La Carrozza di tutti - 06

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Chisciotta o Chisciottina era un soprannome. Suo marito era un
ingegnere putativo, ricco proprietario di case, e lei era la sua
disperazione. — Una mezza matta — disse — cioè.... un'esaltata, diremo.
Non l'intese nominare quattro anni fa quando ci fu il processo dei
due bottegai di Borgo Nuovo, marito e moglie, che fecero morire il
loro bambino? È lei quella signora che un giorno l'andò a strappare
dalle loro mani, graffiando gli occhi a tutti e due, come una tigre, e
buscandosi un pugno che la mise a letto. Durante il dibattimento, se si
ricorda, non si parlò che di lei e della sua “deposizione„ di fuoco.
— E seguitò. Era un'anima vulcanica, una specie di Santa Francesca
d'Assisi, che si sarebbe ridotta sulla paglia a furia di beneficenza,
e perciò in lite perpetua con suo marito, che, a darle retta, avrebbe
finito con ridurre in ospizi pubblici tutte le sue case. Era conosciuta
da tutta la poveraglia di Torino, ficcata in tutti i Comitati di
soccorso, protettrice di tutti i ragazzi tormentati, di tutti i cavalli
frustati, di tutti i gatti malmenati; sempre in giro per le soffitte
dove si lasciava ingannare anche dalle più sfrontate simulazioni di
malattia e di miseria; capace, in un accesso di mattana, di levarsi il
mantello di dosso in mezzo alla strada per gettarlo sulle spalle d'una
vecchia cerinaia intirizzita o di portare in braccio a casa sua un
ragazzetto smarrito, raccattato sul marciapiede. Dopo che aveva avuto
quel maschietto s'era quetata un po'; ma era raro il giorno che non
ne facesse una delle sue. Il primo dell'anno egli l'aveva vista in un
carrozzone levar di mano al suo figliuolo una bellissima “pecorella„
per darla a un ragazzetto povero che ci lasciava gli occhi addosso,
e discendere subito, col bambino strillante in braccio, per andarne a
comprare un'altra. Suo marito tremava ogni volta che la vedeva uscir
di casa; ma n'era innamorato perso. — Chisciottina la chiamano. E non
sarebbe mica brutta se non avesse sempre quel viso di spiritata, e si
pettinasse meglio. Un bel tipetto, non è vero, per lei che scrive sui
tranvai? Mezza socialista e mezza santa; una socialistoide, come ora
dicono. Se fosse mia moglie, le farei fare le docce.
Mentre io guardavo donna Chisciotta egli saltò a parlare della _signora
delle coincidenze_ che aveva vista tre giorni prima, all'angolo di
corso Oporto, saltar giù dal tranvai del Valentino facendo cenno
di fermare al tranvai del Foro Boario. Ma di lei non gli era ancor
riuscito di saper nulla, e d'altra parte non s'occupava più gran che di
quelle cose. — Ora — disse — viaggio sui tranvai con un altro scopo.
Gli domandai quale. — Cerco moglie — rispose.
Credetti che celiasse; ma diceva sul serio. E continuò, in fatti, con
la più grande serietà: — Mio padre vuole ch'io prenda moglie. Son
tre mesi che due volte al giorno, a tavola, non fa che batter quel
chiodo. Si capisce: è solo, son figliuol unico.... Del resto, c'inclino
anch'io. Sono stufo di far questa vita imbecille.
