Appressando la destra al capo di lui, e sospirando, ella gli chiede se
viva e se ancor serbi di lei alcuna ricordanza. Il poeta non si avvede
alla prima ch'ella è morta, e la va interrogando: lo lascerà ella
un'altra volta? e che le avvenne? e che la strugge internamente? Ma
súbito la infelice fanciulla lo fa avveduto del vero:
Son morta, e mi vedesti
L'ultima volta, or son più lune.
E quand'egli le domanda se mai ebbe in core favilla d'affetto o
di pietà per l'amante infelice, affinchè ne lo soccorra almeno la
rimembranza ora che loro è _tolto il futuro_, quella non cela il
sentimento antico, e gliene porge in pegno la mano, ch'egli, palpitando
d'affannosa dolcezza, ricopre di baci. Ma a qual pro? Ella gli
ricorda ch'è morta, ch'è fatta ignuda di beltà, e che non è più luogo
all'amore:
E tu d'amore, o sfortunato, indarno
Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.
Nostre misere menti e nostre salme
Son disgiunte in eterno. A me non vivi.
E mai più non vivrai: già ruppe il fato
La fè che mi giurasti.
E pronunziate queste estreme parole, si dilegua.
Allo stesso modo Consalvo sa di perdere Elvira per sempre, di partirsi
da lei per sempre; ma egli sente pure di dover molto alla morte, la
quale _ruppe il nodo antico alla sua lingua_, e gli ottiene da Elvira
la prima, sola ed ultima prova d'amore; quel bacio che a lui finalmente
fa credere di non essere indarno vissuto, e segna l'unico giorno felice
della sua vita. Ond'egli muore contento e con ragione esclama:
Due cose belle ha il mondo:
Amore e morte.
Nel _Sogno_ la morte pon fine all'amore: nel _Consalvo_ la morte fa
manifesto e quasi appagato l'amore, e gli ultimi
Palpiti della morte e dell'amore
si confondono nel medesimo petto. In un quadro di Nicola Meldermann si
vede la morte che sorprende due innamorati e violentemente ne scioglie
l'amplesso: nel _Consalvo_ la morte stringe il nodo che sciorrà subito
dopo.
Ma la morte che con l'amore qui fortuitamente s'incontra, pronuba
inaspettata, ha pur con l'amore, secondo il pensier del Leopardi,
affinità di natura, ed è fra loro concordanza d'intenti. Dall'amore
Nasce il piacer maggiore
Che per lo mar dell'essere si trova;
la morte
Ogni gran male annulla.
Dunque, rispetto al fine ultimo della vita, che pel Leopardi non
può essere, come abbiam veduto, se non la felicità, esse operano
conformemente. Ancora, chi è fortemente preso d'amore, non cura la
vita, affronta ogni periglio, e sente in petto un nuovo desiderio di
morire:
Tanto alla morte inclina
D'amor la disciplina.
Disse in un luogo lo Schopenhauer di non intendere perchè certe
coppie d'innamorati, che potrebbero, sciogliendosi da ogni ritegno,
e posponendo ogni altra considerazione, godere felicemente dell'amor
loro, eleggano piuttosto di finire insieme l'amore e la vita[344]. Il
Leopardi pensò a sciogliere in qualche modo questa difficoltà, dicendo
che l'uomo innamorato, dappoichè conosce fatta inabitabile a sè la
terra
senza quella
Nova, sola, infinita
Felicità che il suo pensier figura;
e presente in suo cuore le procelle che per ragione di quella
desiderata felicità gli si susciteranno contro; brama sottrarsi a
tanto travaglio e raccogliersi in porto. A commento delle quali cose
tutte è pur da notare che l'amore, quando sia molto gagliardo, importa
dedizione incondizionata, annientamento di sè in altrui, come di
asceti in Dio; una morte a tutto quanto non sia l'oggetto della sua
adorazione: e che l'atto generativo, il quale è il fine primo e ultimo
(per quanto alcune volte occultato) dell'amore, importa, come sanno i
fisiologi, un processo organico di disintegrazione, ch'è quanto dire
un principio di morte; onde per alcuni animali di efimera vita l'ora
dell'amore e l'ora della morte fann'uno.
