La Carrozza di tutti - 17

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corpo di...., che ha ancor da salire mia moglie! — Poi, guardatolo
bene in viso, soggiunse fra i denti: — La mattina almeno non dovrebbero
bere.
E Giors, con una mitezza che mi commosse più di quanto aveva detto fino
allora, — _Ca scusa_ — rispose; — non avevo proprio visto. Eh, ho la
testa per aria.
E ripartito che fu, disse di nuovo a mezza voce, tentennando il capo e
guardando lontano davanti a sè: — Già, e cosa faccio io se mi manca?
*
Poi, per vari giorni, trovai qualcuno dei miei attori quasi a ogni
corsa, come se ci fossimo dati convegno. Trovai una mattina, sulla
linea del Ponte Isabella, il fattorino _marchese_, che dedicava
tutte le sue eleganze e le sue grazie a una donna non più giovane,
ma d'aspetto signorile, profumata come uno zibetto; la quale lo
accompagnava di panca in panca con uno sguardo morente. Era una
maschera variopinta di attrice smessa, di quelle donne indiavolate, in
cui ricomincia con la quarantina una seconda gioventù più matta della
prima, e che per un traviamento dei sensi e della fantasia cercano
le avventure al di sotto della propria classe, come certi briaconi
aristocratici, giunti sul pendio del vizio, precipitano all'osteria.
Ah, malcauta! Io le previdi sul belletto la traccia delle cinque dita
di quella terribile bruna gelosa, in presenza della quale avevo visto
il signor marchese timido e contegnoso come un seminarista....
Rividi un altro giorno il “tranvaiofilo„, l'ardente paladino della
_Belga_.... in qual lavoro occupato! Non avevo pensato mai che la
passione per la carrozza di tutti potesse salire a un tal grado
d'ardore da far discendere il dilettante a dare una mano al cocchiere
per rimettere sulle rotaie la giardiniera fuorviata. E con che
entusiasmo spingeva, con una spalla contro il parapetto, puntando
i piedi e gonfiando il collo, nell'atteggiamento d'un prodigo
dell'inferno dantesco, fiammante nel viso e superbo di faticare per una
“santa causa....„
Rividi il mio persecutore sonettista, che mi si venne a sedere accanto
sull'ultima panca, con un sorriso d'aguzzino; ma questa volta mi
salvò un operaio, seduto davanti a noi, con una pipaccia orribile fra
i denti, la quale mandava in viso al poeta dei nuvoli di fumo così
pestifero che, dopo avermi tossito nell'orecchio una quartina, dovette,
soffocando e sagrando, rimangiarsi gli altri dieci versi per non
sputare i polmoni. O imprecata Regìa italica, tu fosti almeno una volta
benedetta!
E ritrovai sulla linea di Lanzo, dopo cinque mesi, quel certo erotico
sereno dalla zazzera bianca e dagli occhi azzurrissimi, arieggiante un
pastore evangelico, ritto in fondo a una giardiniera occupata quasi
tutta dalle alunne d'un collegio, dai quattordici anni ai diciotto,
vestite di color lilla, con una mantellina minuscola di seta nera; le
quali, conversando vivacemente da panca a panca e torcendo i busti
snelli come solleticate da mani invisibili, presentavano ai suoi
occhi il profilo grazioso dei loro nasini scolareschi e dei loro petti
virginei: la sua giardiniera ideale! Oh come il suo sguardo chiaro di
erotico intellettuale scorreva agile e lieto su tutte quelle spalle
e su tutti quei colli adolescenti, come si tuffava in tutte quelle
capigliature fresche, come nuotava in quella primavera rosata! Come
si godeva i suoi dieci centesimi! Si capiva che non sarebbe disceso
per cento lire. Ma, in via Milano, lo distrasse da quello un altro
spettacolo anche più allettante. Mentre il tranvai andava di tutta
corsa, un bel pezzo di bruna sui trent'anni, senza cappellino, con
un canestro di fiori alla mano, prese l'abbrivo dal marciapiede e,
adocchiato un posto vuoto in capo a una panca, spiccò un salto.... e
_là_, ritta sulla pedana, con una mano alla colonnina e il canestro per
aria, nell'atteggiamento d'una cavallerizza che, passato il cerchio,
ricasca sulla sella e chiede l'applauso. Era la famosa fioraia di Porta
Palazzo, nota a tutti gl'impiegati del tranvai per quella sua destrezza
acrobatica. Seduta che fu, in mezzo all'ammirazione delle ragazze,
parve che l'erotico raccogliesse su di lei, in un con lo sguardo, tutti
i suoi pensieri, e stette un pezzo così, immerso in una meditazione
profonda e tranquilla, di cui sprizzava la dolcezza dagli occhi
socchiusi e dalle labbra sorridenti....