Restava però a sapere perchè cercasse moglie nei carrozzoni della
Belga e della Torinese. Glie lo domandai. — È una mia idea — rispose
seriamente. — C'è stato un esempio in famiglia. — E mi raccontò che
trent'anni avanti un suo zio, un po' stravagante, ma buon diavolo,
e pien di quattrini, tormentato continuamente da sua madre perchè
pigliasse moglie, un giorno, perduta la pazienza, le aveva risposto:
— Ebbene, sì; ma io non son uomo da cercare; esco di casa e sposo la
prima ragazza che trovo. — E detto fatto: aveva preso il cappello,
era sceso in istrada e aveva seguitato la prima ragazza in cui s'era
imbattuto. Era una maestrina d'asilo infantile, senza un soldo. L'aveva
sposata ed era stato fortunatissimo: aveva trovato una moglie, una
madre esemplare, che l'aveva fatto felice. — E poi — soggiunse —
come fanno gli altri? Girano per i salotti, cercano nelle famiglie.
Ebbene, e i tranvai sono salotti che corrono, e ci si trovano delle
famiglie. Oh, son ben risoluto. Non so su che linea la troverò, se in
un carrozzone chiuso o in una giardiniera.... ma questo non importa.
Sono certo di trovarla sulla rete. Il mio destino dipenderà da uno
scontrino di dieci centesimi, come da un biglietto di lotteria. Crede
lei che sarò io il primo? Chi sa quanti matrimoni si son già decisi
sul tranvai! — Qui troncò il discorso per dire: — Guardi quello là....
Quello è uno dei suoi erotici.
Era un bellimbusto già brizzolato e risecchito, un mezz'uomo tutto
bazza, con due baffetti a punta di spilla e un fiore all'occhiello,
che sedeva fra due giovani signore, quasi affogato in mezzo alle loro
maniche enormi come fra due piumini da letto, e si raggomitolava
per affogarvisi meglio, mostrando negli occhi socchiusi una dolce
beatitudine. — Alle volte, sa, — continuò il pittore, osservandolo
— quei sornioni lì, giocando con le mani, sotto la protezione dei
grandi mantelli delle signore, fingono di sbagliar di ginocchio.
Trovan qualche volta delle signore timide che, per non fare una scena,
mostrano di non accorgersene; altre volte incappano male e ci fanno
una figuraccia. È un gioco d'azzardo. — E soggiunse che, anni addietro,
per un certo tempo, s'era diffuso questo bel vezzo, come una specie di
prurigine epidemica; della quale avevano arrestato il corso parecchi
ceffoni memorabili, femminili e maschili, con successivo intervento di
guardie civiche.
Mentre mi diceva questo, all'entrar del tranvai in piazza Statuto, una
signorina, salita poc'anzi e rimasta in piedi, s'era appoggiata con
una spalla allo spigolo dell'uscio davanti, col viso rivolto verso
l'interno, dove noi c'eravamo seduti. Era vestita di nero, con due
grandi penne nere di struzzo sul cappellino, e la sua persona elegante
si disegnava per metà sulle rocce del monumento del Fréjus e la sua
testa impennacchiata spiccava fortemente sulla bianchezza delle Alpi
che chiudevano il vano superiore dell'uscio. Quella figura nera e
snella incorniciata a quel modo e campeggiante in quel fondo luminoso
era bellissima. — Oh che bel quadro! — esclamò il giovane, rapito.
— Badi, — gli dissi, accennandogli lo scontrino che teneva in mano; —
potrebbe essere lo scontrino decisivo.
Egli scrollò il bel capo erculeo, e rispose con la sua serietà ingenua
di grande fanciullo: — No; ho in mente che non debba esser questa la
linea.
E quando discese mi fece ancora cenno di no, con un sorriso, buttando
in aria lo scontrino.
*
Fu in quel torno che ebbi turbati i miei lieti studi da una
contrarietà, di breve durata, ma forte. Cominciava allora e s'andava
estendendo rapidamente l'uso degli annunzi esteriori sui carrozzoni.