Il desiderio della morte non fu sentimento ignoto agli antichi; e ne
fanno fede molte testimonianze di poeti, alcune dottrine di filosofi,
e certe sanzioni di legislatori. Gli stoici glorificarono il suicidio.
Egesia di Cirene fu detto il consigliator della morte, e Cicerone
scrisse: _Tota philosophorum vita commentatio mortis est_. Seneca,
in una delle sue epistole, biasima il desiderio della morte: _Nihil
mihi videtur turpius quam optare mortem_; ma in altra scrittura
persuade quel desiderio ai felici, anzi ai felicissimi: _Felicissimis
mors optanda est_. I magistrati di Massilia e dell'isola di Ceo
pubblicamente concedevano la cicuta a coloro che provavano aver giusta
ragione di voler morire; e furon celebri quei sodali della morte che
nell'antica Alessandria deponevano, levandosi da un banchetto, il
fardello della vita[345].
Ma col mutar delle età esso muta forma e carattere: non è men frequente
e più intenso. _Infelix ego homo_, esclama San Paolo, _quis me
liberabit de corpore mortis hujus?_ e in altra occasione: _Mihi enim
vivere Christum est, et mori lucrum_: parole ripetute poi da infiniti.
E chi non sa che si dovettero cercare ripari e rimedii alla smania del
martirio?
Nei tempi modernissimi tale sentimento appare assai più diffuso, non
dirò che nei primi secoli del cristianesimo, ma che in tutti i secoli
dell'antichità pagana, e una intera letteratura è nata da esso.
Ma col mutar delle età esso muta forma e carattere: non è nei Greci
quale poi nei cristiani; non in questi ed in quelli quale ora nei
moderni. Al pagano, il desiderio della morte era, generalmente
parlando, instillato da una infelicità ben definita, la quale
avvelenava, non la vita in genere, ma solo una particolar vita; e però
i magistrati di Massilia e di Ceo volevano dimostrato il diritto alla
morte. Nel cristiano, il desiderio della morte temporale formava come
dire il rovescio del desiderio della vita eterna, era inseparabile
da esso, e, a rigore, più che desiderio di morte, dovrebbe dirsi
desiderio di vita. Nell'uomo moderno esso nasce, quanto alla forma sua
più caratteristica e più notabile, dal sentimento della irreparabile
nullità della vita, e dalla convinzione che la vita, generalmente
considerata, non meriti d'esser vissuta.
Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . .
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, nè di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
. . . . . . . . . . . . . . .
Al gener nostro il fato
Non donò che il morire[346].
Non andremo cercando nei fratelli spirituali del Leopardi, quali la
finzione o la realtà li produsse, la variata espressione di questo
medesimo sentimento, e ci contenteremo di notare quanto il desiderio
della morte sia stato lungo e tenace nel nostro poeta. Già nel 1817
egli era stato vicino ad ammazzarsi per disperazione d'amore. Nel
luglio del 1819, scrivendo al Giordani, diceva di voler gittare in
breve la vita; e in una lettera del dicembre, allo stesso, di sentirsi
morto in questo deserto del mondo[347]; e qualche settimana più tardi,
ne' versi _Ad Angelo Mai_ scriveva:
Morte domanda
Chi nostro mal conobbe e non ghirlanda.
Nella _Vita solitaria_ il poeta si augura pronta morte, e accenna al
ferro liberatore. Nelle _Ricordanze_ parla e riparla della _invocata
morte_:
E già nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d'angosce e di desio,
Morte chiamai più volte, e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana
Pensoso di cessar dentro quell'acque
La speme e il dolor mio.
Bruto fa l'apologia del suicidio; Porfirio ne sostiene la
legittimità[348]; Saffo emenda in sè stessa il _fallo del cieco
dispensator de' casi_. Se
È funesto a chi nasce il dì natale[349],
ben allora soltanto l'uomo si potrà dire felice, quando la morte lo
sani di ogni dolore[350].
Molti poeti espressero profondo terror della morte; il Baudelaire
scrisse:
J'ai peur du sommeil comme on a peur d'un grand trou,
Tout plein de vague horreur, menant on ne sait où;
Je ne vois qu'infini par toutes les fenêtres[351].....
