La Carrozza di tutti - 23

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primo atto, martirizzato nel secondo, e restituito alla famiglia nel
terzo, dopo esser stato creduto morto d'asfissia in una gola di camino,
e riversavano sopra di lui tutta la pietà affettuosa che avevano
insaccata in galleria. Ed egli accoglieva tutte quelle tenerezze senza
mostrare sul visetto nero alcuna maraviglia, tra indifferente e triste,
come se pensasse che quella sua avventura non era che la fortuna d'un
momento, che tutta quella bontà non gli toglieva di doversi levare la
mattina dopo avanti luce per rigirar la ruota della dura vita d'ogni
giorno. Dentro, alcuni guardavano la scenetta con simpatia, altri con
un sorriso un po' canzonatorio per quella effusione di sentimento, che
pareva loro un po' teatrale, e forse non meritata. Un signore rotondo,
che era accanto a me, mi tradusse in parole quel sorriso. — Eh, son
furbacchioni che vanno apposta all'uscita del teatro per sfruttare
la commozione del pubblico e scroccar qualche soldo! — Furbacchioni!
Oh diamine! Gli avrei voluto domandare se, quando egli aveva qualche
favore da chiedere a un suo superiore, giudicava una furberia disonesta
l'andarglielo a chiedere in un momento in cui gli paresse meglio
disposto a concederglielo. Che raffinate delicatezze pretendono da chi
non mangia abbastanza i delicati ben pasciuti! Continuavano intanto
le interrogazioni e le carezze al ragazzo, e non cessarono che in
piazza dello Statuto, dove la famiglia fece fermare per discendere.
Il padre lo baciò, le signore gli passarono la mano sotto il mento
senza timore d'insudiciarsi. — _Ciao, pover cit._ — Ricordati dove
stiamo di casa. — Bada a non lasciarteli prendere. — Alludevano ai
soldi che gli avevano messi in tasca. Infatti, appena furon discesi, il
ragazzo si cacciò una mano nel petto, tirò fuori il gruzzolo e contò
quanto c'era. — Ah, vede! — disse trionfando il mio vicino, — vede
il furfantello! Sono i soldi che gli stanno a cuore, non le carezze.
— È proprio vero, — gli risposi. — Ah ingordo quattrinaio! Esoso
Shylock! Vile adoratore dell'oro! — Il curioso fu che, pur comprendendo
l'esagerazione scherzosa, egli mi credette sincero in fondo, e sorrise
di soddisfazione. Razza d'un cane! Era il rappresentante d'una legione,
lui, e credette della sua legione me pure. E quando scesi, mi disse col
tono d'un confratello: — Buona sera! — Ma a me non venne alle labbra
che il saluto pisano: — Tremoti a chi t'affetta il pane.
*
La stagione, intanto, benchè non fosse ancor nevicato, incrudiva, e i
tranvai correvano la mattina presto fra gli alberi e lungo le siepi
dei viali biancheggianti di brina, come in mezzo a una maravigliosa
vegetazione di filigrana, e sotto i fili del telefono e delle lampade
voltaiche tutti bianchi, somiglianti a fasci di cordoni di lana; e
cominciavano i cocchieri e i fattorini a pestare i piedi e a mandar
fumo dalla bocca, mettendo mano alle provvigioni dei sagrati invernali.