Dentro, questi n'erano già invasi da un pezzo: iscrizioni e figure
dipinte sui vetri, cartellini appesi, avvisi d'ogni forma e colore
appiccicati al cielo e alle pareti, che vi facevan l'effetto d'un vocìo
discordante d'importuni, i quali v'affollassero di offerte e d'inviti,
volendo lì per lì, a ogni costo, calzarvi e vestirvi, insaponarvi e
profumarvi, farvi cambiar di casa, pigliar l'abbonamento a un giornale
e intraprendere una cura idroterapica. S'aggiungevano a questi, in
quei giorni, gli annunzi delle lunghe assi piantate dalle due parti
del tetto, tinte di tutti i colori più chiassosi, con iscrizioni
bianche e nere in caratteri cubitali, vere insegne di alberghi e di
magazzini, leggibili a cento passi lontano, moleste agli occhi come
grida sgangherate agli orecchi, stonanti nel colorito generale della
strada come stecche acute in un coro di voci sommesse. Curioso che
si fosse discusso nel Consiglio comunale se questa offesa al buon
gusto si dovesse permettere nei tranvai, dopo che s'era permessa,
e ben più grave e barbarica, sui teloni dei teatri! Per alcuni
giorni ne fui veramente furioso. A salire in un carrozzone mi pareva
d'entrare in un bazar dove dovessi contrattare anche il biglietto, e
da cui non potessi uscire che con una bracciata di pacchi. O povera
poesia! Ammirare il profilo poetico d'una bella signora spiccante
sopra un vetro che annuncia delle pillole rilassative, veder due
giovani innamorati che prendono degli atteggiamenti idillici sotto
l'insegna della razzia per i topi, fantasticare sopra una signorina
gentile che volge gli occhi in alto come se fissasse una larva amorosa
dell'immaginazione e accorgersi che legge l'annunzio ciondolante d'un
nuovo concime misto! O villano furor bottegaio che sfrutta, invade,
ricopre, traveste, bolla, mercanteggia ogni cosa! Quando vedremo gli
annunzi delle acque minerali e dei liquori ricostituenti sulla fronte
delle statue e sui drappi delle bandiere? Ma l'uomo civile è così
duttile che finisce con piegarsi a tutto. L'insolenza crescente dello
sconcio, come spesso accade, attenuò il senso sgradevole prodotto
dalla sua prima apparizione discreta. Prima mi ci rassegnai; poi ci
divenni indifferente; poi, a poco a poco, quasi mi rallegrarono tutte
quelle insegne scarlatte, gialle, celesti, volanti da ogni parte come
stendardi spiegati al vento; e mi piacquero quelle pareti mobili che
ricordan le camere in cui i pazzi attaccano ai muri tutto quanto di
colorito e di stampato casca loro nelle mani; e quei volanti gabbioni
umani che di dentro e di fuori, con parole, con colori e con disegni,
vi offrono da bere, da mangiare e da leggere, vi danno dei consigli
igienici e v'invitano a consulti medici gratuiti, e vi chiamano alle
corse, alle regate, alle gare ciclistiche, al gioco del pallone e
all'Esposizione dei quadri, mi allettarono come una viva e strana
immagine dello spirito leggiero e irrequieto d'una grande città della
fine del secolo, oppressa di faccende, affollata di capricci, smaniosa
di strepito, affamata di piaceri, tormentata d'impazienze, portata via
dalla furia di divorare il tempo e di tracannare la vita.
