La Carrozza di tutti - 15

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più piccolo di quei tre bimbi; il quale fissava lei e le sorrideva.
Certo, guardando quello, essa parlava al suo. — Tu non sarai un piccolo
signore come questo, — gli diceva forse, — la tua mamma è povera,
non ti potrà mai vestire a quel modo; ma, in compenso, sarà la tua
nutrice lei, ma non t'addormenterai mai su altro seno che sul suo, ma
avrai tante cure, tanto amore quanto ne possa avere il figliuolo d'un
principe; e se non sarai bello, se non sarai florido come questo, io
t'amerò egualmente, io t'amerò anche di più, io sarò altera e felice
lo stesso di tenerti sulle ginocchia così, di dire al mondo che sei la
mia creatura, di consacrarti tutte le mie forze e tutta l'anima mia. —
Ed era così intento e così affettuoso il suo sguardo che la balia, a un
dato punto, indovinando forse i suoi pensieri, sollevò un poco il bimbo
di sotto alle ascelle, e glielo porse; e quella, spinto il capo innanzi
vivamente, come un'assetata alla fonte, lo baciò come potè, sulla
testa, tre volte, avidamente, con gli occhi raggianti di tenerezza e di
gratitudine....
*
Il caldo cresce, il sole arroventa i crani, i cervelli levano il
bollore, e i cocchieri, con gli occhi infocati e le tempie imperlate
di sudore, gesticolano nei nuvoli del polverone come oratori alla
tribuna, incitando con grida stridule di beduini i cavalli immollati
e trafelati. Sulla linea di Vanchiglia, mi trovo seduto dietro a un di
loro, che espande clamorosamente i suoi affetti con un amico ritto al
suo fianco, trinciando l'aria con la mano libera come se impartisse
una benedizione continua agli alberi e alle case. Alle prime parole
m'accorgo che non è infiammato soltanto dal caldo, ma dall'acquavite,
e appena afferrato l'argomento del suo discorso, riconosco in lui
il poveretto a cui è toccata la disgrazia del bimbo schiacciato in
via Venti Settembre. Non aveva la sbornia allegra, peraltro; non
era sovreccitata nell'anima sua che la tristezza consueta, una pietà
amara per quella sua povera figliola, sempre malata dopo quel giorno
terribile, sempre distesa là in quel fondo di letto, con gli occhi
infossati e con le mani color di cera, che s'ostinava dieci volte il
giorno a riprender l'ago e le forbici, e li lasciava ricader sulla
coltre, dicendo: — Non posso.... non posso più.... — Ma la grappa
levava l'espressione del suo dolore all'altezza della lirica. L'amico
lo confortava invano; egli rifiutava i conforti con dinieghi vigorosi
del capo, dando al freno delle girate violente. Il rumore d'una
locomotiva stradale mi coperse per qualche momento la sua voce: quando
la risentii, era cambiato il soggetto del suo discorso e cresciuto
l'ardore della sua parola. Raccontava come, tornato a casa una sera,
aveva trovato sul tavolino da notte della sua malata un mazzetto di
fiori, delle pesche, una scatola di Liebig, una bottiglia di Marsala.
Chi aveva portato quel ben di Dio? Chila — la signora! Non c'era da
domandarlo. Ma c'era dell'altro. La camera, ch'egli aveva lasciata
sottosopra, come si trovava da vari giorni, con tutte le carabattole
per aria, era ordinata, assestata di tutto punto come quando la
figliuola era _in gamba_: una cappella in un giorno di festa....
E chi aveva fatto questo? Non mica la portinaia, che s'affacciava
all'uscio la mattina e la sera, e scappava via come per paura della
peste. Era stata anche _chila_! Era capitata là una mattina a visitar
la figliuola, e, data un'occhiata in giro, aveva detto: — Ah! io non
voglio mica che la mia malatina stia in mezzo a questo _ciadel_ di
casa di matti! A me! — E tic tac, alla svelta, senza neppur levarsi il
cappellino, aveva dato sesto a ogni cosa. — _Chila_, capisci? con le
sue proprie mani, come una _donna a poste_, seguitando a chiacchierare
e a dir facezie per tenerla allegra, come una sorella. — E al momento
d'andarsene, di sull'uscio, le aveva detto: — Di' al babbo che non
beva, ricordati! — Qui il cocchiere si lasciò scappare il ridere; poi,
rifattosi serio a un tratto, proruppe in un'esclamazione appassionata:
— Ah, non ce n'è un'altra, no, non ce n'è un'altra come quella; non
c'è, non c'è un'altra santa signora compagna!