Fu una di queste mattine brinate che, strizzato dall'aria fredda di
Via Garibaldi, non potendo più reggere sulla piattaforma, mi cacciai
dentro al carrozzone, dove mi trovai davanti la studentessa di medicina
e suo padre. Essa sedeva nell'angolo vicino all'uscio, bianca come la
filigrana degli alberi e i baffi paterni; e il suo bel viso d'angelo
imperturbato, invulnerabile dalle passioni umane, sorgeva con la
grazia d'un giglio fuor dal bavero a tromba della mantellina nera
che le avvolgeva il collo. Suo padre stava seduto col busto ritto e
col petto sporgente come doveva stare a cavallo alla testa del suo
reggimento. Non si parlavano. Gli occhi grandi e dolci di lei si
volgevano qua e là, secondo il solito, guardando tutti come se non
vedessero alcuno, ed io mi potei compiacere meglio dell'altre volte
nell'immaginazione del suo corpo vestito di bianco e coronato di rose,
disteso fra quattro ceri, con le mani incrociate sul petto virgineo,
che non conobbe l'amore. Prima che s'arrivasse a metà della via,
il carrozzone era pieno dentro e affollato sulla piattaforma. Molti
la guardavano; ma, come sempre, pareva che essa non se n'avvedesse.
Tutt'a un tratto s'animò, scosse vivamente il capo, sorridendo, come
se salutasse qualcuno a traverso al vetro dell'uscio, ed io vidi una
cosa strana, inaspettata, incredibile: un'onda di porpora le coperse
il viso fino alle tempie e i suoi occhi raggiarono d'una luce nuova,
vivissima, dolcissima, che mi fece l'effetto d'un prodigio, come
se in quel momento ella si fosse trasformata da statua di marmo in
donna di carne e di sangue. Suo padre pure aveva salutato con un
sorriso e uno sguardo amichevole. Mi voltai prontamente a sinistra
per vedere a traverso al finestrino chi avesse operato il miracolo; ma
mi trovai in faccia un maledetto vetro colorato con l'annunzio della
China-Migone, che intercettava la vista: vidi soltanto per aria, di là
dall'uscio, un cappello a cilindro che salutava, e che scomparve subito
come un'ala di falco. Ah, quel cilindro non poteva essere che d'un
giovane, quel giovane non poteva essere che un amante, quell'amante
non poteva essere che un fidanzato. Gli occhi di lei, che rimasero
fissi, sfavillando, sulla persona invisibile, la porpora che si fece
men viva, ma non disparve, e la bocca semiaperta e parlante che tradiva
il palpito accelerato del cuore, mi tolsero ogni dubbio. La vergine
morta innamorata! La vergine morta sposa! Era dunque possibile? E mi
riprese una così smaniosa curiosità di sapere chi fosse _lui_, che per
poco non commisi la villania d'alzarmi per guardar fuori. Ma non potei
rattenermi a lungo, e per levarmi quel chiodo, tirai il campanello
prima del tempo. — Chiunque sia — pensai — lo debbo riconoscere agli
occhi. — Il tranvai si fermò, apersi l'uscio.... e mi trovai davanti
il pittore in tuba, con un viso fiammeggiante, che diceva tutto. Fece
un atto di forte sorpresa, arrossendo, e mi balbettò con un sorriso
d'uomo impicciato: — Le darò poi una notizia. — Ah, non occorre! —
gli risposi scendendo. — Mi darà delle spiegazioni; la notizia la so
già, e me ne rallegro. — E lo lasciai lì stupefatto. Ma non quanto
me. Era lei, dunque, la dea misteriosa; lei, la vergine morta! Chi se
lo sarebbe sognato? Eppure, lo avrei dovuto sospettare fin dal giorno
ch'egli m'aveva fatto quella curiosa difesa delle studentesse di
medicina. Ma già, era uno di quegli indizi che si riconoscono a cosa
scoperta. Era lei! Il colosso s'era innamorato d'uno spirito. E perchè
no? Un matrimonio d'antitesi. Una bella coppia, del resto. E mi durò la
maraviglia per un pezzo. La vergine morta!... Ma che vergine morta? La
visione era mutata: ancora vestita di bianco e distesa come una morta;
ma con le guancie di porpora e con le braccia aperte.... Oh, tutt'altra
cosa. Infine, non poteva accader di meglio per il mio interesse di
scrittore. E me ne tornai a casa soddisfatto.