*
_Pneumatici Dunlop originali_: ecco un annunzio che non dimenticherò
più. Lo vedo ancora dipinto in caratteri bianchi su fondo rosso come
lo vidi, pochi giorni dopo il mio incontro col pittore, sul primo
carrozzone che passò la mattina per piazza Statuto; sul quale trovai il
mio buon Giors, che tentava invano la solita arietta della _Carmen_,
allegro come un uccello. E ci trovai pure, ritta dietro di lui, col
suo sacco inseparabile, la povera vecchia di Pozzo di Strada, che non
avevo più vista dall'ultimo giorno di carnevale, ancora più triste,
ancora più chiusa in sè che quel giorno. Salì con me sulla piattaforma
anteriore un giovane biondo che attaccò subito conversazione con un
altro signore attempato, commentando l'ultimo assalto dato dai dervisci
al monte Mocram. Mi ricordo sempre che c'eran dentro una vecchia
signora, una guardia daziaria e due contadine. Era una bella mattinata
limpida e fresca. L'aria viva agitava una ciocca di capelli grigi sulla
fronte china della vecchia, che, secondo l'usato, guardava i talloni
del cocchiere con gli occhi socchiusi, tenendo un braccio sull'altro,
stretti alla vita. Mi pareva ancora rimpicciolita dall'ultima volta,
tanto da capir nella bara d'un fanciullo. Non doveva pesare molto
più del suo sacco, certamente. E non dava quasi segno di vita quella
mattina; respirava appena. E pensava, pensava. Ma che covava dunque
dietro quella fronte dolorosa, che pareva portasse confitto nel mezzo
un ferro invisibile? Qual'era mai il pensiero implacabile che teneva
sempre curvato quel capo come la mano d'un aguzzino che lo premesse
alla nuca?
Dall'assalto dei dervisci i due signori vennero a parlare del viaggio
dei Sovrani di Germania sulle coste d'Italia, e il più attempato diceva
che era “una buona cosa„ un'“attenzione„ che “rialzava il nostro
prestigio„ dopo la battaglia d'Adua. L'altro prese a parlare allora
della battaglia e cavò di tasca un foglio grande, che spiegò sotto gli
occhi del suo vicino.
Era una fotografia colorata che rappresentava il campo di Abba-Garima:
le montagne in fondo coronate di turbe abissine e di nuvoli di fumo,
i cannoni fiammeggianti qua e là sulle alture minori, torrenti di
armati precipitanti giù dalle rocce, e sul davanti una mischia feroce,
un viluppo orribile di carri d'artiglieria, di cavalli, di feriti, di
morti, di negri e d'italiani dalle facce stravolte, lottanti a corpo a
corpo con le lance, le daghe e le rivoltelle, insanguinati e furiosi,
io mezzo a pozze e a rigagnoli di sangue.
Sporgendo il viso verso il foglio vidi con maraviglia accanto al mio
braccio il capo della vecchia che, uscendo dalla sua immobilità di
statua, si faceva anch'essa innanzi per vedere. Il giovine signore,
cortesemente, si scansò un poco da una parte e le mise il foglio aperto
sotto gli occhi dicendole: — La battaglia d'Abba-Garima.
Essa osservò un momento con gli occhi dilatati; poi contrasse il viso
in un modo strano, come se ridesse, richiudendo gli occhi e mostrando
le gengive sdentate. Mentre domandavo a me stesso perchè quell'orrendo
quadro la facesse ridere, essa si coperse il viso con le mani e diede
in uno scoppio di pianto che mi fece fremere.
Tutti e tre ci voltammo verso di lei, uno pigliandola per un braccio,
l'altro per la mano, domandandole che cos'avesse. Non potè rispondere
subito. Poi disse fra due violenti singhiozzi: — Ci avevo un
figliuolo.... — e appoggiato un braccio al parapetto della piattaforma,
lasciò cascar sul braccio la testa, in atto disperato, singhiozzando
più forte.
E fu inutile scoterla, cercar di confortarla; neppure il buon Giors
riuscì con la sua mano vigorosa, sciolta dalle redini, a farle rialzare
la fronte, che era come inchiodata al parapetto. I singhiozzi scotevano
violentemente tutto il suo povero corpo incurvato, ed era un pianto
infantile, lamentevole, che pareva non dovesse finir mai più; pareva
che ella versasse tutte le lacrime rattenute da cinque mesi, che tutta
la vita le dovesse fuggire dagli occhi; e ripeteva fra gemito e gemito
una parola rotta, sommessa e dolce, con l'accento d'una madre che parla
al bambino in culla, una parola che non comprendemmo se non dopo averla
intesa molte volte: — _Giacolin_ —; il nome del suo soldato.