*
E rividi anche il cavalier Bicchierino, miracolo! non nella solita
via Garibaldi, ma sulla linea dei Viali, più rotondo e più lustro che
mai. Doveva _fruire_ d'una breve licenza estiva e far quella corsa per
ricreazione, perchè non l'avevo visto mai in un atteggiamento di così
placido riposo, così chiaro nel viso, così palesemente libero da ogni
pensiero del “cancello„. Egli spaziava con lo sguardo sui corsi e sulle
piazze, osservava i lunghi filari d'alberi, le botti inaffiatrici che
passavano, gli operai occupati a sparger ghiaia e a piantare nuove
acacie, e dalla sua serietà abituale trapelava l'alterezza del vecchio
torinese innamorato della sua Mecca, il godimento della linea retta,
l'ammirazione della simmetria, la compiacenza per il buon andamento
dei servizi municipali, la soddisfazione di vedere tutti i passanti
che andavan verso il Po tenere la destra, e tutti quelli che venivan
su, il lato opposto, come si deve fare in mia città civile, e come non
si fa, _dioumlo pura_ (diciamolo pure) che a Torino. Ma in vicinanza
del Teatro Torinese la sua quiete fu turbata. Il fattorino esclamò;
— Ah, eccole qui quelle dello sciopero! — e vedemmo venire dal ponte
delle Benne una lunga processione di donne d'ogni età, che ingombravano
tutta la strada, levando polvere come un armento, e mandavano fino
a noi un mormorio sordo e confuso come d'un fiume rotto tra i sassi.
Erano le operaie di non so che opificio del Parco, scioperanti da due
giorni, che andavano alla Prefettura. Il cavaliere si voltò bruscamente
a guardarle, ed io vidi sul suo viso un mutamento istantaneo,
maraviglioso, come d'uno a cui si attorcano tutt'a un tratto le
viscere. Non avrei meglio compreso quello che passava nell'animo suo
se si fosse sfogato con un discorso. Compresi che quel fatto d'uno
sciopero, per sè solo, astratta ogni idea di ragione o di torto che gli
scioperanti potessero avere e di condotta pacifica o tumultuosa a cui
fossero per attenersi, urtava violentemente tutti i suoi sentimenti e
i suoi principî, offendeva in modo intollerabile tutti i suoi istinti,
gli faceva l'effetto d'un abuso enorme, d'una violazione temeraria
di tutte le leggi, d'una perturbazione criminosa dell'ordine sociale
e naturale, come se avesse visto le case e gli alberi del corso
rompere le file e ballare la tarantella. Il tranvai lasciò presto la
processione a distanza; ma egli continuò a guardarla, voltato indietro
in una positura incomoda, con una fronte così rimbrunita, con gli
occhi così dilatati e torbidi, che mi fece pietà; tanto si vedeva che
soffriva, che non poteva sopportare lo spettacolo di quell'“anomalia„
in quel corso così diritto, fra quelle case tutte d'un'altezza, in
quella sua Torino dove tutti camminavano con quel bell'ordine per
viali così ben tenuti. Povero cavalier Bicchierino! Se la vedeva così,
non era già per cattivo cuore; il suo viso diceva che era uomo da
comprendere e da sentire le miserie umane, da dar ragione ai deboli
quando chiedevano il giusto e l'onesto. Ma occorreva che la pietà,
il sentimento della giustizia e tante altre belle cose gli entrassero
senza urtare quelle quattro idee piantate ai quattro canti della sua
mente come i quattro soldati intorno al monumento di Carlo Alberto,
ossia, che gli scioperanti scioperassero senza cessar dal lavoro, e
andassero alla Prefettura a tempo avanzato, a uno a uno, in punta di
piedi, per trecento strade diverse, con un bel foglio alla mano, in cui
tutto fosse esposto e spiegato in ben conteste frasi d'ufficio. Senza
cuore il cavalier Bicchierino! Ma per pensarlo converrebbe non sapere
che di tutti i teatri d'Italia sono i torinesi quelli in cui i drammi
commoventi strappano dalle tasche un maggior numero di pezzuole e dai
petti i _bravo_ più somiglianti a un singhiozzo! E lo vidi alla prova
in quella stessa corsa, allo svolto di via Vanchiglia, dinanzi al caso,
non raro, d'una famiglia che dava l'ultimo addio, sul predellino del
tranvai, a una persona cara, diretta alla Stazione di Porta Nuova. Era