*
Ma non doveva finire così lietamente il mese di novembre. Finì con un
triste incontro. Fu l'ultimo giorno appunto, il giorno dell'uccisione
della contessa Lara. L'aria era nebbiosa, gli alberi del Corso San
Maurizio tutti bianchi come d'una incrostatura di sal gemma, e il
sole senza luce nel cielo grigio, come un occhio enorme di moribondo.
Salendo sul tranvai che andava verso il Corso Margherita, vidi dentro,
a traverso al vetro dell'uscio, il viso del signor Taddeo, e gli feci
un cenno di saluto. Egli mi guardò fisso e non mi salutò. Allora
soltanto, al secondo sguardo, lo vidi così miseramente mutato, che
m'attraversò la mente un pensiero improvviso come un fulmine: — La
bambina è morta! — Sporgendo il capo un po' a destra vidi anche il viso
della signora, e lo stesso sinistro pensiero mi ribalenò: — La bambina
è morta! — Erano pallidi, d'aspetto invecchiato, improntati d'una
tristezza tragica, immobile, disperata, somigliante all'espressione
di stupore infinito che è qualche volta sul viso dei cadaveri. Il mio
primo senso fu quasi di terrore, una tentazione di discender subito per
non vederli, per non sapere. Ma mi rattenne una speranza: che qualche
altra disgrazia li avesse colpiti, non quella: la perdita d'ogni avere,
la morte del padre o della madre, uno spavento mortale per qualche
tremendo pericolo corso. La bambina poteva essere nel carrozzone, non
in mezzo a loro come le altre volte, ma alla sinistra della madre, in
un posto che dal difuori io non potevo vedere. Ma benchè non avessi
che a fare un passo a destra per veder se c'era, non ebbi il coraggio
di farlo, come se avessi temuto di vedere accanto a lei, invece della
bambina, una piccola bara. Eppure, com'era possibile? Mi ricordai
dell'ultima volta che l'avevo vista, poco tempo addietro, così bella e
vispa, ammirata da tutti, splendente di salute e d'allegrezza in mezzo
ai suoi parenti trionfanti. E questo ricordo dandomi animo, feci il
passo a destra. Ah! non vidi la piccola bara; ma fu come se l'avessi
vista: vidi un mazzo di fiori sopra un ginocchio della mamma. Dei fiori
fra le mani, con quel viso, essa non li poteva tenere che per portarli
al camposanto, e su quella fossa. Soprastetti nondimeno, sperando
ancora, con viva ansietà, per vedere se si fermavano sul piazzale
delle Benne per prender la via del cimitero. Chi sa mai? Se non si
fermavano, poteva darsi che la bambina vivesse. Furono pochi minuti
d'aspettazione; ma mi parvero così lunghi! Tenevo gli occhi fissi su di
loro, e mi batteva il cuore. Il tranvai sboccò sul piazzale e svoltò
verso il Corso Margherita.... — È viva! — pensai. Ma in quel punto il
padre s'alzò col braccio teso, e intesi un suono di campanello che
mi fece rabbrividire come un — No! — inesorabile, risposto alle mie
parole. Il tranvai si fermò: i due sventurati mi passarono davanti; il
padre mi guardò e mi riconobbe. Io non osai di salutarlo. Egli mi diede
uno sguardo torvo e mi disse con voce aspra: — È morta, sa; — la madre
passò senza guardarmi.


CAPITOLO DODICESIMO.

Dicembre.
Col nuovo mese fui preso da un nuovo ardore di correre su tutte le
linee alla caccia dei personaggi e delle avventure, illuso da questa
ingenua speranza d'almanaccone superstizioso: che perchè avevo un
libro da finire m'avrebbe aiutato la fortuna, presentandomi casi e
scene singolari, adatti a dare alla _Carrozza di tutti_ una chiusa
di romanzo; e già covavo sotto a quella speranza la tentazione di far
tutto di fantasia l'ultimo capitolo, se la fortuna mi fosse fallita.
