La Carrozza di tutti - 13
come se si fosse levato da letto un'ora prima e dovesse tornare a letto
alla fin della corsa; ognuno ha l'aria di dirgli: _Omai convien che tu
così ti spoltre_.... Ah, se assaggiassero per una settimana la nostra
_piuma_ e la nostra _coltre_!
Ma tutto questo disse con tuono piuttosto di satira che di querimonia,
e con la stessa vivacità studentesca riepilogò e concluse la sua
chiacchierata. Sì, veramente: badare a chi sale e a chi scende, e a
chi chiama da vicino e da lontano, saltar giù a raddrizzar gli aghi e a
badare ai crocicchi, strusciarsi fra i passeggieri accalcati a pescare
i soldi ritrosi, cambiare, notare, rendere i conti, rispondere a cento
domande, rabbonire i litiganti, e pregare e leticare e spolmonarsi
e beccarsi del villano e del buricco da gente bene e male educata,
continuamente con le gambe in moto, con le braccia per aria, con la
mente tesa e gli occhi all'erta e la multa sulla testa, per dodici
ore filate, sotto il sole e sotto la pioggia, col vento e con la neve,
tutti i santi giorni dell'anno, per cinquanta soldi al giorno.... è una
dura vita. — E soggiunse in ischerzo: — _Tanto è amara che poco è più
morte._ Se Dante tornasse al mondo, aggiungerebbe alle sue bolge delle
linee di tranvai e metterebbe a fare i fattorini i peccatori della
peggio specie.
Eravamo arrivati a quella piazza solitaria della barriera, che par la
piazza d'un villaggio lontano da Torino, di là dalla quale s'allunga
nell'aperta campagna la strada di Milano, e lì, al momento di scendere,
l'arguto dantista spostato me ne disse ancor una, che mi parve la più
amena di tutte, il più curioso esempio di pretensione indiscreta, ch'io
avessi mai inteso citare, di passeggieri saccenti. Il giorno avanti,
essendo salita sul tranvai una signora tedesca ch'egli non era riuscito
a comprendere dove volesse andare, un signore pingue e dignitoso aveva
detto con tutta serietà al suo vicino: — Bella figura che ci facciamo!
La società dovrebbe prender dei fattorini che sapessero le lingue. —
Ed egli, il dantista, gli aveva risposto: — Soltanto le lingue viventi,
non è vero? Facoltativi il latino e il greco, tutt'al più. —
*
Per tre giorni, nulla di nuovo, fuorchè una fuga atterrita di signore
da un carrozzone chiuso, dove un matto originale, credendo di divertir
la compagnia, s'era levato di tasca e messo sopra una spalla due
topini bianchi addomesticati, che gli giravano intorno al bavero, come
una collana vivente: uno stridìo, un sottosopra, per cui accorse una
guardia civica, decorata della medaglia al valor militare (_Donne, da
voi non poco la patria aspetta!_). E poi, la domenica del ventisette,
andando e ritornando dallo Sferisterio, due incontri desiderati. Il
primo, sulla giardiniera della linea dei Viali: _Taddeo_ e _Veneranda_,
con la loro bambina. Ma quanto mutati tutti e tre! Al primo sguardo,
capii, vidi tutto: una malattia mortale della creatura adorata, una
serie di giorni e di notti orrende, la casa risonante di singhiozzi,
la mamma in ginocchio, il padre forsennato. La loro bimba era ancora
smunta e pallida, e sui loro visi mutati, sotto la gioia della
risurrezione, si vedevano ancora i segni dell'angoscia e del terrore.
Come la prima volta, mi ritrovai dietro di loro, che avevano la piccina
in mezzo, rivolta verso di me. Come si ricorda il viso di quelli
che accarezzarono i nostri bambini! Mi riconobbero, mi sorrisero, e
interrogarono con uno sguardo ansioso il mio sguardo, come dicendo: —
La trova molto cambiata, non è vero? — e mostrarono meglio, in quel
momento, i segni del grande dolore sofferto. i quali mettevan più
pietà in quelle due nature placide, che dovevano aver vissuto per tanti
anni una vita tutta tranquilla. E poi, senz'aspettar la mia risposta,
mi diedero la triste notizia: il crup, un mese di letto, la bimba
considerata perduta; e dopo la notizia, la storia, con un torrente di
parole: i primi sintomi del male, il medico, i rimedi, l'aggravarsi
della malata, le parole sue, che avevan credute le ultime in _quella
notte_, in cui la loro ragione si smarriva e il mondo crollava sotto i
loro piedi. Ah, no, è troppo terribile! Ah, chi non l'ha provato, non
lo può pensare! E poi la sosta della malattia, i primi buoni indizi,
le prime parole consolanti, e la gioia infinita; e qui un'effusione di
gratitudine per il dottore, il cavalier Boni, un cuore! un ingegno!
un angelo! L'altro, l'angelo piccolo, non lo portavan fuori che da
tre giorni; era quella la sua terza passeggiata di convalescenza. —
Comincia a riprender colore, — dissi. — Ah, sì? Comincia a riprender
colore? — E mi guardarono con riconoscenza, come se fosse la mia parola
che avesse soffuso un po' di roseo su quel piccolo viso, e con questo
era il mondo intero che si ricoloriva ai loro occhi. E la covavano con
lo sguardo, la carezzavano con le mani allargate come per afferrarla
e per proteggerla. E a questo punto seguì una scena che mi commosse.
Presentandosi il controllore a domandar gli scontrini, essi gli porsero
anche quello della bimba. Quegli osservò che, se l'avessero tenuta
sulle ginocchia, poichè non aveva ancora tre anni, avrebbero potuto
non pagare il posto. Eh, lo sapevano! E capii bene il loro pensiero.
Pigliare lo scontrino per lei come per una più grande e farle occupare
un po' di spazio era per loro come un'affermazione che facevano a
sè stessi, una volontaria e cara illusione che la sua persona fosse
qualcosa di più di quello che era, una “quantità„ meno “trascurabile„
di quanto poteva parere. Con che dolce accento, quando discesi, mi
dissero: — A rivederla! — E a me, vedendoli allontanarsi, passarono
confusamente nel pensiero altri convalescenti che avevo visti seduti su
quelle panche, in mezzo ai loro parenti racconsolati; e quel tranvai
che dà anche al povero uscito di malattia, e alla sua famiglia, il
conforto e la gioia d'una passeggiata in carrozza, che non potrebbero
fare altrimenti, m'apparve sotto un aspetto nuovo, pietoso e benefico,
come quello d'una carrozza futura, ch'io sogno, non destinata ad altro,
e messa al servizio di tutti gli scampati dalla morte.
*
Uscendo dallo Sferisterio, presi sul corso Margherita la giardiniera
della linea di Vanchiglia, tutta piena di facce allegre, color di
ribotta, che venivano dalla Madonna del Pilone, l'Auteuil di Torino.