una ragazza che partiva; il suo vecchio padre e una sorella sciancata
l'abbracciarono; la mamma le chinò il capo sul seno, piangendo
dirottamente; il fattorino e il cocchiere non osavano di lagnarsi del
ritardo; tutti le guardavano commossi. Ma il primo a prendere l'involto
della ragazza fu lui, Bicchierino, e con un atto così rispettoso, con
un viso così compassionevole, con un: — _Ca permetta!_ — così tremolo
e così buono, che lì per lì feci giuramento di non dargli mai più un
dispiacere. — No, povero Travet, ancora così mal conosciuto in Italia
anche dopo la gran commedia che t'ha dato il nome, non dirò mai più
che è stretta via Garibaldi, non taglierò mai più il _Popolo_ con le
dita, e se avrò un giorno la fortuna di conoscerti, farò uno sforzo per
parlarti il più puro piemontese che sia mai risonato sul palcoscenico
del Teatro Rossini, e non urterò alcuna delle quattro idee guardiane
del tuo cervello, anche a costo di mettere al laccio le mie....
*
Peccato che non ci fosse lui.... Ma no, perchè forse, anche
commovendosi, egli avrebbe visto in quella scena un esempio di
confusione di classi, che poteva offendere nell'animo suo il sentimento
dell'ordine sociale. Ma per me fu la scena più gentile che mi
fosse occorsa mai sulla carrozza di tutti. La giardiniera s'arrestò
all'angolo di via Maria Cristina e di via Baretti, dove l'aspettava
un vecchio muratore, con la giacchetta sulle spalle, sostenuto per
un braccio da un murator giovane, che l'aiutò a salire, facendogli
qualche raccomandazione, e lo salutò, dicendogli: — In gamba! — Quello
sedette a sinistra d'una bella signorina bionda, un'adolescente precoce
dal viso di bimba, alla quale i capelli d'oro, le carni rosee, il
vestito bianco davano come uno splendore diffuso, in cui il sorriso,
ogni volta ch'ella sorrideva alla cameriera seduta alla sua destra,
pareva una luce nella luce, e rivelava il pensiero ancor fanciullesco.
L'operaio, si capiva, era stato colto da qualche male improvviso e
costretto a lasciare il lavoro: teneva ancora il cappello di sghembo
sui capelli grigi arruffati, come forse glie l'avevan messo rialzandolo
da terra; stava come accartocciato, col viso smorto e col mento sul
petto, e i suoi occhi esprimevano quel senso di tristezza scorata e
paurosa che desta ogni malore repentino in quell'età, insidiata dalla
morte. Davanti e dietro di lui c'erano signore e bambini eleganti;
sulle altre panche la solita gente varia; da ogni parte uno sventolìo
vivace di ventagli e di cappelline. A un tratto, mentre si sboccava sul
corso Vittorio, s'intese un grido. Era la signorina bionda, a cui il
muratore, preso da deliquio, aveva abbandonato il capo sulla spalla.
Il suo primo senso fu di sgomento, e scattò indietro; ma si riebbe
nell'atto stesso per sorreggere il vecchio che cadeva, e non potendo
tenerlo con le mani, lo rialzò facendo forza con tutta la persona, lo
rimise nell'atteggiamento di prima e porse la spalla al suo capo morto,
che vi ricadde su pesantemente, perdendo il cappello. Tutto questo
in un attimo. Ah, brava _tota_! Com'eran succeduti pronti sul suo bel
viso d'inglesina al terrore la risoluzione e al ribrezzo la pietà, e
com'era angelicamente bella, così, pallida dalla commozione, ma ferma
e quasi altera, con quella fronte splendida inclinata verso quella
povera testa di vecchio operaio senza vita, che s'appoggiava a lei come
a una figliuola! Il tranvai si fermò; accorsero alcuni per prendere il
malato; ma una boccetta d'essenza, ch'era passata di mano in mano, gli
aveva già fatto riaprire gli occhi e rialzare la fronte. La signorina
raccolse il cappello chiazzato di calce e glie lo rimise sul capo
con garbo, sfiorando con le sue piccole mani bianche i suoi capelli
grigi, gli riaggiustò la giacchetta sulle spalle, lo aiutò a discendere
mettendogli le palme sotto i gomiti, lo guardò mentre s'allontanava
accompagnato da due passanti, e quando il tranvai ripartì, espandendo
l'animo oppresso dalle commozioni diverse, prima sorrise ai presenti
che la guardavano, e poi ruppe in pianto.