Ah, povera madre! Colpiva lei pure l'accusa di viltà che qualche
giornale lanciava in quei giorni contro le madri italiane!
Riuscì Giors finalmente a farle rialzare il capo e a ottener qualche
risposta. Insomma, che fosse morto di certo non lo sapeva, nessuno
glie l'aveva annunziato; ma il cuore le diceva che era morto, che non
l'avrebbe rivisto mai più.
— Ma che cuore! — le disse Giors, commosso. — Oh benedette donne!
Se non lo sapete di certo.... Sarà fra quelli che ritorneranno. Lo
troverete fra i nomi stampati.
Ma no, il parroco le aveva letto il giornale, il suo nome non c'era....
— Ma che parroco! ma che giornale! Cosa volete, in quella
confusione.... Chi sa quanti ne hanno scordati.... Vedrete fra qualche
giorno.... Andiamo, _mare_, non bisogna disperarsi.... Sarà fra i
prigionieri.
Ma la donna diede in un nuovo scoppio di pianto. Prigioniero per lei
voleva dire affamato, torturato, sepolto vivo, peggio che morto.
— _O benedtie foumne!_ — ripetè Giors. — Aspettate un poco.... Tutti i
giorni ne tornano.... tornerà anche Giacolin.... Siete tutte compagne,
voi altre _mare_, quando vi mettete un chiodo nella testa. — Poi disse
bruscamente: — Smettete di pianger così forte, giurabbaco, che mi
spaventate le bestie!
Nessuno di noi osava più di parlare; il giovane aveva stracciato
e buttato via il foglio; la vecchia continuava a piangere
silenziosamente, col viso nelle mani; e pareva più disperato, faceva
più compassione quel pianto in mezzo a quella via rumorosa, a tutta
quella gente affaccendata che passava senza badarci. Alla cantonata
di via Venti Settembre essa prese il sacco e discese. Giors sferzò i
cavalli e tentò il motivo della _Carmen_; ma smise subito, e passandosi
la punta del medio sull'occhio, esclamò con un sospiro: — Ah.... porca
guerra!
*
Per vari giorni, in tutti i carrozzoni e su tutte le linee, io vidi
l'immagine di quella povera vecchia curvata sul parapetto, col
fazzoletto sciolto e i capelli grigi scomposti, scossa da capo a
piedi dal singhiozzo violento della disperazione. E mi pareva più
tragica l'immagine in quel gran risveglio amoroso della natura che si
manifestava da ogni parte, nelle gemme degli alberi, nei bocciuoli
dei fiori, nella chiarezza del cielo e negli occhi delle ragazze.
Dalle piattaforme dei tranvai, andando per i sette bellissimi corsi
alberati che fanno cintura al centro di Torino e per i grandi viali
che corrono lungo il Po e lungo la Dora, si bevevano mille effluvi
sottili, un misto di fragranze leggerissime d'erba fresca, di terra
smossa, di campagna aperta, e si ricevevano nella fronte e nel collo
carezze morbide dell'aria, quasi mossa da invisibili ventagli odorosi,
soffi tepidi e puri, come aliti di bocche virginee, che facevan
rifiorire nell'animo, per brevi momenti, speranze rosee, ricordi lieti
dell'infanzia, simpatie spente, proponimenti giovanili di bontà, di
lavoro, di vita avventurosa e memorie lontane di care feste campestri
e di bei sogni sognati nei giorni più felici dell'età più bella. E si
mostrava questo primo influsso della primavera nei cavalli più agili,
nei cocchieri più allegri, nei fattorini più cortesi, nel modo di
salire, di scendere e di salutar della gente più lesto e più amabile,
e nella fioritura più rigogliosa e più vivace dei cappellini delle
signore a cui l'aria corrente sulle giardiniere aperte agitava sul
capo i nastri, gli steli e le penne, portando nel viso ai passeggieri
ritti in fondo delle ondate di profumi confusi di cipria, di viole e dì
giovinezza.