Al Leopardi quel terrore non istrinse il petto:
Giammai d'allor che in pria
Questa vita che sia per prova intesi,
Timor di morte non mi stringe il petto.
Oggi mi pare un gioco
Quella che il mondo inetto,
Talor lodando, ognora abborre e trema,
Necessitade estrema;
E se periglio appar, con un sorriso
Le sue minacce a contemplar m'affiso[352].
Piuttosto gli strinse il petto il timore di dover vivere a lungo, e
così fatto timore espresse più volte. In Napoli, essendo già prossimo
alla sua fine, lo tormentava il pensiero d'avere a vivere forse
un'altra quarantina d'anni. Parole, parole! potrebbe dire qualcuno:
immaginazione di poeta che s'infinge di non temere ciò che teme
realmente, e di desiderare ciò che in verità non desidera. Non in tutto
parole, non in tutto immaginazione. Anche senza l'ajuto degli argomenti
di Epicuro, l'uomo può ridursi a guardar la morte con occhio sereno,
può giudicarla un bene e come un bene desiderarla.
Nel novembre del 1819 il Leopardi credette d'aver perduto perfino il
desiderio della morte[353]; ma fu errore, simile a quello che gli fece
credere a più riprese d'essersi chiuso alla bellezza e all'amore. Egli
non istette mai lungo tempo senza nutrire quel desiderio nel petto; e
però nella poesia che tutto raccoglie e rafferma il suo pensiero in sì
fatto argomento, egli poteva scrivere una dozzina d'anni più tardi:
E tu cui già dal cominciar degli anni
Sempre onorata invoco,
Bella Morte, pietosa
Tu sola al mondo dei terreni affanni
Se celebrata mai
Fosti da me, s'al tuo divino stato
L'onte del volgo ingrato
Ricompensar tentai,
Non tardar più, t'inchina
A' disusati preghi,
Chiudi alla luce omai
Questi occhi tristi, o dell'età reina[354].
Qui la morte è salutata regina e dea; e così la salutò un altro poeta
pessimista, il Leconte de Lisle:
. . . Divine mort, où tout rentre et s'efface,
Affranchis-nous du temps, du nombre et de l'espace,
Et rends-nous le repos que la vie a troublé.
Il Leopardi meritò veramente il nome di amator della morte, e di
amatore fedele. Che se ne' suoi versi e nelle sue prose troviamo qua
e là qualche amara parola, non dobbiamo vedere in ciò più infedeltà
di quanta siam usi vedere nelle querimonie e nei dispetti degli
innamorati. Nella canzone _All'Italia_ la morte è detta _passo
lacrimoso e duro_; e _abisso orrido immenso_ la dice l'errante pastore
dell'Asia. Nella _Palinodia_ vecchiezza e morte son giudicate _miserie
estreme_. Ma che perciò? Il gallo silvestre, il quale richiama gli
uomini dal sonno alla vita, promettendo loro per più tardi quella
morte in cui sempre e insaziabilmente riposeranno, il gallo silvestre
canta essere la morte l'ultima causa dell'essere, il solo intento della
natura[355].
Il Baudelaire, che teme e odia la morte, deturpa e disonora la morte:
il Leopardi, da vero amatore, l'abbellisce e la india. E ciò prova in
lui, fra l'altro, un invincibile senso e bisogno di bellezza. Egli par
che s'avvegga talvolta che la natura non si curò di velare di amabili
sembianze la morte, e domanda perchè di tanto almeno non sia stata
generosa ai mortali:
Ahi perchè dopo
Le travagliose strade almen la meta
Non ci prescriver lieta? anzi colei
Che per certo futura
Portiam sempre, vivendo, innanzi all'alma,
Colei che i nostri danni
Ebber solo conforto,
Velar di neri panni,
Cinger d'ombra sì trista,
E spaventoso in vista
Più d'ogni flutto dimostrarci il porto?[356]
Ma ciò che la natura non fece, fa il poeta, e la morte diventa per
opera sua
Bellissima fanciulla
Dolce a veder.
Solo in due casi si diparte il poeta da questi sentimenti e da queste
immagini, e sente orrore e terror della morte: quand'essa ci strappa
dalle braccia un essere amato; e quando incrudelisce in giovinezza e
in beltà, e scerpa il fiore delle nuove speranze. Il poeta apostrofa la
natura:
Come potesti
Far necessario in noi
Tanto dolor, che sopravviva amando
Al mortale il mortal?