*
O benedetta carrozza di tutti!... Eppure c'è chi dice corna di te e
ti vorrebbe a terra. Fu un atto d'accusa in tutte le forme, un vero
stroncamento dell'istituzione quello che fece l'ultimo giorno del mese,
in un carrozzone chiuso di via Lagrange, in cui m'aveva cacciato la
pioggia, un grosso medico panciuto e arcigno, dai capelli rossi e dagli
occhiali verdi. Egli si sfogava con un amico seduto in faccia; ma tutti
gli altri ascoltavano e se la godevano, approvando, per eccitargli
la vena. Aveva preso le mosse da un suo nipote, un giovanottone di
diciott'anni, forte come un bufalo, che non era più buono a andar da
Piazza Savoia a Piazza Venezia senza farsi tirare da due rozze. Era
una vera epidemia di pigrizia, diceva, quella che i tranvai avevano
portato nella cittadinanza. Tutti quelli che avevan dei soldi da
buttar via non camminavano più. In verità. Egli conosceva centinaia di
poltroni sani come lasche, per i quali il fare un chilometro a piedi
era diventata una delle dodici fatiche d'Ercole. — Si sfibra la razza,
positivamente; gli uni perdono le gambe, gli altri il cervello. Non
vedete i due eccessi opposti? C'è una razza di vecchi matti che per far
del moto si sciupano i polmoni e arrischian le ossa sulla bicicletta,
e un esercito di giovani che non fanno più trecento passi al giorno
coi propri piedi. È un incarognimento generale, mi scusino, è la vera
parola; e lascio stare che se si spendesse in beneficenza la metà dei
denari che si sprecano per farsi portare da una cantonata all'altra, si
darebbe del pane a migliaia d'affamati. Ma certo. I tranvai! Ma sono
un'istituzione funesta all'igiene, veicoli d'aria viziata, che hanno
soppresso la passeggiata stimolante prima del pranzo, la passeggiata
digestiva dopo cena, le camminate regolari da casa all'ufficio.... Non
vedete quanta obesità gira per Torino da dieci anni a questa parte?
Non c'è da ridere. Vi dico che cresce l'adipe in un modo spaventoso.
Si vedon delle signore di trent'anni che paion palloni, degli uomini
di quaranta che paion botti. Un incarognimento, ripeto. E chi vivrà
fra cinquant'anni vedrà passare dei carrozzoni che parranno stie piene
di galline faraone e di tacchini ingrassati per il Natale! — Tutti
ridevano. E benchè ridessi anch'io, m'inquietò nondimeno un poco il
timore di addossarmi col mio libro una parte anche minima di colpa
della futura pinguedine d'Italia. E rimasi pensieroso davanti a quella
visione comica d'un popolo di lune piene e di pancie enfiate. — Però, —
pensai, — per il popolo italiano.... c'è tempo.


CAPITOLO NONO.

Settembre.
Il settembre porta sui tranvai un soffio di vita nuova. Vi comincio
a rivedere figure note di _travet_, ch'erano scomparsi, rinverditi da
un mese di licenza, signore imbrunite dai venti del mare, visi vivaci
su cui preluce la gioia del “viaggio circolare„ o della vendemmia,
e reduci dalla villeggiatura, i quali si riconoscono allo sguardo
quasi di forestieri che girano su Torino, non più veduta da un pezzo,
salutandola con un sorriso che rivela il gusto rinascente degli agi e
degli svaghi della vita cittadina, e facce esotiche di viaggiatori di
passaggio, che ad ogni crocicchio si voltano di qua e di là a guardar
la fuga delle vie sconosciute. Famiglie intere in abito di campagna,
tornanti dai bagni o dai monti per ripartire per la collina, ingombrano
le giardiniere di valigie e di scatole, tutti eccitati dal piacere del
viaggio, e spandono sulla noia dei passeggieri abituali, sonnecchianti
durante le corse obbligate per le vie polverose, un alito di frescura,
degli effluvi d'alghe e di boschi, che danno loro miraggi confusi di
ville bianche, di valli verdi e di marine azzurre. E cresce la noia
quando il tranvai riprende il suo aspetto solito per le lunghe vie
solitarie, dove non s'incontrano che pochi passanti col cappello da una
mano e il fazzoletto dall'altra, in mezzo alle lunghe file di finestre
chiuse, che par che dai vani delle persiane versino giù il silenzio
morto dei quartieri abbandonati e tenebrosi. E per i relegati nella
cinta daziaria s'aggiunge alla noia il dispetto al veder quell'eterna
collina e quell'Alpe eterna che appaiono ai capi opposti delle strade
come un invito beffardo, come una provocazione maligna. Tra questi son
io, e per giunta alla noia e al dispetto ho il rammarico di non veder
più che assai raramente, fra quel succedersi continuo di facce nuove,
che invadono la mia sala di studio ambulante, i cari attori della mia
compagnia.