Incurabile malato di romanticismo, tormentato dal bisogno di cucinar
la natura in salsa piccante e di servirla in forme architettoniche
come i bodini nei pranzi di gala! Proprio all'ultimo mi ridava fuori
il malanno ereditario, dopo che m'ero attenuto fino allora all'intento
di ritrarre la vita libera e sparsa come me la vedevo correre intorno,
risoluto di fare un'opera informe, ma sincera. Ma l'illusione durò
pochi giorni, l'ardore di correre fu spento fin dal primo da una
di quelle solenni nevicate torinesi che fanno rientrare in petto i
propositi di vagabondaggio poetico come i nasi nei baveri e le mani
nelle tasche, e con quell'ardore pericoloso mi fuggì ogni tentazione di
chiusa romanzesca. E fu tanto meglio, credo, per il mio scartafaccio.
*
Nevicava fitto, a fiocchi larghi come scontrini di tranvai, la
lunghissima via Nizza era tutta coperta d'un tappeto bianco, che
smorzava il rumore dei carrozzoni nevosi, correnti sulle rotaie
invisibili, e in mezzo a tutta quella bianchezza alpina nereggiava come
un orso Tempesta, imberrettato e incappucciato, con tanto di guantoni
e di zoccoli, non mostrando del viso che il naso a pera e i baffi a
spazzola, agitati dal soffio d'un sagrato perpetuo. Se la pigliava coi
fiocchi che gli entravano in bocca, con gli spalatori che ingombravano
la strada, coi passeggieri che, salendo, gli scotevan sui piedi
l'ombrello fradicio, e dava ogni tanto una stratta furiosa alla tenda
immollata, che pareva si ritirasse per dispetto, lasciandolo scoperto
all'intemperie.
— Brutto tempo, eh? — gli domandai con buon garbo. Mi rispose brusco:
— A me lo dice? Una bella notizia! — Ne avremo forse per un pezzo, —
soggiunsi. — Non lo so, — grugnì.
Ah povero Tempesta! Mi ricordai d'un matto della Villa Cristina che
disegnava con la matita le varie parti del corpo che gli dolevano,
schizzando in ciascuna una bestia feroce, la quale, secondo lui,
rodendogli le carni, era causa del suo dolore; e mi domandai se
proprio egli non avesse in corpo qualche animalaccio rabbioso, se
non un serraglio intero, che lo dilaniasse. Ma già, non ce n'abbiamo
uno tutti, non fosse che un bruco o un tarlo piccolissimo che ci dà
delle giornatacce scellerate? Eppure, quanto più lo studiavo, tanto
più mi pareva che, a casa sua se non altro, non dovess'esser un
cattiv'uomo, perchè, insomma, egli sputava tanto tossico in servizio
da non comprendersi come ne potesse ancor serbare per la famiglia
dopo una giornata di dodici ore. A momenti ero tentato di battergli
una mano sulla spalla e di dirgli amorevolmente: — O me lo vorresti
dire, benedetto porcospino, da che parte si potrebbe toccarti per
non pungersi? — Ci si punse in quel momento una vecchia signora, che
avendogli detto timidamente, perchè fermasse: — faccia grazia.... —
n'ebbe per risposta una spallata, con questo complimento: — Che _faccia
grazia_!... Si dice _fermi_, si dice. — La cortesia gl'irritava i nervi
come la musica fa andar del corpo certe bestie.