Eravamo a metà di via Vanchiglia, quando fra le sette schiere di nuche
che mi stavan davanti ne vidi una, fra le più vicine, che mi parve
di riconoscere: era d'un uomo, un operaio all'apparenza, che teneva
aperto dinanzi il giornale _Per l'idea_. Dove avevo già visto quella
larga nuca di testardo? Accanto a lui sedeva un ragazzetto, col capo
appoggiato al suo braccio, e accanto al ragazzetto una donna giovane,
che, voltandosi un momento di fianco, illuminò la mia memoria. Era
quel tale operaio venuto dal Vercellese, disoccupato e arrabbiato, e
sparlante della _Camera del lavoro_, il quale, due mesi addietro, sul
tranvai di via della Cernaia, aveva strappato di mano al suo bimbo
e buttato nella strada la caramella ch'io gli avevo regalata. Ah,
maledetto sangue! Non feci in tempo a frenare l'ondata di sdegno che
mi rivenne su, quantunque il giornale ch'egli leggeva mi dicesse che
la sua mente s'era aperta a nuove idee, come il suo vestire e quello
dei suoi mi diceva ch'egli aveva trovato lavoro, e che l'animo suo
doveva essere quindi mutato. Ma fu un'ondata sola, che ricadde subito,
sopraffatta da una viva curiosità. Vedendomi, si sarebbe egli ricordato
di quell'atto, e m'avrebbe ancora mostrato nello sguardo il sentimento
che gliel'aveva fatto compiere, o un sentimento opposto, o indifferenza
soltanto? E stetti a aspettare che scendessero. Fecero fermare in via
Lagrange e s'alzarono tutti e tre, presentandomisi di profilo, così
vicini, che, scendendo, non potevano non vedermi. Incontrai prima lo
sguardo della donna, che fissai per farmi riconoscere; e mi riconobbe
infatti, dopo un momento d'incertezza, e arrossì leggermente, chinando
gli occhi. Incontrai subito dopo lo sguardo di lui, che mi riconobbe
alla prima. Quanto è puerile e finto l'orgoglio, che fa prendere
all'offensore, per ingannare e mascherare insieme la sua coscienza,
l'atteggiamento dell'offeso! Mi diede un'occhiata torbida e discese
col viso adombrato. — Ho io dunque, — pensai, — una così odiosa faccia
di borghese egoista, sfruttatore e disprezzatore d'operai, ch'egli
non m'abbia ancora perdonato, dopo due mesi, un atto di cortesia? —
E di nuovo stava per venirmi su l'ondata di sangue.... ma il grido
di _avanti!_ del fattorino la compresse, come una parola magica: mi
ricordò l'_avanti!_ col quale un giovine signore, apostolo ardente
dell'Idea, una delle anime più generose ch'io conosca, soleva chiudere
ogni suo racconto di atti d'ingratitudine e di diffidenze ingiuriose
con cui era ripagato qualche volta dai lavoratori incolti e duri che
catechizzava. — _Avanti!_ — concludeva, e si ridava all'opera con un
coraggio d'eroe e una pazienza di santo. Sì, che cosa sono questi
risentimenti se non guaiti miserevoli di quello che ti resta dello
stupido orgoglio antico? _Avanti!_
*
Sì, _avanti_: una bella chiusa di discorso, e com'è facile il dir
delle parole nobilmente severe al nostro orgoglio! Il male è che
l'orgoglio, quando gli si parla a quel modo, si rannicchia e lascia
dire, e poi, alla prima occasione, ricomincia a fare il comodaccio
suo. Delle belle parole glie ne dissi anche la sera dopo, trovandomi
sopra una giardiniera di via Roma, seduto, a tre panche di distanza,
dietro le spalle di _Siapure_, che aveva, accanto la sua ragazzina;
e furon parole al vento. La bimba stava voltata un po' di sbieco, e
mi guardava con una insistenza singolare. Certo, mi conosceva; certo,
aveva “letto„ qualche cosa. Ma non riuscivo a capire il suo sentimento
dal suo sguardo, che somigliava a quello con cui qualche volta si fissa
una persona pensando ad un'altra. Aveva inteso suo padre parlar male
di me? O gli aveva inteso esprimere con parole benevole il rammarico
della nostra amicizia spezzata? Sentivo un malessere sotto lo sguardo
pensieroso di quel giudice di dieci anni, che pareva mi frugasse
nell'anima, e che ora aveva l'aria di dirmi dolcemente: — So che a
mio padre vuoi ancora bene: perchè non gli stendi la mano? — e ora
con espressione di rimprovero: — Tu odi mio padre; perchè l'odi? —
No, bambina, — le risposi in cuor mio, — rassicurati, non l'odio; non
potrei e non lo merita; ho dei torti io pure. Sì, certo, dovrei esser
io il primo, come tu pensi, a tendergli la mano. Ma per far questo,
vedi, dovrei esser ragionevole e buono; e non son nè l'uno nè l'altro,
benchè abbia scritto qualche cosa che può farlo credere, e benchè tu
mi veda i capelli grigi. Io son pieno d'orgoglio. Ah, se tu sapessi
come questo povero orgoglio ci fa più piccini di voi! Ecco, vedo che
c'è un posto vuoto vicino a voi due: sento una voce che mi spinge a
scendere sul predellino e ad andarmi a sedere accanto a tuo padre; e
sento un'altra voce che mi dice: — Sta lì! Non ti muovere! —; la prima
è dolce e m'intenerisce; la seconda è aspra e mi sdegna; e non di meno
io cedo a questa; e me ne vergogno in faccia a te, cara bambina; ma
preferisco questa vergogna alla compiacenza profonda e gentile che
proverei facendo quello che tu vorresti, e che io pure vorrei. Andiamo,
volta il capo dall'altra parte, non mi guardar più; non merito lo
sguardo dei tuoi occhi buoni e innocenti, te lo assicuro! — Si fermò
in quel punto il tranvai e _Siapure_ si voltò a guardare dove fosse
diretta l'attenzione continuata della sua figliuola: mi vide e mi
fissò. Sarebbe stato quello il buon momento! Ma lo lasciai passare.
— Avanti! — gridò il fattorino, e il tranvai ripartì. Come mi suonò
diverso quell'_avanti_ da quello del giorno prima! Sì, avanti — voleva
dir questo — avanti sempre così, orgogliosi, meschini, spregevoli fino
alla morte.
*
E — avanti! — gridava _Desbotonass_ ogni volta che il tranvai si
fermava sul Corso San Maurizio, la sera della festa di San Pietro.
Aveva accanto sua moglie; doveva aver festeggiato il proprio
onomastico; era briaco fradicio. I lampioni, danzando e moltiplicandosi
ai suoi occhi, confondevano le sue idee topografiche; credendo di
essere al Valentino, si stupì di veder lì la Mole Antonelliana, che
apostrofò; scambiò l'Arena torinese con una casa di canottieri; e la
vista improvvisa del piazzale delle Benne lo riempì di maraviglia
come un'apparizione fantastica. — _Ma dovè che semm chi?_ — andava
esclamando; — _ma dovè che se va?_ — E sempre ripicchiava su quel
chiodo di non voler che il tranvai si fermasse, e gridava: Avanti! con
furore crescente. Poi s'assopì per qualche momento, e, ridestandosi,
fu preso da un impeto di tenerezza malinconica per sua moglie, e
messole un braccio dietro la schiena e il capo sulla spalla, cominciò
a confessarle i suoi torti, a dirle che era una buona, una santa
donna, ch'egli era indegno di lei, che voleva cambiar vita; e glie
lo prometteva e glie lo giurava; ma prima voleva esser perdonato. E
inutilmente essa gli rispondeva di sì, che gli perdonava, ma che si
quietasse, che non facesse scene. Ogni sua assicurazione di perdono
non faceva che dar la stura a una nuova e più larga ondata di parole
di pentimento e d'affetto, rotte da singhiozzi di pianto e di vino.