*
I primi che rivedo, discesi freschi freschi dalla montagna col loro
idoletto, sono Taddeo e Veneranda, sulla linea solita dei viali, tutti
e due ingrassati ancora, con due facce che paiono il ritratto della
beatitudine. Sono stati venti giorni all'Ospizio di San Giovanni
d'Andorno: mi decantano il paesaggio, l'aria, l'acqua, il pane, la
cortesia della gente; ma son felici sopra tutto d'aver riportato la
bambina fiorente di salute. È, infatti, uno splendore, ed io assisto
al suo trionfo. Ritta in mezzo a loro sull'ultima panca, vestita di
rosa, coi suoi folti capelli castagni tagliati sulla fronte e sparsi
sulle spalle, coi braccini nudi segnati ai polsi di due risegoli da
lattante, essa tempesta padre e madre di domande, apostrofa i vicini,
ride e trilla agitando le manine per aria, spande tutt'intorno la luce
della sua bellezza e la musica della sua allegria. Quel visetto di
Madonna, quell'esuberanza di vita richiamano a poco a poco l'attenzione
di tutti. Si voltano prima dalla panca davanti due signorine, che le
rivolgon la parola e le carezzano i capelli; poi dalla panca più in là
si volta tutta una famiglia a guardarla e a farle dei cenni, a cui essa
risponde mandando dei baci; poi altri più distanti, ragazzi, ragazzine
e signore, attirati da quel continuo trillìo, si girano e le sorridono;
e sotto tutti quegli sguardi ammiratori, al suono di tutti quei saluti
amorevoli la piccola attrice raddoppia di vivacità, si fa più rosea e
più bella, sfavilla e trionfa come un angiolo in gloria. _Che diveniste
allor_, poveri Taddeo e Veneranda? Si danno anche nella vita dei più
oscuri di queste giornate gloriose, che rimarranno nella mente loro
fino agli ultimi anni, come raggi di sole. Un padre e una madre che
vedessero incoronare il figliolo in Campidoglio non potrebbero dar
segno d'un'ebbrezza più grande di quella che splende sulle facce
rotonde di questi due buoni pacioni, ai quali brilla una lacrima
negli occhi ed esce il fiato a stento dalle labbra tremanti, come se
la gioia li soffocasse. E fanno uno sforzo per contenersi; ma a un
certo punto la mamma non ci regge più: bisogna che si stringa al cuore
quella creatura benedetta a cui deve l'ora più bella della sua vita; e
Taddeo, per dissimulare la sua commozione, voltando verso di me il viso
raggiante sotto al velo d'un'indifferenza forzata, mi dice con voce
tremula e quasi spirante: — Pare che il tempo si sia rimesso; ma.... è
difficile.... che duri.
*
Il secondo che ritrovai fu il pittore, che mi saltò accanto una mattina
sopra una giardiniera di via Roma, allegro come se avesse avuto il
primo premio all'Esposizione triennale. — Già _rinurbato_? — gli
domandai. — No, — rispose, — sto ancora a Perosa; ma mi _rinurbo_ tre
volte la settimana. — Tre corse a Torino la settimana, per uno che
non aveva affari e che stava a due ore e mezzo di strada ferrata, mi
parvero molte; e raffrontando la sua nuova allegria con l'umor nero
dell'ultima volta, pensai che dovesse avere qualche forte cagione.
Gli domandai in qual modo gli fosse passata quella grande avversione
per la geometria di Torino, per le file dei cubi gialli, per le strade
tutte pari, dove gli pareva di ritrovarsi sempre alla stessa cantonata.