In piazza San Salvario, dove facevano la battagliola dei ragazzi, gli
passò a un palmo dal naso una palla di neve: egli girò sui combattenti
un'occhiata sterminatrice e mise un bramito di leopardo. Poi se la
pigliò con uno dei cavalli, _Livorno_, che zoppicava, chiamandolo
assassino, ladro, ciampicone da forca, e rincalzando ogni epiteto con
una frustata. Uno dei cinque passeggieri che stavano sulla piattaforma
s'arrischiò a fargli un'osservazione garbata: — Ma se zoppica, che
colpa ci ha? — Si voltò come un'istrice: — Sì signore, è un vizio, una
malizia; zoppica soltanto quand'è con me, ha da sapere! — E sbuffò. Poi
soggiunse: — Bisogna conoscer le bestie prima di parlare. — Quell'altro
rispose pacatamente: — Già, è proprio vero: prima di parlare... bisogna
conoscer le bestie. — Tutti risero. E allora seguì un miracolo: sorrise
anche Tempesta. Ma fu come un lampo sur una rupe. Subito si rioscurò,
rimenò una frustata a _Livorno_, trattandolo di boia infame e di Giuda
porco, e ricominciò a spandere per la lunghissima strada bianca il
soffio della sua rabbia implacabile.
*
Seguitò a venir giù neve, senza posa, così fitta da parere che se
ne potesse far delle palle cogliendola a due mani per aria, densa al
punto che i tranvai apparivano come ombre dietro al velo dei fiocchi,
e non si vedevano ancora quando già li annunziavan vicini lo scalpitìo
faticoso dei cavalli e il gridìo continuato dei cocchieri, affacciati
ai finestrini delle tende come vedette alle feritoie d'una fortezza
mobile. Ma tutta quella neve non smorzava il fuoco bellicoso di
Carlin, che trovai un dopo pranzo sulla linea di Vinzaglio, furibondo
per l'eccidio della spedizione del Cecchi, sopra tutto contro il
Ministero perchè aveva dichiarato di non aver alcun proposito di
“occupazioni militari„. Il bombardamento di Gezira e la fucilazione
dei cinque Somali, invece di quetarlo, l'aveva irritato, come farebbe
a un affamato un minuscolo antipasto di ghiottonerie stimolanti. Come
sempre, egli avrebbe voluto bruciare, sterminare, disperdere ogni cosa,
cancellare il Benadir dalla faccia dell'Africa. — Insomma — fremeva —
tutti ce le danno e noi non le rendiamo a nessuno! Figure da nasconder
la faccia nei calzoni! — E non riusciva a capacitarsene considerando
che avevamo gente a bizzeffe, milioni d'uomini senza lavoro, una
sovrabbondanza di gregge umana da dover benedire ogni occasione che
si presentasse di spedirne fuori una gran quantità, per alleggerire
l'Italia e invader “le terre dei cani„. — Cosa ne voglion fare di
tutta questa gente? Siamo in troppi. Tutti i nostri guai vengon da
questo. È il multiplicamini che ci rovina... — E della nostra eccessiva
fecondità mi addusse una prova singolare. Giusto tre giorni avanti, su
quella stessa linea, nel numero 139, una donna era stata presa dalle
doglie, e c'era mancato poco che scodellasse un “passeggiere„ lì per
lì, durante la corsa: s'era dovuto fermare il tranvai, e s'era fatto
appena in tempo a trasportarla in una portieria di via Roma: al ritorno
del tranvai l'amico era già fuori, che cantava come un gallo. — Vede
_dunque_! — Proprio, la nascita intempestiva di quel bacherozzolo,
per lui, era l'argomento Achille In favore d'una politica belligera
in Africa. — _Bombardè! Bombardè!_ — e ripetendo questo suo “delenda„
dall'alto della piattaforma, con le braccia incrociate sul petto,
fissava lo sguardo su piazza Castello bianca di neve con l'espressione
di Napoleone primo nel _milleottocento quattordici_ del Meissonnier. Ma
che diversi pensieri si volgono qualche volta nell'interno del tranvai
e sulla piattaforma! Appunto in quel momento c'eran dentro da un lato
parecchie belle signore; nei due angoli in fondo due signori in tuba,
con la cravatta bianca, che andavano a qualche pranzo di gala; in
faccia alle signore una mezza dozzina di giovani e brillanti ufficiali
della Scuola di guerra, fra i quali un bellissimo tenente belga; e
si vedeva negli occhi di quella compagnia silenziosa la fiammella
della galanteria, si indovinava nell'aria di quel salotto ambulante
una vibrazione di piccola corte d'amore, l'incrociarsi delle simpatie
e delle attrazioni frenate dalla convenienza, un lavorìo vivo di
immaginazioni eccitate, vagheggiaci tutt'altre conquiste da quella del
Benadir, tutt'altre battaglie da quelle che il povero Carlin invocava
mostrando il pugno alla neve.... Un simbolo anche questo: la politica
che sbraita e vuol rifare il mondo, e l'amore, padron del mondo, che
le ride alle spalle. Ma non espressi questo pensiero a Carlin per non
scemargli quello che era forse il maggior conforto della sua vita. E
come se, comparendo per l'ultima volta nei miei appunti, egli dovesse
per me sparire dal mondo quella sera, gli feci, scendendo, un saluto
cordiale, ch'egli interpretò come un'approvazione generale di tutta la
sua politica del 1896, e che mi valse in risposta un buon sorriso di
ministro soddisfatto a deputato devoto. E muoia la sua politica e viva
la sua memoria....