— _Ah no.... meriti minga.... no, sont minga degn.... A ona donna
come ti! La mia Mariettina! Dimm che te me perdonet! Te me 'l devet
dì ancamò una volta, ancamò cent, ancamò mila volt!_... — E di nuovo
accennava a torti propri, a virtù di lei, all'assistenza ch'essa gli
aveva fatta quand'era stato malato, al rimorso ch'egli avrebbe sempre
avuto di non essersi portato con lei da buon marito, all'amore che le
avrebbe dimostrato di lì avanti, cangiando condotta, e perseverando
sulla buona via, _fina al moment de sarà i œucc_. E in quell'eruzione
di parole briache, che mettevan disgusto, veniva pur fuori il fondo
d'una natura buona, guasta, ma non pervertita ancora, che mi faceva
pensar tristamente a quante altre nature simili il vizio aveva
pervertito affatto e andava pervertendo di continuo; e alle miserie e
ai martirii d'innumerevoli povere donne come quella, torturate e uccise
dal veleno maledetto ch'esse non bevono; e tutte quelle larve d'uomini
avvelenati e di donne infelici, che mi passavan davanti per l'aria,
rendevano triste ai miei occhi quella bella sera stellata e tepida di
fin di giugno. Triste di questo pensiero antico, misto di rimorso e
di vergogna; che non facciamo nessuno il dover nostro, che dovremmo
bandire una crociata universale, ardente e infaticabile contro il
mostro, non per mezzo di leggi e di prediche, ma disputandogli ad una
ad una le sue vittime, con amor paziente e intrepido, col consiglio,
con la preghiera, con la carità, con la comunione intellettuale,
con tutte le forze che mettiamo in opera per salvar dal suicidio un
fratello.
CAPITOLO SETTIMO.
Luglio.
Calori, languori, esami: soffia il terror del _cinque_ e dello
_zero_ anche sulle giardiniere. Il tranvai è come una gazzetta vocale
viaggiante che ci tiene in giorno non solo degli avvenimenti politici,
ma delle passioni predominanti a volta a volta nello spirito pubblico.
Da una settimana, su tutte le linee, colgo a volo da passeggieri
d'ogni condizione frammenti di discorsi scolastici, espressioni di
timori e di speranze, accenni a difficoltà e a pericoli, esclamazioni
sospirose di mamme, che parlano di “preferenze„ e d'“ingiustizie„,
di “raccomandazioni„ e di “pressioni„ come se avessero i figliuoli
sotto processo. Sui tranvai che passano davanti alle scuole verso il
mezzogiorno, salgono ragazzi e giovinetti coi capelli arruffati, col
viso acceso e con le mani sporche d'inchiostro; i quali parlano con
voce eccitata e stanca di soldati che si raccontino a vicenda i casi
d'una battaglia. Si sente nella voce d'alcuni l'intenzione di farsi
ascoltare e il compiacimento altero della vita intellettuale, si vede
negli occhi loro un balenìo di speranze lontane di gloria, di alti
uffici sociali e di ricchezze conquistate con l'ingegno. Ahimè! E io
penso a quanti di loro, dopo esser passati per la trafila d'altri cento
esami, e aver tentato e abbandonato, sgomentati dalla moltitudine dei
concorrenti, molte altre vie maestre e traverse, parrà una fortuna
di potersi rifugiare in uno di quei carrozzoni, col libretto degli
scontrini in mano e il corno appeso al collo. E non vedo l'ora che
sian passati questi “giorni del terrore„ dell'istruzione pubblica,
poichè i discorsi che ascolto mi fanno pensare a migliaia di cervelli
strapazzati, di cuori trepidanti, di amari disinganni paterni, di
castighi, di scene domestiche dolorose, ed anche a suicidi miserandi
d'adolescenti; e all'udir quelle allusioni alla farraggine delle
materie d'esame, mi domando con tristezza quanto tempo passerà prima
che s'abbia il sapiente coraggio di procedere a una semplificazione
degli studi, la quale ne faccia d'un carico opprimente un nutrimento
sano e gradevole, e penso con dolore che passerà un tempo anche più
lungo prima che siano migliorate in modo le condizioni del lavoro
meccanico, che non paia più una condanna il dovervi rimanere e quasi
una degradazione il discendervi; senza di che non vi è salvezza per la
società civile, che sarà uccisa dalla pletora degli spostati infelici
e violenti. Ma mi rallegra un caso ameno, e non raro. Mi trovo sopra
una giardiniera con un arguto professore di liceo, il quale, dicendomi
che dallo strapazzo intellettuale nascerà nel venturo secolo qualche
nuova malattia, una specie di tabe scolastica, che istupidirà un'intera
generazione, tace tutt'a un tratto per tender l'orecchio verso due
signore, che salgono dietro di noi, seguitando un discorso in cui egli
ha inteso il suo nome. Ah! sono pericolosi i tranvai, in questi giorni,
per i professori! Tendo l'orecchio anch'io. — Il grande scoglio è
quello —, dice la signora più giovane, sospirando; e ripete il nome. —
L'anno scorso si sperava d'esserne liberati, poichè n'è stufo anche il
preside; ma ha delle protezioni al ministero, dicono, e restò. Basta
guardarlo in faccia. Un di quei cani!
*
Ma il luglio, con l'aprirsi dell'_Arena_ e del _Teatro torinese_,
posti sulla linea dei viali, mi portò un divertimento nuovo, che trovo
descritto fra gli appunti, in una pagina finita. È uno spasso per me il
percorrere quella linea la sera della domenica, all'ora che finiscono
le rappresentazioni diurne. All'imboccatura di via Vanchiglia, e poi
davanti all'Arena e al Teatro, si fanno tre infornate successive
di passeggieri che portano nel tranvai tre ordini di discorsi
disparatissimi di argomento, d'intonazione e di mimica, discordanti
all'occhio non meno stranamente che all'orecchio. La prima è tutta
d'uomini, usciti dal gioco del pallone, che continuano i commenti e le
discussioni sulle partite e sulle scommesse, ripetendo cento volte le
stesse parole: quindici, quaranta, fallo, dividendo, battuta, rimessa,
e imitando i colpi e le mosse con gesti impetuosi e esclamazioni
ammirative, in cui spira un soffio sano di forza, di lotta, d'aria viva
ed aperta. Davanti all'Arena, dove si rappresenta l'operetta, salgono
dei giovanotti col viso acceso di tutt'altra fiamma, i quali commentano
con risate e parole grasse le maglie piene, i gesti impronti e i motti
equivoci, spandendo intorno un soffio di sensualità e di licenza, che
desta nei vicini dei sorrisi lubrici e delle fantasie peccaminose. Un
po' più là vengon su dal Teatro bottegaie, crestaine, qualche volta una
famiglia intera, tutti coi lucciconi, ancora commossi dalla chiusa del
dramma, esclamando tutti insieme: — Una bella produzione! — Fa troppo
pena. — Hai visto com'è morto? — Ha fatto la fine che si meritava. —
Povera ragazza! E son cose che succedono! — e spira nei loro discorsi
lo sdegno contro il malvagio, la pietà per l'innocente oppresso, la
gioia della virtù trionfante, una commozione buona, sincera, profonda,
che fa comprendere quale grande forza, disconosciuta dai più, male
usata da molti, inettamente trascurata da municipi e da governi, sia
il teatro popolare. E da un capo all'altro della giardiniera gioco,
musica e dramma, nomi di battitori e d'attori, ritornelli, volate,
pistolotti, morte, amore, totalizzatore mi si confondono all'orecchio
in una sola conversazione strana, antitetica, burlesca e triste come
la vita: immagine della vita anche in questo: che a ciascun gruppo
pare leggiero, stupido o odioso l'argomento dei discorsi dell'altro, e
che basta l'accidente più futile, come l'apparizione d'un cappellino
stravagante o il barcollare d'un ubbriaco che passa, a far sì che
tutti si distraggono dai loro pensieri e mettan fuori in coro un _Oh_
prolungato di stupore, che rivela il fondo fanciullesco di tutti.