A sè medesimo si può bene desiderare la morte; ma ai proprii cari non
già, la cui dipartita fa l'uomo _scemo di sè stesso_[357]. Il poeta
sente nelle proprie sue carni quegli angosciosi brividi, quei _sudori
estremi_ che travagliarono la _cara e tenerella salma_ della donna
adorata[358], spasima pel _chiuso morbo_ che uccise la Silvia[359].
La canzone _Per una donna malata di malattia lunga e mortale_
incomincia:
Io so ben che non vale
Beltà nè giovanezza incontro a morte,
E pur sempre ch'io 'l veggio m'addoloro.
La morte è per sè stessa benefica;
ma sconsolata arriva
La morte ai giovanetti, e duro è il fato
Di quella speme che sotterra è spenta[360].
Ad _Amore e Morte_ il poeta pone come epigrafe il verso di Menandro:
Muor giovane colui che al cielo è caro;
ma la sorte di chi muor giovane, se appar felice all'intelletto, non
può non empiere di pietà il petto più saldo e più costante.
Mai non veder la luce
Era, credo, il miglior. Ma nata, al tempo
Che reina bellezza si dispiega
Nelle membra e nel volto,
Ed incomincia il mondo
Verso lei di lontano ad atterrarsi;
In sul fiorir d'ogni speranza, e molto
Prima che incontro alla festosa fronte
I lugubri suoi lampi il ver baleni;
Come vapore in nuvoletta accolto
Sotto forme fugaci all'orizzonte,
Dileguarsi così quasi non sorta,
E cangiar con gli oscuri
Silenzi della tomba i dì futuri.
Questo se all'intelletto
Appar felice, invade
D'alta pietade ai più costanti il petto[361].
Il poeta rimane esterrefatto quando vede distrutto dalla morte il
miracolo della bellezza[362], e non sa darsi pace delle speranze
innanzi tempo recise:
Quando sovvienmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura[363].
Ciò nondimeno, come per Dante amore e cor gentil sono una cosa,
similmente sono pel Leopardi una cosa cor gentile e desiderio di
morte. In un gruppo famoso il Thorwaldsen mostrò abbracciate la Morte
e l'Immortalità: il Leopardi, non potendo questo, mostrò abbracciati la
Morte e l'Amore[364], degnò la Morte di stato divino, ne fece una delle
due belle cose del mondo.

CAPITOLO VI.
CLASSICISMO E ROMANTICISMO DEL LEOPARDI.
Questo titolo potrà sembrare un po' strano a coloro che giudicano
classicismo e romanticismo cose talmente nemiche e contraddittorie da
non potere, in un medesimo animo, l'una accompagnarsi con l'altra; e
a coloro che avendo sempre udito a parlare del Leopardi come di un
purissimo classico, non possono credere che siavi in lui alcun che
di non classico: ma nè il classicismo e il romanticismo sono così
esclusivi l'uno dell'altro come da molti si stima; nè il Leopardi è
propriamente quale da molti s'immagina.
Del classicismo del Leopardi s'è tanto parlato che qui se ne potrà far
giudizio senza troppo lungo discorso, e senza ripetere cose ripetute
assai volte, e note oramai universalmente. I primi studii del poeta
ebbero l'avviamento strettamente classico che gli studii dei giovani
solevano ancora avere a que' tempi; e la così detta conversione
letteraria di lui fu, più tardi, in massima parte, un ritorno spontaneo
alle pure fonti dell'eloquenza e dell'arte antica. Tutti sanno di
quegli scritti che lo fecero venire in fama di filologo valentissimo
in Italia e fuori d'Italia; tutti sanno delle versioni dal greco e
dal latino, e di quelle odi greche, e di quell'inno a Nettuno, che,
contraffatti da lui, furono scambiati per sinceri dagl'intendenti.