*
Continuò a nevicare, e anche io presi gusto quelle sere a cacciarmi
nei carrozzoni, attirato dall'aspetto di intimità familiare,
dall'immagine dì brigate raccolte a veglia, che offrivano i passeggieri
pigiati dentro, soddisfatti d'essere al riparo dalle intemperie e
particolarmente disposti, in quella comunione non ingrata di calorico
animale, alle conversazioni amichevoli. Trovai in una di queste
comitive fortuite, la sera della festa della Concezione, sulla linea
di via Cernaia, il sindaco di Torino, rannicchiato in un angolo, e non
riconosciuto da alcuno, fuorchè dal fattorino, che, stando fuori sulla
piattaforma, lo guardava a traverso il vetro dell'uscio, curiosamente.
Certo che l'illustre sindaco, vedendo quel povero fattorino col capo
imbacuccato in un cuffione, infradiciato dalla neve, che lo guardava
dal di fuori come il pezzente infreddolito guarda dalla strada il
signore seduto al caldo nella trattoria, era a mille miglia dal pensare
che quello fosse un conte come lui, forse di più antica famiglia
della sua, certo d'un casato più famoso nella storia d'Italia. Ma di
nessun pensiero malinconico dava indizio il viso del conte incognito,
atteggiato all'espressione consueta di serena rassegnazione: pareva che
egli si dilettasse della vivacità insolita della compagnia, composta
di piccoli borghesi e d'operai puliti, fra i quali s'incrociavano
conversazioni diverse. Parlavano dell'esposizione finanziaria del
Luzzatti, del capitale perduto del Banco di Napoli, della proposta
d'una _tassa militare_, con le frasi raccolte nei giornali della
mattina, e con quel tono misto di sfiducia amara e d'indifferenza
canzonatoria con cui in Italia si suol ragionare della cosa pubblica.
A un tratto si fece silenzio; poi un passeggiere, di cui il lume
rischiarava soltanto la parte inferiore del viso, adombrato dal naso
in su da un grande cappello, saltò fuori con la legge sugli _infortuni
del lavoro_. — Ahi! — dissi tra me — siamo al Senato —; e tenni
d'occhio il sindaco senatore. E il Senato, che aveva per la seconda
volta rinviata la legge all'Ufficio centrale, fu da quel gran cappello
e da un altro dello stesso taglio, che gli s'allargava daccanto,
conciato barbaramente. — “Quegli scatarroni mezzi morti„ — quei vecchi
reazionari della malora... — la legge sarebbe stata in vigore da un
pezzo se non fosse dovuta passare per quell'anticamera del camposanto
dove tutte le riforme in pro del popolo erano ferocemente combattute...
— e altre gentilezze su quest'andare. Deliziosa corsa per un Senatore!