*
Pioggie, uragani, il mondo sottosopra: un'estate degna dell'inverno
di Abba-Garima. Ma debbo ai carrozzoni chiusi d'essermi trovato in una
delle congiunture più curiose che possano occorrere a un passeggiere di
tranvai. Dopo tanto tempo ritrovai sulla linea di via Garibaldi il bel
capitano di fanteria e la moglie ipotetica dell'impiegato delle Poste
(lettere raccomandate). Alla prima occhiata mi parve che non fossero
più audaci come l'altra volta, che la passione, quetandosi un po',
avesse ridato luogo in loro alla prudenza dei primi giorni. Eran sedute
dentro con noi altre persone, fra cui ricordo un giovanotto che aveva
nella cravatta una grossa spilla di porcellana, con su scritto ad arco
in caratteri leggibilissimi: — _Cerco moglie;_ — ma questi e gli altri
discesero in Piazza Castello, e restammo noi tre soli. Vidi allora
negli occhi dei due, che sedevano l'uno di fronte all'altro, balenare
un raggio come di speranza. Senza dubbio, s'avevano da dire qualche
cosa d'importante prima di lasciarsi, come facevan sempre, come due
persone che non si conoscessero, e aspettavano che io discendessi in
via Po. Ma io dovevo fare ancora un buon tratto; oltrechè mi tratteneva
lì la curiosità inseparabile dalla mia professione. M'accorsi ch'erano
impazienti, incontrai uno sguardo di lui che mi disse chiaramente: — Se
sapesse che piacere mi farebbe a discendere!
— Pensi un po' se non lo capisco! — gli risposi dentro di me. — Ma
debbo trattenermi per ragion di studio: lei ci ha il suo amore, io ci
ho il mio libro.
Il tempo passava. Uno sguardo della signora mi disse: — Se ne vada
dunque una volta! — ma così apertamente, che ne fui offeso. E le
risposi con gli occhi: — No, non è codesta la maniera: me lo chieda con
più garbo e potrà essere ch'io la contenti.
Si scambiarono un'occhiata che equivaleva a un'esclamazione a due voci:
— Che testardo importuno! — Egli tormentava con la mano la dragona
della sciabola; essa l'anello dell'ombrellino.
Un momento dopo egli mi diede una guardata che fu un vero e proprio
spintone; ma essa corresse subito l'effetto dell'atto brutale con uno
sguardo ansioso e quasi umile, che diceva: — Lei ha capito; mi faccia
questo favore; non abbiamo più che un minuto; la supplico.
Impietosito, feci l'atto di alzarmi; ma in quel momento sonò il
campanello e il tranvai s'arrestò: saliva una famiglia.
E allora mi fulminarono tutti e due insieme con una tale occhiata,
che mi parve di sentirmi entrare a un punto nelle carni la punta
dell'ombrellino e la punta della sciabola, e m'affrettai a discendere,
volgendo in mente questa pagina, che mi costa un rimorso. Ma non m'ero
certamente ingannato: l'amore doveva esser già malaticcio, e mi diceva
il cuore che un giorno l'avrei visto trasportar dal tranvai, come da un
carro funebre, morto di consunzione.
*
Seguita un tempo matto, variato d'acquazzoni violenti, di
rasserenamenti repentini e di scrosci di pioggia rincalzanti; durante
il quale faccio una scoperta preziosa che mi apre sul tranvai un
nuovo ordine di godimenti artistici squisiti. Costretto a star sempre
dentro al carrozzone, scopro che riescono bellissimi, all'apparire
improvviso del sole, certi prospetti della città, veduti nel vano
delle due porticine che li racchiudono come in una cornice oscura,
giovando all'occhio come il far canocchiale della mano davanti a certi
particolari d'un quadro. Quante piccole maraviglie! Da via Garibaldi
immersa nell'ombra vedo un pezzo della facciata del Palazzo Madama,
con dinanzi l'alfiere marmoreo del Vela, piccolo come una figurina
di scacchiera, d'una bianchezza di neve, luminoso e vivo su quel
fondo cupo, come se splendesse di luce propria e avesse sentimento
della sua gloria. Nella via del palazzo di Città vedo inquadrato
nell'uscio, illuminato di fianco, il gruppo violento del Conte Verde
e dei Saraceni, in mezzo alle statue più lontane del principe Eugenio
e di Emanuel Filiberto: un quadretto un po' manierato e teatrale,
ma vivissimo, della vecchia Torino austera e guerriera. Vedo in via
Roma, come dentro a una finestra, l'alta figura impennacchiata del
vincitore di San Quintino, che spicca in nero sulla lontana facciata ad
arco della Stazione, trasparente e ridente come la porta monumentale
d'un giardino maraviglioso. In via Po, come pel vano di due opposte
feritoie, ammiro da una parte la Gran Madre di Dio, lumeggiata dal sole
che tramonta, spiccante sul verde fosco della collina, come un blocco
smisurato di marmo roseo, e dall'altra parte la faccia posteriore del
Castello, rude e tetra, nell'atto che n'esce e passa sul ponte una
processione di _Figlie verdi_ coi veli bianchi: un quadretto medioevale
misterioso e severo, a cui non mancano che due alabardieri corazzati
ai due lati del portone, minacciante ancora una sortita d'assediati. E
ricordo altri innumerevoli quadri alti e stretti, che presentano sfondi
lontani e vaporosi di vie diritte e lunghissime, segnati d'un tratto
nero da un camino d'officina, somigliante a un dito titanico; quadri
pieni del verde dei colli e dell'azzurro e del bianco delle Alpi, su
cui s'intaglia vigorosamente la spalla enorme d'un passeggiere ritto
sulla piattaforma; quadri semplici e profondi, d'un sol colore turchino
carico, in cui brilla uno spicchio argenteo di luna, e sopra la luna
una stella. E durante una corsa sola, cangiando il tempo, tutte queste
vedute s'annebbiano e tornano a rischiararsi, perdono e riprendono
i colori, e mentre il quadro davanti, su cui si disegna la testa del
cocchiere, si riaccende, il quadro di dietro, sul quale spicca la testa
del fattorino, si rioscura, tanto che di là par mattino e di qua sera;
e poi tutto quanto, davanti e di dietro, si confonde in un solo color
grigio, rigato dalla pioggia obliqua, dietro alla quale spariscono le
case, le colline, le Alpi, il cielo, e le due piccole porte non son più
che le cornici di due paesaggi confusi, che rappresentano l'uggia e il
malumore.
*
E acqua e fulmini e ira del cielo. I giubilati debbon scappare
ogni momento dai viali per rifugiarsi nei tranvai chiusi, dove,
raggomitolandosi e tossicchiando, si lagnano dello sconvolgimento delle
stagioni, del mondo mutato, dell'estate che non è più estate come al
loro buon tempo. E in loro posso esaminar gli effetti lamentevoli di
questi improvvisi mutamenti atmosferici che aggravano il peso degli
anni, sconvolgono i nervi, inacerbiscono tutti gl'incomodi, scolorano
tutt'a un tratto il mondo e la vita a innumerevoli creature umane. Vedo
delle vere carrozzate d'umor nero, tranvai che paion sale d'aspetto di
medici consulenti, con dei visi di vecchi atteggiati a quella serietà
cupa e immobile, che tradisce la mente inquieta, intenta a osservare
i movimenti irregolari della macchina interna scomposta, minacciante
qualche brutta sorpresa. Quant'è mutato anche il mio buon veterano di
via Garibaldi! Me lo trovo davanti, rincantucciato in un carrozzone
della linea di Vinzaglio, con la fronte solcata da una ruga verticale
profonda, e al mio: — Come sta? — risponde con voce rauca: — Niente,
niente bene. E come si può star bene? Non c'è più stagioni! Chi ne
capisce qualche cosa? È il mondo che va a soqquadro.... E poi, e poi,
alla fin della corsa; ognuno ha l'aria di dirgli: _Omai convien che tu
così ti spoltre_.... Ah, se assaggiassero per una settimana la nostra
_piuma_ e la nostra _coltre_!