Critici diligenti e minuti notarono nei versi e nelle prose di lui
i moltissimi luoghi che a ragione o a torto (non sempre a ragione di
sicuro) si possono credere suggeriti o inspirati dalle due letterature
di Grecia e di Roma; e fu ne' suoi versi distinta una prima maniera,
che sarebbe latina, da una seconda, che sarebbe greca; e tutta greca
fu detta la prosa; e come il Manzoni fu salutato capo della scuola
romantica in Italia, così della classica fu salutato capo il Leopardi,
fatto dell'uno il contrapposto e la negazione dell'altro. Egli stesso,
il poeta, ebbe a dire, non una, ma più e più volte, che, a paragon
degli antichi, i moderni scrittori gli parevano o piccoli, o poveri, o
falsi.
Il sentimento che Dante, ponendo il piede sulla soglia dell'età nuova,
esprimeva nel verso
Lo secol primo quant'oro fu bello,
il Leopardi nutrì lungamente nell'animo, e con assai più desiderio e
fervore che non potess'essere nel maggior padre di nostra favella.
Innamoratissimo di bellezza, egli credette che della bellezza gli
antichi avessero avuto miglior senso di noi, e fattone più retto
giudizio. Innamoratissimo di virtù, credette gli antichi fossero stati
più virtuosi, e per questo, e per altro ancora, assai più felici;
onde all'età presente, pessima sott'ogni aspetto, non altro può
rimanere che il desiderio[365]. Nascevagli talvolta un dubbio, che
questo esaltare il passato a paragon del presente possa essere effetto
di mera illusione[366]; ma la illusione tenevasi cara e non sapeva
spogliarsene. Ricordando i _vetusti divini, a cui natura parlò senza
svelarsi_, egli prorompe in un grido di desiderio e di rimpianto:
Oh tempi, oh tempi avvolti
In sonno eterno![367]
e sciogliendo un inno ai patriarchi,
molto
Di noi men lacrimabili nell'alma
Luce prodotti,
egli, salutata in passando l'_erma terrena sede_ ove fu commessa
la prima colpa, assai più loda l'aurea età, la quale non fu sogno
d'antichi poeti, ma felicità vera, per troppo breve tempo conceduta ai
mortali[368]. Tanto ride agli occhi di questo innamorato di giovinezza
la giovinezza del mondo: tanto lo invaghisce il dolce lume della
bellezza!
E già lamentava (sin da quel tempo!) la decadenza degli studii
classici in Italia. Di Roma diceva che il latino vi si studiava
un po' più che nell'Italia alta, ma che il greco v'era quasi
sconosciuto, «e la filologia quasi interamente abbandonata in grazia
dell'archeologia»[369]. Ma in nessun'altra città d'Italia lo studio
delle lingue e delle lettere classiche vedeva così negletto come in
Milano, dove difficilmente, a quanto si afferma, si sarebbe potuta
trovare «una edizione di un classico greco o latino, posteriore al 5
o al 6 cento»[370]: e della causa dell'antichità facendo in certo qual
modo la propria, diceva non essere il suo nome in Firenze, in Torino,
in Bologna, in Napoli, «così profondamente disprezzato come nella dotta
e grassa Lombardia»[371]. V'è qualche esagerazione in questi giudizii;
ma è da por mente che in quegli anni appunto Milano era diventata come
la metropoli del romanticismo italiano. Di ciò non sembra s'avvedesse
allora il Leopardi, il quale badava a dire che in Milano non si
parlava d'altro che lingua e poi lingua, e che in ciò consisteva
tutta la letteratura milanese[372], e che in Lombardia non era quasi
altro studio che di pedanterie[373]. Egli aveva gli occhi e l'animo
così fissi nell'antichità che mal poteva discernere e peggio poteva
giudicare ciò che gli si moveva da presso e allo intorno; e se faceva
disegno di scrivere un romanzo storico, lo vagheggiava _sul gusto
della Ciropedia_; e se meditava di narrare le vite dei più eccellenti
capitani e cittadini italiani, si proponeva modelli Cornelio Nepote e
Plutarco[374]. Ciò nondimeno, quando la Grecia insorse, vendicandosi
in libertà, e, in grazia delle antiche memorie, l'ellenismo ribollì
in petto ai letterati di tutta Europa, non si sa che il Leopardi si
scaldasse molto; e anzi il modo ond'ei parlò della morte del Broglio,
in una lettera che ho già avuto occasione di ricordare, lascia credere
che si scaldasse pochissimo[375].