Ed ecco che un terzo, facendo un salto da Roma a Torino, vien fuori
a lagnarsi del servizio di sgombero della neve, dicendo con un
vocione di contrabbasso che, per questo riguardo, si facevano le cose
meglio, ma molto meglio, non ricordo bene in quale piccolo comune del
circondario, dove egli aveva sortito i natali! Ah, questa carrozza di
tutti, che covo d'insidie per gli uomini in carica! Ma il bravo sindaco
sostenne intrepidamente la seconda come la prima scarica, fissando
con un vago sorriso filosofico un annunzio del _Cioccolatte Talmone_
attaccato fra due finestrini. Il fallimento della Banca di Como, che
venne dopo sul tappeto, lo liberò, e mentre la nuova conversazione
s'andava accalorando, altri tranvai passavano, in cui si vedevano di
sfuggita altre comitive illuminate dall'alto, sale correnti di club
e di caffè, farmacie di villaggio ambulanti, piccole aule di Consigli
comunali, pieni di visi gravi o ilari di politicanti, di maldicenti,
di pettegoli, di sonnacchiosi, di brilli, che apparivano un momento e
sparivano nel turbinìo della neve.
*
Dopo la neve venne la nebbia, quella nebbia invernale di Torino, densa
e fredda, d'un sapore irritante quasi di bruciaticcio, che invade
ogni vuoto e copre la città come un immensa nuvola di cenere immobile,
quasi palpabile, e nasconde case, alberi, gente, carrozze, lampioni,
circoscrivendo in un raggio di cinque passi lo spazio visibile a ogni
persona; che intercetta come un muro grigio la vista delle piazze e dei
corsi e riempie i portici come un fumo uscente da migliaia di cantine
incendiate, e dà a ogni tratto l'illusione che quartieri interi siano
scomparsi, inghiottiti dalla terra, fra i vapori d'un cratere enorme.
Si correva come dentro a un'oscurità bianca, a traverso a una sequela
infinita di veli umidi, che il tranvai lacerava, non vedendo gli altri
carrozzoni che all'ultimo momento, come se sorgessero per incanto dal
suolo, e non altri passanti fuor che larve che scappavano spaventate
al sopraggiungere dei cavalli; e quel continuo succedersi e incrociarsi
affrettato di fischi e di squilli in quell'aria opaca dava l'idea d'una
città agitata da un grave affanno, oppressa dalla minaccia di qualche
grande pericolo misterioso.
Stavo sulla piattaforma, pigiato da tutte le parti, in compagnia d'un
giovane poeta cubano, nuovo a Torino e a quello spettacolo, il quale
accresceva la sua naturale malinconia. Venuto per la prima volta
in Europa, e arrivato il giorno avanti dalla Francia, non si poteva
persuadere d'essere in Italia, dove s'era immaginato che anche le città
settentrionali avessero un inverno mite e sereno come quello della sua
isola nativa. Guardava intorno quasi spaurito e mi diceva di tratto in
tratto in un suo italiano transatlantico: — Ma questa è Siberia! Questo
è lo Spitzberg! E come piace a lei quest'orrore?
— Sì — gli risposi — ho dei gusti di Eschimese. La nebbia m'eccita
l'immaginazione. Non vedo nulla, non riconosco i crocicchi, non so
molte volte in che punto mi trovi; la città mi pare ingigantita;
suppongo d'essere a Londra, a Pietroburgo o a Nuova York. Mi piace
qualche volta di sentire l'umanità senza vederla. La nebbia mi rompe
la monotonia della vita, mi dà mille sorprese e sensazioni insolite.