Ma tutto questo disse con tuono piuttosto di satira che di querimonia,
e con la stessa vivacità studentesca riepilogò e concluse la sua
chiacchierata. Sì, veramente: badare a chi sale e a chi scende, e a
chi chiama da vicino e da lontano, saltar giù a raddrizzar gli aghi e a
badare ai crocicchi, strusciarsi fra i passeggieri accalcati a pescare
i soldi ritrosi, cambiare, notare, rendere i conti, rispondere a cento
domande, rabbonire i litiganti, e pregare e leticare e spolmonarsi
e beccarsi del villano e del buricco da gente bene e male educata,
continuamente con le gambe in moto, con le braccia per aria, con la
mente tesa e gli occhi all'erta e la multa sulla testa, per dodici
ore filate, sotto il sole e sotto la pioggia, col vento e con la neve,
tutti i santi giorni dell'anno, per cinquanta soldi al giorno.... è una
dura vita. — E soggiunse in ischerzo: — _Tanto è amara che poco è più
morte._ Se Dante tornasse al mondo, aggiungerebbe alle sue bolge delle
linee di tranvai e metterebbe a fare i fattorini i peccatori della
peggio specie.
Eravamo arrivati a quella piazza solitaria della barriera, che par la
piazza d'un villaggio lontano da Torino, di là dalla quale s'allunga
nell'aperta campagna la strada di Milano, e lì, al momento di scendere,
l'arguto dantista spostato me ne disse ancor una, che mi parve la più
amena di tutte, il più curioso esempio di pretensione indiscreta, ch'io
avessi mai inteso citare, di passeggieri saccenti. Il giorno avanti,
essendo salita sul tranvai una signora tedesca ch'egli non era riuscito
a comprendere dove volesse andare, un signore pingue e dignitoso aveva
detto con tutta serietà al suo vicino: — Bella figura che ci facciamo!
La società dovrebbe prender dei fattorini che sapessero le lingue. —
Ed egli, il dantista, gli aveva risposto: — Soltanto le lingue viventi,
non è vero? Facoltativi il latino e il greco, tutt'al più. —
*
Per tre giorni, nulla di nuovo, fuorchè una fuga atterrita di signore
da un carrozzone chiuso, dove un matto originale, credendo di divertir
la compagnia, s'era levato di tasca e messo sopra una spalla due
topini bianchi addomesticati, che gli giravano intorno al bavero, come
una collana vivente: uno stridìo, un sottosopra, per cui accorse una
guardia civica, decorata della medaglia al valor militare (_Donne, da
voi non poco la patria aspetta!_). E poi, la domenica del ventisette,
andando e ritornando dallo Sferisterio, due incontri desiderati. Il
primo, sulla giardiniera della linea dei Viali: _Taddeo_ e _Veneranda_,
con la loro bambina. Ma quanto mutati tutti e tre! Al primo sguardo,
capii, vidi tutto: una malattia mortale della creatura adorata, una
serie di giorni e di notti orrende, la casa risonante di singhiozzi,
la mamma in ginocchio, il padre forsennato. La loro bimba era ancora
smunta e pallida, e sui loro visi mutati, sotto la gioia della
risurrezione, si vedevano ancora i segni dell'angoscia e del terrore.
Come la prima volta, mi ritrovai dietro di loro, che avevano la piccina
in mezzo, rivolta verso di me. Come si ricorda il viso di quelli
che accarezzarono i nostri bambini! Mi riconobbero, mi sorrisero, e
interrogarono con uno sguardo ansioso il mio sguardo, come dicendo: —
La trova molto cambiata, non è vero? — e mostrarono meglio, in quel
momento, i segni del grande dolore sofferto. i quali mettevan più
pietà in quelle due nature placide, che dovevano aver vissuto per tanti
anni una vita tutta tranquilla. E poi, senz'aspettar la mia risposta,
mi diedero la triste notizia: il crup, un mese di letto, la bimba
considerata perduta; e dopo la notizia, la storia, con un torrente di
parole: i primi sintomi del male, il medico, i rimedi, l'aggravarsi
della malata, le parole sue, che avevan credute le ultime in _quella
notte_, in cui la loro ragione si smarriva e il mondo crollava sotto i
loro piedi. Ah, no, è troppo terribile! Ah, chi non l'ha provato, non
lo può pensare! E poi la sosta della malattia, i primi buoni indizi,
le prime parole consolanti, e la gioia infinita; e qui un'effusione di
gratitudine per il dottore, il cavalier Boni, un cuore! un ingegno!
un angelo! L'altro, l'angelo piccolo, non lo portavan fuori che da
tre giorni; era quella la sua terza passeggiata di convalescenza. —
Comincia a riprender colore, — dissi. — Ah, sì? Comincia a riprender
colore? — E mi guardarono con riconoscenza, come se fosse la mia parola
che avesse soffuso un po' di roseo su quel piccolo viso, e con questo
era il mondo intero che si ricoloriva ai loro occhi. E la covavano con
lo sguardo, la carezzavano con le mani allargate come per afferrarla
e per proteggerla. E a questo punto seguì una scena che mi commosse.
Presentandosi il controllore a domandar gli scontrini, essi gli porsero
anche quello della bimba. Quegli osservò che, se l'avessero tenuta
sulle ginocchia, poichè non aveva ancora tre anni, avrebbero potuto
non pagare il posto. Eh, lo sapevano! E capii bene il loro pensiero.
Pigliare lo scontrino per lei come per una più grande e farle occupare
un po' di spazio era per loro come un'affermazione che facevano a
sè stessi, una volontaria e cara illusione che la sua persona fosse
qualcosa di più di quello che era, una “quantità„ meno “trascurabile„
di quanto poteva parere. Con che dolce accento, quando discesi, mi
dissero: — A rivederla! — E a me, vedendoli allontanarsi, passarono
confusamente nel pensiero altri convalescenti che avevo visti seduti su
quelle panche, in mezzo ai loro parenti racconsolati; e quel tranvai
che dà anche al povero uscito di malattia, e alla sua famiglia, il
conforto e la gioia d'una passeggiata in carrozza, che non potrebbero
fare altrimenti, m'apparve sotto un aspetto nuovo, pietoso e benefico,
come quello d'una carrozza futura, ch'io sogno, non destinata ad altro,
e messa al servizio di tutti gli scampati dalla morte.
*
Uscendo dallo Sferisterio, presi sul corso Margherita la giardiniera
della linea di Vanchiglia, tutta piena di facce allegre, color di
ribotta, che venivano dalla Madonna del Pilone, l'Auteuil di Torino.