Mi rispose sorridendo che era passata; ma in qual modo, non disse. —
È l'antipatia per le figliole di Borea, per gli angioli d'alabastro,
per le signorine tutte ritagliate con un solo giro di forbici sopra un
foglio ripiegato in cento? — Ah! — rispose, — era un brutto periodo per
me.... Tutti ne hanno. Ma ora.... tutto è cambiato. —
— Ha dunque rinunciato alla ricerca coniugale sui tranvai? o ha già
trovato?
Si mise a ridere, colorandosi un poco alla sommità delle guance,
e cambiò discorso subito, affollando le parole. Aveva rinunziato
definitivamente a scoprire il mistero della signora delle coincidenze.
— Ah, è più forte di me! — disse. — Non ce la posso! — E mi raccontò
che un giorno, incaponito, aveva voluto tenerle dietro a ogni costo.
Trovatala sulla linea dei Viali, l'aveva vista scendere all'imboccatura
di via Cristina e salire sul tranvai di Ponte Isabella; ed era sceso
e salito anche lui; ma, arrivata in piazza Cavour, quella era scesa,
e aveva preso il tran vai della barriera di Casale; e lui giù e su
da capo; e lei giù per la terza volta in piazza Vittorio Emanuele,
dov'era rimasta a aspettare il tranvai di Vanchiglia; e giù lui pure ad
aspettare lo stesso tranvai a venti passi di distanza; ma all'arrivo di
questo, vedendo ch'essa lo lasciava passare, benchè ci fosse posto, per
aspettare il successivo, egli aveva finalmente desistito dall'impresa
e se n'era andato via, con la curiosità in corpo, più arrabbiata di
prima.
Durante una di quelle corse, appunto, le aveva visto aperto fra le mani
uno di quei piccoli album da dieci centesimi, della casa di pubblicità
del Massarani, nei quali sono segnate in rosso, sul tracciato delle
strade, tutte le linee di Torino, ed essa l'andava sfogliando e
osservando pagina per pagina, come un ufficiale di Stato Maggiore che
studi la carta topografica delle grandi manovre. Chi sa che vasti piani
di strategia tranviaria, che intricate combinazioni andava escogitando,
di corse e di controcorse e di finte mosse e di giri viziosi, e chi
sa mai con che scopo, e per forviare chi, e per riuscire dove? Mistero
profondo! Era meglio non pensarci più; l'impresa era disperata.
Ma mentre diceva questo io vedevo bene che pensava ad altro, che aveva
in cuore una contentezza a cui quel racconto serviva come il ventaglio
alle signore per nascondere certe espressioni involontarie del viso.
Tra una frase e l'altra guardava di qua e di là tutti i tranvai che
passavano vicino o lontano, aguzzando gli occhi, come se in ciascuno
ci potess'essere qualche persona ch'egli cercava; e il suo aspetto
e i suoi modi eran quelli di chi ha un pensiero bello e felice che
s'intromette in tutti i suoi pensieri, un'immagine a cui parla in
segreto anche parlando ad altri d'altre cose, e che danza tra lui e
tutti gli oggetti come i globi di fuoco che vediamo per aria dopo aver
fissato gli occhi nel sole.
A un certo punto non mi potei più tenere e gli dissi ex abrupto: —
Andiamo, a che serve fingere? Mi dica la verità. Lei _ha trovato_, e
non mi vuol far la confidenza per timore ch'io la metta nel mio libro.
Questa volta diede in un ridere così forzato e stonato che tenni per
certo d'aver colto nel segno. Sì, il timore soltanto di esser messo
in stampa lo tratteneva dal farmi la confessione. E continuò a dir
di no, scrollando il capo e sorridendo, e guardandosi la punta d'uno
stivaletto, come se ventilasse in cuor suo se doveva persistere a
negare o sfogar la sua voglia di dirmi tutto. — Ebbene.... — cominciò.
Io porsi l'orecchio per ricever la confessione.
— Ebbene.... no — disse ridendo — se fosse vero.... cioè, quando sarà
vero, lo dirò a lei prima che a ogni altro; ma.... non è ancora.
— Il suo _non è ancora_ è una traduzione traditrice di _è già_. Non
mi può dire almeno la linea su cui l'ha veduta la prima volta? È un
indizio così vago!
— Ebbene.... la linea del Ponte Isabella.