Il 20 di gennajo del 1821, il Giordani scriveva a Ferdinando
Grillenzoni: «Io sono del suo parere quanto a Leopardi: e l'animo e
le meditazioni e le letture di quel rarissimo e stupendissimo giovane
son troppo classiche: è impossibile che divenga romantico»[376].
Passi per le letture e le meditazioni; ma quanto all'animo, c'è a
ridire. Romantico il Leopardi non diventò; ma ben fu avvertito dal
Carducci che se il Manzoni «ridusse a mano a mano alla determinatezza
classica e alla più netta rappresentazione del reale il vaporoso
e divagante romanticismo», il Leopardi per contro «romantizzò, per
così dire, la purità del sentimento greco»[377]. Certo il Leopardi si
sarebbe sdegnato se a qualcuno fosse venuto in mente di chiamarlo un
romantico; ma ciò non prova ch'egli non avesse del romantico alcune
parti, senza ch'ei sel sapesse. Anche il Byron ebbe a sdegnare quel
nome. Nel marzo del 1818 il Leopardi mandò allo Stella la prima parte
di un _Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, ovvero
intorno alle osservazioni del Cav. Ludovico di Breme sulla poesia
moderna_[378]; ma quella prima parte non fu mai stampata, e la seconda
non fu mai scritta; e dalla lettera con cui il poeta accompagnava
l'invio all'editor milanese si comprende soltanto ch'egli non la
pensava come l'autore delle _Osservazioni_[379]. In sul principio del
1810 il poeta volgeva in mente un trattato della condizione allora
presente delle lettere italiane, il quale avrebbe dovuto porgere «il
fondamento e la norma di qualunque cosa» gli fosse avvenuto di comporre
in séguito[380]; e a più riprese ne rivedeva ed allargava il disegno,
lasciandone memoria nelle sue carte e in parecchie lettere, come di
cosa che gli stesse molto a cuore; ma senza andar mai più in là che il
disegno. Ci doveva, tra l'altro, discorrere dell'andamento preso dalia
letteratura _verso il classico e l'antico_, giudicandolo buono, anzi
necessario, in generale ed entro certi limiti, «ma inutile e dannoso
senza l'unione della filosofia colla letteratura, senza l'applicazione
della maniera buona di scrivere ai soggetti importanti, nazionali e del
tempo, senza l'armonia delle belle cose e delle belle parole...». Ci
si doveva raccomandare lo studio delle letterature moderne, per sapere
dov'è che noi le possiamo imitare. Ci si doveva ancora dimostrare «la
necessità di adattarsi al gusto corrente», «la falsità di ciò che forse
si giudica, che il buon gusto non si possa trovare in libri nazionali
e da contemporanei, l'uso costante di tutti i grandi scrittori di
scrivere per il loro tempo e la loro nazione, o greca, o latina ecc....
la discordia tra le nostre opere e quelle degli antichi, che vogliono
imitare, quando queste erano pel tempo loro, e le nostre per il tempo
degli antenati, quando a volerli imitare doveano effettivamente essere
per il presente ecc.»[381]. Questi pensieri, maturati e messi in carta,
secondo si ha ragion di credere, dopo il 1823, sono probabilmente
alquanto disformi da quelli espressi nella prima parte del Discorso
testè citato; ma quanto disformi, non siamo in grado ora di dire.
Comunque sia, se si toglie l'approvazione data a quell'andamento della
letteratura _verso il classico e l'antico_, io quasi non iscorgo in
essi opinione o giudizio in cui i romantici d'allora non potessero e
non dovessero consentire: e quando il poeta ricorda in più particolar
modo che gli antichi scrissero pei tempi loro, e che i moderni,
volendoli imitare davvero, dovrebbero scrivere pei proprii, sembra
d'udire il discorso di quegli apostoli della nuova scuola i quali
dicevano i Greci e i Latini essere stati i romantici dell'antichità.
Chi giudicasse il Leopardi un romantico in veste classica esagererebbe
di certo; ma chi dicesse che il classicismo di lui fu più di forma che
di sostanza, e che egli non fu quell'antico che a primo aspetto può
parere altrui, direbbe cosa, a mio credere, che ha molte parti di vero.