Eravamo a metà di via Vanchiglia, quando fra le sette schiere di nuche
che mi stavan davanti ne vidi una, fra le più vicine, che mi parve
di riconoscere: era d'un uomo, un operaio all'apparenza, che teneva
aperto dinanzi il giornale _Per l'idea_. Dove avevo già visto quella
larga nuca di testardo? Accanto a lui sedeva un ragazzetto, col capo
appoggiato al suo braccio, e accanto al ragazzetto una donna giovane,
che, voltandosi un momento di fianco, illuminò la mia memoria. Era
quel tale operaio venuto dal Vercellese, disoccupato e arrabbiato, e
sparlante della _Camera del lavoro_, il quale, due mesi addietro, sul
tranvai di via della Cernaia, aveva strappato di mano al suo bimbo
e buttato nella strada la caramella ch'io gli avevo regalata. Ah,
maledetto sangue! Non feci in tempo a frenare l'ondata di sdegno che
mi rivenne su, quantunque il giornale ch'egli leggeva mi dicesse che
la sua mente s'era aperta a nuove idee, come il suo vestire e quello
dei suoi mi diceva ch'egli aveva trovato lavoro, e che l'animo suo
doveva essere quindi mutato. Ma fu un'ondata sola, che ricadde subito,
sopraffatta da una viva curiosità. Vedendomi, si sarebbe egli ricordato
di quell'atto, e m'avrebbe ancora mostrato nello sguardo il sentimento
che gliel'aveva fatto compiere, o un sentimento opposto, o indifferenza
soltanto? E stetti a aspettare che scendessero. Fecero fermare in via
Lagrange e s'alzarono tutti e tre, presentandomisi di profilo, così
vicini, che, scendendo, non potevano non vedermi. Incontrai prima lo
sguardo della donna, che fissai per farmi riconoscere; e mi riconobbe
infatti, dopo un momento d'incertezza, e arrossì leggermente, chinando
gli occhi. Incontrai subito dopo lo sguardo di lui, che mi riconobbe
alla prima. Quanto è puerile e finto l'orgoglio, che fa prendere
all'offensore, per ingannare e mascherare insieme la sua coscienza,
l'atteggiamento dell'offeso! Mi diede un'occhiata torbida e discese
col viso adombrato. — Ho io dunque, — pensai, — una così odiosa faccia
di borghese egoista, sfruttatore e disprezzatore d'operai, ch'egli
non m'abbia ancora perdonato, dopo due mesi, un atto di cortesia? —
E di nuovo stava per venirmi su l'ondata di sangue.... ma il grido
di _avanti!_ del fattorino la compresse, come una parola magica: mi
ricordò l'_avanti!_ col quale un giovine signore, apostolo ardente
dell'Idea, una delle anime più generose ch'io conosca, soleva chiudere
ogni suo racconto di atti d'ingratitudine e di diffidenze ingiuriose
con cui era ripagato qualche volta dai lavoratori incolti e duri che
catechizzava. — _Avanti!_ — concludeva, e si ridava all'opera con un
coraggio d'eroe e una pazienza di santo. Sì, che cosa sono questi
risentimenti se non guaiti miserevoli di quello che ti resta dello
stupido orgoglio antico? _Avanti!_
*
Sì, _avanti_: una bella chiusa di discorso, e com'è facile il dir
delle parole nobilmente severe al nostro orgoglio! Il male è che
l'orgoglio, quando gli si parla a quel modo, si rannicchia e lascia
dire, e poi, alla prima occasione, ricomincia a fare il comodaccio
suo. Delle belle parole glie ne dissi anche la sera dopo, trovandomi
sopra una giardiniera di via Roma, seduto, a tre panche di distanza,
dietro le spalle di _Siapure_, che aveva, accanto la sua ragazzina;
e furon parole al vento. La bimba stava voltata un po' di sbieco, e
mi guardava con una insistenza singolare. Certo, mi conosceva; certo,
aveva “letto„ qualche cosa. Ma non riuscivo a capire il suo sentimento
dal suo sguardo, che somigliava a quello con cui qualche volta si fissa
una persona pensando ad un'altra. Aveva inteso suo padre parlar male
di me? O gli aveva inteso esprimere con parole benevole il rammarico
della nostra amicizia spezzata? Sentivo un malessere sotto lo sguardo
pensieroso di quel giudice di dieci anni, che pareva mi frugasse
nell'anima, e che ora aveva l'aria di dirmi dolcemente: — So che a
mio padre vuoi ancora bene: perchè non gli stendi la mano? — e ora
con espressione di rimprovero: — Tu odi mio padre; perchè l'odi? —
No, bambina, — le risposi in cuor mio, — rassicurati, non l'odio; non
potrei e non lo merita; ho dei torti io pure. Sì, certo, dovrei esser
io il primo, come tu pensi, a tendergli la mano. Ma per far questo,
vedi, dovrei esser ragionevole e buono; e non son nè l'uno nè l'altro,
benchè abbia scritto qualche cosa che può farlo credere, e benchè tu
mi veda i capelli grigi. Io son pieno d'orgoglio. Ah, se tu sapessi
come questo povero orgoglio ci fa più piccini di voi! Ecco, vedo che
c'è un posto vuoto vicino a voi due: sento una voce che mi spinge a
scendere sul predellino e ad andarmi a sedere accanto a tuo padre; e
sento un'altra voce che mi dice: — Sta lì! Non ti muovere! —; la prima
è dolce e m'intenerisce; la seconda è aspra e mi sdegna; e non di meno
io cedo a questa; e me ne vergogno in faccia a te, cara bambina; ma
preferisco questa vergogna alla compiacenza profonda e gentile che
proverei facendo quello che tu vorresti, e che io pure vorrei. Andiamo,
volta il capo dall'altra parte, non mi guardar più; non merito lo
sguardo dei tuoi occhi buoni e innocenti, te lo assicuro! — Si fermò
in quel punto il tranvai e _Siapure_ si voltò a guardare dove fosse
diretta l'attenzione continuata della sua figliuola: mi vide e mi
fissò. Sarebbe stato quello il buon momento! Ma lo lasciai passare.
— Avanti! — gridò il fattorino, e il tranvai ripartì. Come mi suonò
diverso quell'_avanti_ da quello del giorno prima! Sì, avanti — voleva
dir questo — avanti sempre così, orgogliosi, meschini, spregevoli fino
alla morte.
*
E — avanti! — gridava _Desbotonass_ ogni volta che il tranvai si
fermava sul Corso San Maurizio, la sera della festa di San Pietro.
Aveva accanto sua moglie; doveva aver festeggiato il proprio
onomastico; era briaco fradicio. I lampioni, danzando e moltiplicandosi
ai suoi occhi, confondevano le sue idee topografiche; credendo di
essere al Valentino, si stupì di veder lì la Mole Antonelliana, che
apostrofò; scambiò l'Arena torinese con una casa di canottieri; e la
vista improvvisa del piazzale delle Benne lo riempì di maraviglia
come un'apparizione fantastica. — _Ma dovè che semm chi?_ — andava
esclamando; — _ma dovè che se va?_ — E sempre ripicchiava su quel
chiodo di non voler che il tranvai si fermasse, e gridava: Avanti! con
furore crescente. Poi s'assopì per qualche momento, e, ridestandosi,
fu preso da un impeto di tenerezza malinconica per sua moglie, e
messole un braccio dietro la schiena e il capo sulla spalla, cominciò
a confessarle i suoi torti, a dirle che era una buona, una santa
donna, ch'egli era indegno di lei, che voleva cambiar vita; e glie
lo prometteva e glie lo giurava; ma prima voleva esser perdonato. E
inutilmente essa gli rispondeva di sì, che gli perdonava, ma che si
quietasse, che non facesse scene. Ogni sua assicurazione di perdono
non faceva che dar la stura a una nuova e più larga ondata di parole
di pentimento e d'affetto, rotte da singhiozzi di pianto e di vino.