Questa risonanza strana, smorzata di tutti i rumori, mi alletta come
un linguaggio nuovo delle cose. Mi fa più piacere che alla luce del
sole rincontrare l'amico in questa oscurità livida, come nell'ombra
d'una foresta vergine, vedermi davanti tutt'a un tratto il viso d'una
bella donna come se m'apparisse nello squarcio d'una nube, sentir voci
conosciute di conoscenti invisibili e risa di ragazze misteriose, che
si perdon nell'aria come voci di folletti. E poi, che vuole? La sera,
in special modo, la città piena di gente e di lumi, che lavora e si
diverte, mi sembra una espressione più potente della civiltà umana
sotto questo gran mantello lugubre che la natura le getta addosso senza
riuscire a soffocarne la vita e l'allegria.
Il cubano non pareva persuaso. Se avesse dovuto vivere in Italia, non
avrebbe piantato le tende a Torino. E mi domandò se la città mi paresse
confacente al lavoro artistico, abbastanza italiana d'aspetto da dare
all'ispirazione d'un poeta tutti gli aiuti esteriori che dovevan dare
Venezia, Napoli, Firenze, Roma; se non ci sentissi la monotonia.
— No — risposi — non c'è monotonia nella libertà. Qui sento la mente
libera. Mi par che il pensiero si dilati spaziando nelle vaste piazze
e vada più lontano lanciandosi per le vie lunghissime, per la grande
raggiera dei viali fuggenti da tutte le parti verso la campagna. Gli
edifizi non attirano lo sguardo; ma perciò appunto non lo distraggono
dalla grandezza del tutto e dalla bellezza della natura; si ritraggono
anzi di qua e di là per lasciar maggiore spazio al volo dell'occhio
e della mente verso le Alpi e la collina. In nessun'altra città si
vede tanto verde, tanto azzurro, tanta bianchezza; in nessun'altra
ha un riso così fresco e così splendido la primavera, che qui pare un
ricominciamento del mondo. E poi, essendosi in tanti anni trasformata
la città sotto i miei occhi, vedo ed amo sempre negli aspetti nuovi gli
aspetti scomparsi, m'avvolge un nuvolo di memorie a ogni passo, sento
mille voci di persone e di cose passate che mi chiamano, ribevo dei
sorsi d'aria della gioventù della patria e della mia. Godo qui delle
bellezze che non sono che per i miei occhi perchè le illumina e le
colora un raggio che esce dal mio cuore. Vedo in fondo a ogni strada
una città d'Italia e nelle rondini che volano attorno al palazzo Madama
le mie speranze fuggite, che cantano e mi salutano ancora.
Il giovane scrollò il capo. — E trova in armonia con la sua — domandò
ancora — anche l'indole degli abitanti? Non le riescono un po' freddi e
chiusi... un po' troppo nordici, come ho inteso dire?
— Non li può giudicare uno straniero, e neanche un italiano d'altre
province, se non vive qui da molti anni. La benevolenza è velata, il
cuore non s'apre e non si dà tutto di primo slancio; ma tutto quello
che dobbiamo conquistare ci è poi più caro quando è nostro. La cortesia
discreta, la promessa guardinga prevengono disinganni e amarezze, e
così nel buoni si trova sempre maggior bontà che non s'aspettasse.
I loro difetti sono negativi, incavi, non punte, e per questo non
feriscono. Le possono parer duri; ma per ciò lei li può afferrare e
tenere, e non le sgusciano di mano. V'è nell'affetto che gli occhi
esprimono e la bocca tace una dignità che ne raddoppia il valore. E chi
ha dei difetti opposti a queste virtù, e n'ha coscienza, ama la gente
che glie li comprime più di quella che glieli accarezza. Per questo io
son legato alla città anche dalla gratitudine; legato da tanti vincoli
del cuore, del pensiero e del sangue, che non potrei più vivere altrove
a nessun patto, neppure a quello di diventar ricco se fossi povero,
sano se fossi infermo, e di trovar cento nuovi amici se qui non mi
restasse un amico; e sono ben certo e m'è un conforto il pensare che
morirò qui.
Mentre dicevo quest'ultime parole, un signore, che m'era stato accanto
fino allora senza che lo vedessi nel viso, girò il capo adagio adagio
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