Avevano in quei giorni i tranvai una bellezza nuova: c'erano in quasi
tutti, la mattina, delle ragazzine vestite di bianco, che occupavano
in alcuni delle panche intere, spiccando fra l'altra gente come gigli
e camelie nivee in mazzi di fiori e di foglie brune. Apparivano di
sfuggita nelle giardiniere dei veli candidi scendenti sui vestiti e
sui guanti bianchi, e a traverso i veli, sotto alle corone di rose
e di margherite, occhi azzurri, bocchine purpuree, visetti d'una
freschezza infantile, che facevano un contrasto graziosissimo con
gli atteggiamenti raccolti e gravi delle piccole persone, ritte sul
busto, con le mani intrecciate sulle ginocchia e le scarpette chiare
congiunte. Da una parte all'altra delle piazze e dall'una all'altra
strada si vedevano biancheggiare sui tranvai quelle farfalle gentili
annunziatrici della Pasqua, e anche più della loro bianchezza risaltava
l'idea, ch'esse esprimevano, dello sposalizio celeste e dello stato di
grazia, in quelle carrozzate d'interessi mondani e di peccati mortali.
O carrozza di tutti, piccolo specchio del mondo, che raccogli e
ravvicini gli estremi più lontani della società e della vita, qualche
volta così gioconda e qualche volta così triste, dove si può veder mai,
fuor che in te, quello che io vidi in quei giorni?
Due giornate di pioggia avevano fatto uscir da capo i carrozzoni
chiusi; ma il cielo si rischiarava quando, verso l'undici della mattina
dell'ultimo di marzo, salii sul tranvai della linea dei Viali, fermo
nel corso Beccaria, sul punto di partire per Porta Palazzo. C'era
seduta dentro una donna, sola, che è ancora viva adesso nella mia mente
come se l'avessi avuta sempre davanti agli occhi durante un viaggio a
traverso all'oceano. I suoi capelli radi, neri d'una tintura grossolana
e mal diffusa, facevano parer più vecchio il viso giallo e rugoso,
nel quale, sotto due archi nerissimi, dipinti da una mano frettolosa e
malferma, sonnecchiavano due occhi glauchi e torbidi e rosseggiavano
di belletto le guance flosce e una bocca amara e stanca, atteggiata
come a un sorriso abituale, che appariva forzato, e quasi morto, come
quello d'una maschera, poichè la luce dello sguardo non l'accompagnava.
Se quel viso non avesse abbastanza chiaramente parlato, avrebbero tolto
ogni dubbio un garofano rosso ch'essa portava nella treccia e una lunga
traccia di polvere di riso che da una guancia le scendeva giù fino al
collo scarnito, cinto d'un nastrino azzurro; e quel fiore appunto e
quel nastro accrescevano tristezza all'espressione di vecchiaia precoce
dei suoi lineamenti risentiti e come tesi da un sentimento sordo
di rancore che ella covasse contro ai fantasmi a cui sorrideva per
consuetudine la sua bocca cascante. Era una di quelle figure miserande
in cui, caduto il velo lucente della gioventù, appare con un'evidenza
spaventevole l'abbiezione della vita, e dietro alle quali la fantasia
vede stanze immonde di lupanari, covi fumosi di taverne e di bische
e oscurità misteriose e sinistre dove giacciono corpi di briachi e di
feriti e lampeggiano coltelli e occhi feroci di belve umane.
Partito appena il tranvai, il fattorino entrò a porgerle il biglietto.
Essa tirò fuori con le mani un po' tremanti una borsetta di lana verde,
e ne cavò due soldi, che quegli prese, fissandola, con un barlume di
sorriso.