— _Ah no.... meriti minga.... no, sont minga degn.... A ona donna
come ti! La mia Mariettina! Dimm che te me perdonet! Te me 'l devet
dì ancamò una volta, ancamò cent, ancamò mila volt!_... — E di nuovo
accennava a torti propri, a virtù di lei, all'assistenza ch'essa gli
aveva fatta quand'era stato malato, al rimorso ch'egli avrebbe sempre
avuto di non essersi portato con lei da buon marito, all'amore che le
avrebbe dimostrato di lì avanti, cangiando condotta, e perseverando
sulla buona via, _fina al moment de sarà i œucc_. E in quell'eruzione
di parole briache, che mettevan disgusto, veniva pur fuori il fondo
d'una natura buona, guasta, ma non pervertita ancora, che mi faceva
pensar tristamente a quante altre nature simili il vizio aveva
pervertito affatto e andava pervertendo di continuo; e alle miserie e
ai martirii d'innumerevoli povere donne come quella, torturate e uccise
dal veleno maledetto ch'esse non bevono; e tutte quelle larve d'uomini
avvelenati e di donne infelici, che mi passavan davanti per l'aria,
rendevano triste ai miei occhi quella bella sera stellata e tepida di
fin di giugno. Triste di questo pensiero antico, misto di rimorso e
di vergogna; che non facciamo nessuno il dover nostro, che dovremmo
bandire una crociata universale, ardente e infaticabile contro il
mostro, non per mezzo di leggi e di prediche, ma disputandogli ad una
ad una le sue vittime, con amor paziente e intrepido, col consiglio,
con la preghiera, con la carità, con la comunione intellettuale,
con tutte le forze che mettiamo in opera per salvar dal suicidio un
fratello.
CAPITOLO SETTIMO.
Luglio.
Calori, languori, esami: soffia il terror del _cinque_ e dello
_zero_ anche sulle giardiniere. Il tranvai è come una gazzetta vocale
viaggiante che ci tiene in giorno non solo degli avvenimenti politici,
ma delle passioni predominanti a volta a volta nello spirito pubblico.
Da una settimana, su tutte le linee, colgo a volo da passeggieri
d'ogni condizione frammenti di discorsi scolastici, espressioni di
timori e di speranze, accenni a difficoltà e a pericoli, esclamazioni
sospirose di mamme, che parlano di “preferenze„ e d'“ingiustizie„,
di “raccomandazioni„ e di “pressioni„ come se avessero i figliuoli
sotto processo. Sui tranvai che passano davanti alle scuole verso il
mezzogiorno, salgono ragazzi e giovinetti coi capelli arruffati, col
viso acceso e con le mani sporche d'inchiostro; i quali parlano con
voce eccitata e stanca di soldati che si raccontino a vicenda i casi
d'una battaglia. Si sente nella voce d'alcuni l'intenzione di farsi
ascoltare e il compiacimento altero della vita intellettuale, si vede
negli occhi loro un balenìo di speranze lontane di gloria, di alti
uffici sociali e di ricchezze conquistate con l'ingegno. Ahimè! E io
penso a quanti di loro, dopo esser passati per la trafila d'altri cento
esami, e aver tentato e abbandonato, sgomentati dalla moltitudine dei
concorrenti, molte altre vie maestre e traverse, parrà una fortuna
di potersi rifugiare in uno di quei carrozzoni, col libretto degli
scontrini in mano e il corno appeso al collo. E non vedo l'ora che
sian passati questi “giorni del terrore„ dell'istruzione pubblica,
poichè i discorsi che ascolto mi fanno pensare a migliaia di cervelli
strapazzati, di cuori trepidanti, di amari disinganni paterni, di
castighi, di scene domestiche dolorose, ed anche a suicidi miserandi
d'adolescenti; e all'udir quelle allusioni alla farraggine delle
materie d'esame, mi domando con tristezza quanto tempo passerà prima
che s'abbia il sapiente coraggio di procedere a una semplificazione
degli studi, la quale ne faccia d'un carico opprimente un nutrimento
sano e gradevole, e penso con dolore che passerà un tempo anche più
lungo prima che siano migliorate in modo le condizioni del lavoro
meccanico, che non paia più una condanna il dovervi rimanere e quasi
una degradazione il discendervi; senza di che non vi è salvezza per la
società civile, che sarà uccisa dalla pletora degli spostati infelici
e violenti. Ma mi rallegra un caso ameno, e non raro. Mi trovo sopra
una giardiniera con un arguto professore di liceo, il quale, dicendomi
che dallo strapazzo intellettuale nascerà nel venturo secolo qualche
nuova malattia, una specie di tabe scolastica, che istupidirà un'intera
generazione, tace tutt'a un tratto per tender l'orecchio verso due
signore, che salgono dietro di noi, seguitando un discorso in cui egli
ha inteso il suo nome. Ah! sono pericolosi i tranvai, in questi giorni,
per i professori! Tendo l'orecchio anch'io. — Il grande scoglio è
quello —, dice la signora più giovane, sospirando; e ripete il nome. —
L'anno scorso si sperava d'esserne liberati, poichè n'è stufo anche il
preside; ma ha delle protezioni al ministero, dicono, e restò. Basta
guardarlo in faccia. Un di quei cani!
*
Ma il luglio, con l'aprirsi dell'_Arena_ e del _Teatro torinese_,
posti sulla linea dei viali, mi portò un divertimento nuovo, che trovo
descritto fra gli appunti, in una pagina finita. È uno spasso per me il
percorrere quella linea la sera della domenica, all'ora che finiscono
le rappresentazioni diurne. All'imboccatura di via Vanchiglia, e poi
davanti all'Arena e al Teatro, si fanno tre infornate successive
di passeggieri che portano nel tranvai tre ordini di discorsi
disparatissimi di argomento, d'intonazione e di mimica, discordanti
all'occhio non meno stranamente che all'orecchio. La prima è tutta
d'uomini, usciti dal gioco del pallone, che continuano i commenti e le
discussioni sulle partite e sulle scommesse, ripetendo cento volte le
stesse parole: quindici, quaranta, fallo, dividendo, battuta, rimessa,
e imitando i colpi e le mosse con gesti impetuosi e esclamazioni
ammirative, in cui spira un soffio sano di forza, di lotta, d'aria viva
ed aperta. Davanti all'Arena, dove si rappresenta l'operetta, salgono
dei giovanotti col viso acceso di tutt'altra fiamma, i quali commentano
con risate e parole grasse le maglie piene, i gesti impronti e i motti
equivoci, spandendo intorno un soffio di sensualità e di licenza, che
desta nei vicini dei sorrisi lubrici e delle fantasie peccaminose. Un
po' più là vengon su dal Teatro bottegaie, crestaine, qualche volta una
famiglia intera, tutti coi lucciconi, ancora commossi dalla chiusa del
dramma, esclamando tutti insieme: — Una bella produzione! — Fa troppo
pena. — Hai visto com'è morto? — Ha fatto la fine che si meritava. —
Povera ragazza! E son cose che succedono! — e spira nei loro discorsi
lo sdegno contro il malvagio, la pietà per l'innocente oppresso, la
gioia della virtù trionfante, una commozione buona, sincera, profonda,
che fa comprendere quale grande forza, disconosciuta dai più, male
usata da molti, inettamente trascurata da municipi e da governi, sia
il teatro popolare. E da un capo all'altro della giardiniera gioco,
musica e dramma, nomi di battitori e d'attori, ritornelli, volate,
pistolotti, morte, amore, totalizzatore mi si confondono all'orecchio
in una sola conversazione strana, antitetica, burlesca e triste come
la vita: immagine della vita anche in questo: che a ciascun gruppo
pare leggiero, stupido o odioso l'argomento dei discorsi dell'altro, e
che basta l'accidente più futile, come l'apparizione d'un cappellino
stravagante o il barcollare d'un ubbriaco che passa, a far sì che
tutti si distraggono dai loro pensieri e mettan fuori in coro un _Oh_
prolungato di stupore, che rivela il fondo fanciullesco di tutti.