Se non fu un romantico, il Leopardi ebbe in sè del romantico assai più
di quanto potesse egli immaginare, assai più di quanto fu giudicato da
altri.
A persuadersene gioverà esaminare: 1º, l'uso che il poeta nostro fece
della mitologia; 2º, certi sentimenti e abiti mentali di lui; 3º,
certe opinioni e inclinazioni, certi giudizii e propositi: 4º, certi
elementi e caratteri d'arte. Da sì fatto esame si parrà, fra l'altro,
la gran forza di penetrazione di quelle idee madri del romanticismo, le
quali s'insinuarono più e meno anche in ispiriti che non parevan fatti
per doverle in alcun modo ricevere, e la gran forza di diffusione, e
direi quasi d'intossicazione ch'ebbero allora que' sentimenti. Al qual
proposito è pur da ricordare che, prima d'essere una dottrina e una
pratica d'arte, il romanticismo fu un'affezione degli animi, e, ancora,
che il romanticismo non fu di una sola maniera, ma di parecchie.
Cominciamo dall'uso della mitologia, dacchè fu la mitologia
(classica, s'intende) quella che diede modo alle due fazioni di meglio
distinguersi e contrapporsi, e che provocò le battaglie, non dirò più
importanti, ma più accanite e spettacolose. I classicisti vogliono
conservata all'arte la mitologia greca e latina, senza di cui credono
l'arte non possa sussistere: i romantici la vogliono affatto sbandita,
magari per sostituirgliene un'altra. Non dico già che l'amore o l'odio
alla mitologia basti a formare il classicista o il romantico; ma che
la mitologia e l'_antimitologia_ diventano per le due contrarie fazioni
quasi segnacolo in vessillo.
Ora, qual uso fa della mitologia il Leopardi? Un uso affatto diverso
da quello dei classicisti ortodossi. Il Foscolo e il Monti (non immuni,
del resto, nè l'uno nè l'altro, da romantica lue) trattano la mitologia
come cosa vera e presente; viva, non già solo nella memoria e, tutto il
più, nel sentimento, ma ancora nella credenza. Essi invocano gli dei
dell'Olimpo come se veramente fossero devoti alla lor religione, e ne
narrano i casi come se fossero avvenuti davvero. Il Leopardi considera
il mito come cosa irreparabilmente passata e perduta, e appunto
perciò lo rimpiange; rimpiange, cioè, le belle e dolci fantasie per
la cui virtù parve vivere la natura e conversare con l'uomo. Il canto
_Alla primavera o delle favole antiche_ è documento mirabile di quel
giudizio e di quel sentimento, a cui nessun romantico, che abbia fior
di ragione, può voler contrastare. Tale rimpianto ricorre con molta
frequenza nei poeti moderni; ma troppo avrebbe disdetto a classicisti
puri, i quali non potevano, senza strana contraddizione, deplorare la
morte di ciò che fingevano vivo e s'ingegnavano di tener vivo[382]. Ora
tra alcuni di quei moderni e il Leopardi è, per tale rispetto, questa
diversità, che essi, nel mito, lamentano piuttosto la perduta bellezza,
il Leopardi piuttosto la perduta illusione. Non volendo moltiplicare i
raffronti, mi contenterò di un pajo. Il Keats incomincia il suo poema
_Endymion_ con un saluto alla bellezza. Il Leconte de Lisle, come già
Alfredo De Musset, si rammarica di non essere nato in Grecia nel tempo
antico.
Iles, séjour des Dieux! Hellas, mère sacrée!
Oh! que ne suis-je né dans le saint Archipel
Aux siècles glorieux où la Terre inspirée
Voyait le ciel descendre à son premier appel![383]
Questo desiderio nasce in lui dall'amore e dall'entusiasmo della
_vittoriosa Bellezza_, innanzi al cui altare avrebbe voluto
prosternarsi adorando. Nel carme intitolato _Hypathie_, il poeta,
esaltando la paganità a fronte del cristianesimo, esclama:
l'impure laideur est la reine du monde,
Et nous avons perdu le chemin de Paros.
Les Dieux sont en poussière et la terre est muette:
Rien ne parlera plus dans ton ciel déserté.
Dors! mais vivante en lui, chante au cœur du poète
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