Arrivato in fondo al corso Principe Eugenio, il tranvai si fermò, e
prima s'udì un mormorio di voci argentine, poi salirono con allegra
furia da una parte e dall'altra molte ragazzine vestite di bianco,
accompagnate da due che parevano maestre, e sì slanciarono dentro il
carrozzone, agitando i veli trasparenti e le gonnelle candide, come
uno sciame di colombe con l'ali aperte. Fu come un soffio di primavera,
come la luce d'un'alba improvvisa che entrò con esse fra quelle quattro
pareti, e un vago odor d'incenso, di soppressatura e di capigliature
fresche, che parve portato da un'ondata d'aria. Erano forse le alunne
d'un piccolo collegio che avevan fatto la comunione e andavano a far
colazione in campagna. Le maestre restarono sulla piattaforma; le
alunne occuparono in un momento tutti i posti, cinguettando e ridendo;
la donna tinta restò in mezzo a loro.
E allora segui una scena indimenticabile. L'aspetto di quella donna
colpì qualcuna delle più grandicelle, che smisero di parlare e la
osservarono. Il loro silenzio fece tacere le altre, che, naturalmente,
si voltarono da quella parte dove le prime guardavano, e fissarono
anch'esse lo sguardo su quel garofano e su quel nastro, su quella
vecchiezza imbellettata e infarinata, su quella rovina d'ogni cosa,
resa più orribile da una maschera grottesca di gioventù; ed esse pure
fecero silenzio. Sul viso delle più piccole apparve un'espressione
di stupore, in alcune uno sforzo d'attenzione scrutatrice; alle più
grandi si stese sulla fronte corrugata come un'ombra di sospetto
e d'inquietudine, simile a quella che ci dà la vista d'un insetto
strano e sconosciuto. Guardai la donna, sola in mezzo a tutto quel
candore d'anime e di vesti, e vidi sul suo viso una leggiera e
istantanea contrazione dei muscoli come in una persona sorpresa in un
nascondiglio. Lanciò un'occhiata rapidissima alle due maestre, a me,
al fattorino; ma non guardò in faccia alle ragazze: guardò le loro
mani, i libri da messa e le scarpette bianche con uno sguardo velato e
fuggente; e dopo qualche momento, durando il silenzio e l'attenzione
di cui si sentiva l'oggetto, piegò lentamente il capo all'indietro,
appoggiò la nuca alla parete, e come presa tutt'a un tratto dal sonno
chiuse gli occhi, e non gli aperse più.
Il fattorino, che la stava osservando con curiosità, comprese, e mi
ammiccò sogghignando.
Ma io sentii una stretta di pietà che mi fece torcere lo sguardo da
quella infelice come se l'avessi vista trapassata e confitta da un
pugnale nella parete a cui s'appoggiava.
A Porta Palazzo essa si riscosse bruscamente e, senza guardar nessuno,
discese; le ragazzine ricominciarono a discorrere e a ridere, e il
tranvai riprese la sua corsa, allegro e sonoro come una gran gabbia
d'uccelli.


CAPITOLO QUARTO.

Aprile.