*
Pioggie, uragani, il mondo sottosopra: un'estate degna dell'inverno
di Abba-Garima. Ma debbo ai carrozzoni chiusi d'essermi trovato in una
delle congiunture più curiose che possano occorrere a un passeggiere di
tranvai. Dopo tanto tempo ritrovai sulla linea di via Garibaldi il bel
capitano di fanteria e la moglie ipotetica dell'impiegato delle Poste
(lettere raccomandate). Alla prima occhiata mi parve che non fossero
più audaci come l'altra volta, che la passione, quetandosi un po',
avesse ridato luogo in loro alla prudenza dei primi giorni. Eran sedute
dentro con noi altre persone, fra cui ricordo un giovanotto che aveva
nella cravatta una grossa spilla di porcellana, con su scritto ad arco
in caratteri leggibilissimi: — _Cerco moglie;_ — ma questi e gli altri
discesero in Piazza Castello, e restammo noi tre soli. Vidi allora
negli occhi dei due, che sedevano l'uno di fronte all'altro, balenare
un raggio come di speranza. Senza dubbio, s'avevano da dire qualche
cosa d'importante prima di lasciarsi, come facevan sempre, come due
persone che non si conoscessero, e aspettavano che io discendessi in
via Po. Ma io dovevo fare ancora un buon tratto; oltrechè mi tratteneva
lì la curiosità inseparabile dalla mia professione. M'accorsi ch'erano
impazienti, incontrai uno sguardo di lui che mi disse chiaramente: — Se
sapesse che piacere mi farebbe a discendere!
— Pensi un po' se non lo capisco! — gli risposi dentro di me. — Ma
debbo trattenermi per ragion di studio: lei ci ha il suo amore, io ci
ho il mio libro.
Il tempo passava. Uno sguardo della signora mi disse: — Se ne vada
dunque una volta! — ma così apertamente, che ne fui offeso. E le
risposi con gli occhi: — No, non è codesta la maniera: me lo chieda con
più garbo e potrà essere ch'io la contenti.
Si scambiarono un'occhiata che equivaleva a un'esclamazione a due voci:
— Che testardo importuno! — Egli tormentava con la mano la dragona
della sciabola; essa l'anello dell'ombrellino.
Un momento dopo egli mi diede una guardata che fu un vero e proprio
spintone; ma essa corresse subito l'effetto dell'atto brutale con uno
sguardo ansioso e quasi umile, che diceva: — Lei ha capito; mi faccia
questo favore; non abbiamo più che un minuto; la supplico.
Impietosito, feci l'atto di alzarmi; ma in quel momento sonò il
campanello e il tranvai s'arrestò: saliva una famiglia.
E allora mi fulminarono tutti e due insieme con una tale occhiata,
che mi parve di sentirmi entrare a un punto nelle carni la punta
dell'ombrellino e la punta della sciabola, e m'affrettai a discendere,
volgendo in mente questa pagina, che mi costa un rimorso. Ma non m'ero
certamente ingannato: l'amore doveva esser già malaticcio, e mi diceva
il cuore che un giorno l'avrei visto trasportar dal tranvai, come da un
carro funebre, morto di consunzione.
*
Seguita un tempo matto, variato d'acquazzoni violenti, di
rasserenamenti repentini e di scrosci di pioggia rincalzanti; durante
il quale faccio una scoperta preziosa che mi apre sul tranvai un
nuovo ordine di godimenti artistici squisiti. Costretto a star sempre
dentro al carrozzone, scopro che riescono bellissimi, all'apparire
improvviso del sole, certi prospetti della città, veduti nel vano
delle due porticine che li racchiudono come in una cornice oscura,
giovando all'occhio come il far canocchiale della mano davanti a certi
particolari d'un quadro. Quante piccole maraviglie! Da via Garibaldi
immersa nell'ombra vedo un pezzo della facciata del Palazzo Madama,
con dinanzi l'alfiere marmoreo del Vela, piccolo come una figurina
di scacchiera, d'una bianchezza di neve, luminoso e vivo su quel
fondo cupo, come se splendesse di luce propria e avesse sentimento
della sua gloria. Nella via del palazzo di Città vedo inquadrato
nell'uscio, illuminato di fianco, il gruppo violento del Conte Verde
e dei Saraceni, in mezzo alle statue più lontane del principe Eugenio
e di Emanuel Filiberto: un quadretto un po' manierato e teatrale,
ma vivissimo, della vecchia Torino austera e guerriera. Vedo in via
Roma, come dentro a una finestra, l'alta figura impennacchiata del
vincitore di San Quintino, che spicca in nero sulla lontana facciata ad
arco della Stazione, trasparente e ridente come la porta monumentale
d'un giardino maraviglioso. In via Po, come pel vano di due opposte
feritoie, ammiro da una parte la Gran Madre di Dio, lumeggiata dal sole
che tramonta, spiccante sul verde fosco della collina, come un blocco
smisurato di marmo roseo, e dall'altra parte la faccia posteriore del
Castello, rude e tetra, nell'atto che n'esce e passa sul ponte una
processione di _Figlie verdi_ coi veli bianchi: un quadretto medioevale
misterioso e severo, a cui non mancano che due alabardieri corazzati
ai due lati del portone, minacciante ancora una sortita d'assediati. E
ricordo altri innumerevoli quadri alti e stretti, che presentano sfondi
lontani e vaporosi di vie diritte e lunghissime, segnati d'un tratto
nero da un camino d'officina, somigliante a un dito titanico; quadri
pieni del verde dei colli e dell'azzurro e del bianco delle Alpi, su
cui s'intaglia vigorosamente la spalla enorme d'un passeggiere ritto
sulla piattaforma; quadri semplici e profondi, d'un sol colore turchino
carico, in cui brilla uno spicchio argenteo di luna, e sopra la luna
una stella. E durante una corsa sola, cangiando il tempo, tutte queste
vedute s'annebbiano e tornano a rischiararsi, perdono e riprendono
i colori, e mentre il quadro davanti, su cui si disegna la testa del
cocchiere, si riaccende, il quadro di dietro, sul quale spicca la testa
del fattorino, si rioscura, tanto che di là par mattino e di qua sera;
e poi tutto quanto, davanti e di dietro, si confonde in un solo color
grigio, rigato dalla pioggia obliqua, dietro alla quale spariscono le
case, le colline, le Alpi, il cielo, e le due piccole porte non son più
che le cornici di due paesaggi confusi, che rappresentano l'uggia e il
malumore.
*
E acqua e fulmini e ira del cielo. I giubilati debbon scappare
ogni momento dai viali per rifugiarsi nei tranvai chiusi, dove,
raggomitolandosi e tossicchiando, si lagnano dello sconvolgimento delle
stagioni, del mondo mutato, dell'estate che non è più estate come al
loro buon tempo. E in loro posso esaminar gli effetti lamentevoli di
questi improvvisi mutamenti atmosferici che aggravano il peso degli
anni, sconvolgono i nervi, inacerbiscono tutti gl'incomodi, scolorano
tutt'a un tratto il mondo e la vita a innumerevoli creature umane. Vedo
delle vere carrozzate d'umor nero, tranvai che paion sale d'aspetto di
medici consulenti, con dei visi di vecchi atteggiati a quella serietà
cupa e immobile, che tradisce la mente inquieta, intenta a osservare
i movimenti irregolari della macchina interna scomposta, minacciante
qualche brutta sorpresa. Quant'è mutato anche il mio buon veterano di
via Garibaldi! Me lo trovo davanti, rincantucciato in un carrozzone
della linea di Vinzaglio, con la fronte solcata da una ruga verticale
profonda, e al mio: — Come sta? — risponde con voce rauca: — Niente,
niente bene. E come si può star bene? Non c'è più stagioni! Chi ne
capisce qualche cosa? È il mondo che va a soqquadro.... E poi, e poi,
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