— Carrozzone chiuso o giardiniera?
— .... Carrozzone chiuso.
Ed era tanto rimbambinito nella sua passione che, detto quello, mi
guardò con una certa diffidenza, come se io avessi già tanto in mano
da poter scoprire la persona. — Non importa, — gli dissi — le assicuro
che la scoprirò prima che lei si confessi. — E mentre scendeva, gli
domandai se fosse proprio preso sul serio.
Egli mi mise una mano sulla spalla e la bocca all'orecchio e con
un accento di passione di cui non l'avrei mai creduto capace, così
inaspettatamente caldo e profondo che mi diede una scossa: — Ah! —
esclamò — da perderne la testa!
E messo il piede a terra, mentre il tranvai ripartiva, si voltò da
un'altra parte per nascondermi la vergogna d'essersi tradito così, da
quel buon fanciullone ch'egli era.
*
E finalmente, dopo tre mesi e più, riecco una mattina donna Chisciotta,
che esce quasi di corsa dalla Stazione di Porta Susa e sale sul tranvai
della barriera di Casale, tirandosi dietro tre marmocchi e un facchino
carico di roba, tutta infiammata nel viso, con un cappellino bellicoso
messo alla diavola e un panierino alla mano, dal quale spuntano delle
ciambelle. Dove aveva preso quei tre piccoli mobili, dalla testa
rapata, vestiti tutti a un modo e puliti come specchi, ma visibilmente
di razza povera, che le stavano appiccicati e le sorridevano come a
una mamma? Che ne avesse fatta “qualcuna delle sue„ lo indovinai alla
prima; ma per capire di che specie fosse dovetti aspettare ch'essa
attaccasse conversazione con una vecchia signora, che la interrogò per
indiretto, accarezzando i bimbi, e guardando lei curiosamente. I due
maschietti, disse, s'eran rimessi bene; bastava guardarli in viso; ma
la bimba non era migliorata gran che. Le bisognava una cura lunga, e
per questo ella si sarebbe intesa con sua madre, a cui la riportava.
E si diffuse in particolari sulla malatina, fissando ogni tanto su
quel visetto pallido l'occhio inquieto e amoroso, come se volesse
colorirlo con lo sguardo. In fine, capii che erano poveri ragazzi mezzo
rachitici, di tre famiglie diverse, ch'essa aveva presi in tre soffitte
della propria casa, e portati per venti giorni in Val Sesia, nella sua
villa, dove da vari anni manteneva ogni estate, a spese proprie, una
piccola _colonia alpina_ di bimbi gracili. E poichè la vecchia signora
la lodò, dicendole dolcemente che se tutte le signore avessero fatto
altrettanto, migliaia di ragazzi poveri avrebbero riacquistato la
salute, essa respinse la lode, scrollando il capo, rattristata tutt'a
un tratto, sconfortata dal pensiero della propria impotenza, della
povertà dei suoi sforzi solitari di fronte all'immensità dei bisogni,
alla moltitudine innumerevole dei bambini malaticci che rimangono in
città nei mesi caldi a bere l'aria avvelenata di stamberghe sudicie
e oscure. E ripeteva, certo senza saperlo, il grido del Tolstoi: —
Che cosa fare? Ma! Che cosa fare? — con un accento così caldo e così
doloroso, da far comprendere che quel pensiero le soffocava in cuore
ogni soddisfazione dell'opera buona compiuta; e anche più del suo
accento lo dicevano aperto i suoi grandi occhi neri e sporgenti che,
nel fissarsi su quei tre visi, esprimevano una pietà scontenta, un
amaro rammarico che fossero così pochi, tre! tre soli, e non trenta,
e non trecento, e non trenta mila, come la sua ardente carità avrebbe
voluto. — Ma! Che cosa fare? — Fui a un punto dal risponderle: — Quello
che fai tu, intanto, o anima bella! — Ma vedete un po': questa risposta
così gentile e rispettosa, se glie l'avessi fatta davvero, anche col
_lei_, m'avrebbe valso una presa d'impertinente o di matto; tanto
le convenienze fittizie, nel commercio sociale, fanno a pugni con la
sincerità e con la poesia! Ma poichè la risposta glie la posso dar con
la stampa, _imprimatur_.
*
Per vari giorni non ritrovai più altri; ma in compenso, raccogliendo
dei frammenti di discorsi nei carrozzoni e nelle giardiniere, feci
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