Libero in questo mese da ogni altro pensiero, posso dedicar maggior
tempo ai miei viaggi circolari _intra muros_, e scrivere distesamente,
giorno per giorno, le mie osservazioni. Eccone una: il tranvai,
istituzione educativa. E non è celia. Nel contatto quotidiano con
gente d'ogni ceto i superbi perdono sul tranvai un po' della loro
muffa; gli egoisti contenti odono discorsi di miserie e di dolori
che li fanno pensare; la signora che tiene un figlioletto sano fra
le braccia domanda pietosamente alla donna del popolo che cos'ha il
bambino pallido che ripiega il capo sul suo petto, e la madre dura,
che ha visto ammirata dai circostanti la floridezza e la grazia della
sua creatura, discende col cuor raddolcito dalla carezza fatta al suo
orgoglio. Ed è ancora una scuola di cortesia la carrozza di tutti
poichè, a furia di veder altri cedere il posto alla donna, finisce
con cederlo pure, quasi per istinto d'imitazione, il popolano che
non ci aveva mai pensato; e dall'esempio dei cortesi che porgon la
mano al vecchio che sale o sorreggono per il braccio la vecchia che
scende sono indotti anche i villani a far l'atto stesso, e si corregge
a poco a poco la volgarità degli atteggiamenti e delle mosse perfin
nell'uomo più volgare sotto lo sguardo dei molti occhi in cui egli vede
un'espressione di rimprovero o di disgusto, che lo ferisce nell'amor
proprio. Sì, quei cento carrozzoni che girano per la città tutto l'anno
sono cento piccole scuole ambulanti, dove le diverse classi sociali
imparano l'una dall'altra molte cose utili; per esempio, che non c'è
grande differenza fra di esse se non nella scorza; che basta a poveri
e a signori l'astrarre un po' col pensiero da questa per sentirsi
spinti gli uni verso gli altri dagli stessi impulsi che ravvicinano
fra loro gli eguali; che molti dissensi e rancori cesserebbero fra
chi è in alto e chi è in basso per il solo fatto di parlarsi e di
conoscersi a vicenda; che le avversioni sociali non nascono tanto dalla
disuguaglianza della fortuna quanto dal sospetto reciproco dell'odio
e del disprezzo, e che la cortesia è un'alta sapienza e una grande
forza benefica. Queste cose pensai stamani vedendo nel carrozzone un
grosso signore e un giovane operaio chinarsi tutti e due a un tempo
per raccogliere lo scontrino che una vecchia campagnuola aveva lasciato
cadere sotto la panca. Vent'anni fa il secondo non si sarebbe chinato,
e forse.... neppure il primo.
*
Una conoscenza nuova: il _marchese_. È un fattorino che, per rispetto
al galateo, sta sulla sommità della scala, di cui Tempesta occupa
l'ultimo gradino. L'ho conosciuto in questi giorni sulla linea del
Valentino, andando a trovare Angelo Mosso. L'hanno soprannominato
il _marchese_ i frequentatori della linea. È una figura di tenorino:
biondo, pallido, svelto, con gli occhi azzurri e una bocca d'occhiello,
perpetuamente sorridente sotto due baffetti d'oro arricciati. Saluta
porgendo lo scontrino, risaluta ricevendo i soldi, chiede “pardon„
nel passarvi davanti, aiuta le signore a salire e a discendere
mettendo loro delicatamente la punta delle dita sotto il gomito,
prende sul predellino degli atteggiamenti eleganti di cavallerizzo
ritto sul cavallo, salta giù a raddrizzar l'ago alle biforcazioni e
risalta su con una grazia di ballerino, e ha un suo modo particolare,
amabilissimo, di mettere il resto nelle piccole mani inguantate,
come si mette una chicca nella palma d'un bimbo, sorridendo col capo
inclinato e fissando negli occhi della creditrice, senza varcare il
segno del rispetto, uno sguardo soave, che la costringe a fare un cenno
di ringraziamento. Appartiene alla famiglia degli erotici sentimentali.
Pare un galante padron di casa che faccia gli onori del suo salotto
a una comitiva d'invitate. Si capisce che l'aver che fare col bel
sesso signorile è una dolcezza della sua vita. Un sorriso, un segno
di compiacenza, uno sguardo di curiosità o di simpatia d'una signora
o d'una signorina gli danno una scossa così viva, che per un momento
par che gli manchi il respiro; e poi respira forte e s'arriccia i
baffetti con la mano agitata, mandando baleni dagli occhi. Dev'esser
stato ballerino al Teatro regio, o modello di pittore, o cameriere
di fiducia di qualche vecchia nobile. Perfin nel segnare i numeri
sul libretto ha un certo modo artistico di menar la matita come se
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