E poichè l'amico, sorridendo, gli faceva cenno che si quietasse, egli
s'eccitò di più, picchiando il pugno sul parapetto, come irritato
da una contraddizione: — Sì, è una santa signora, è un angelo, è
la madonna in corpo e in anima, e lo voglio gridare a tutta Torino,
capisci!
E una nuova esortazione dell'amico spinse ancora il furore della sua
gratitudine d'un grado più in su. Bestemmiò e ricominciò: — Sì, io
mi farei ammazzare per quella donna lì, capisci; mi farei pestare,
schiacciare, bruciar vivo, mettere a pezzi.... Oh che gioia di donnina!
Oh che amore, che benedizione, che anima santa di donnina! — e si baciò
il dorso della mano e attaccò un'altra serie di moccoli adorativi.
E quando scesi e mi voltai a guardarlo, lo vidi ancora col viso
in aria e con la bocca aperta, che apostrofava il fantasma della
_Chisciottina_, scotendo il capo a ogni parola come se scandesse il suo
laudario, e agitando la frusta da destra a sinistra come per aprire il
passaggio alla piena della sua passione.
*
Sì, tutti sono sovreccitati, e più che altri gli attaccalite e i
prepotenti dello stampo di _Tintura-Migone_; per i quali pare che del
caldo, della polvere, d'ogni noia dell'estate sia colpevole tutta
quella classe di persone con cui essi possono sfogare il proprio
malumore senza pericoli. C'è chi se la piglia col cocchiere perchè vi
sono trentadue gradi all'ombra, chi aspreggia il fattorino perchè il
municipio non fa inaffiar le strade abbastanza, e perfino chi pretende
dal controllore che dia ordine di accelerare la corsa perchè, andando
come si va, corpo d'un cane, non s'è ventilati un bel corno. Ma vidi
un bel caso di castigo l'ultima domenica di luglio, sul corso Regina
Margherita. Dopo aver fatto fuoco e fiamme per una bazzecola, uno
di questi neroncelli gridò scendendo: — Vado immediatamente a far
rapporto alla direzione! — La direzione è lì, — gli disse garbatamente
un operaio che m'era accanto, indicandogli la direzione della Società
Belga, proprio di faccia alla giardiniera. Quegli, che la credeva
invece chi sa dove, e non aveva alcuna intenzione d'andarvi, guardò
l'iscrizione sulla facciata, indispettito, e dopo un momento di
titubanza, comicamente contrastante con la sua risolutezza di poco
prima, voltò le spalle ai sorrisi canzonatori dei passeggieri e s'avviò
dalla parte opposta.... col viso di quel vecchio galante del _Jean
Tommeray_ che, quando la signora ch'egli corteggia fa l'atto di cedere,
prende il cappello e se ne va via dicendo: — Saprò chi m'ha fatto
questo tiro. —
— Poteva almeno ringraziarmi dell'indicazione — osservò placidamente
l'operaio, senza sorridere. Era il lattoniere autodidattico, il
socialista “legalitario„ e ragionatore, che andava, in un sobborgo
a tenere una conferenza, stringendo sotto il braccio uno dei suoi
registri pieni di estratti di giornali e di note; e aveva accanto un
compagno tarchiato e serio come lui, un fabbro ferraio sui sessanta,
tutto grigio, suo devoto amico e ammiratore, che soleva accompagnarlo
in quelle gite, dandosi l'aria d'un segretario di gabinetto. Un
curiosissimo personaggio costui, che avevo già incontrato più volte:
entrato nel socialismo non per effetto di ragionamenti propri, ma
per fede cieca nella ragione dell'altro; la cui cultura rapidamente
acquisita e il progresso intellettuale continuo gli apparivano come
un miracolo, più efficace di qualunque argomento a dimostrargli la
giustizia della causa che aveva sposato. Il progresso del lattoniere
era continuo, infatti: bastò un breve discorso a provarmi che anche
nei due mesi da che non l'avevo più visto la sua mente s'era allargata
e arricchita, e la sua parola fatta più facile e più esatta. Rimasi
addirittura maravigliato a udirlo commentare le recenti elezioni
generali del Belgio in confronto con quelle di due anni innanzi,
spiegando la ragione del quasi assoluto annientamento del partito
liberale; giustificando l'alleanza dei socialisti coi radicali, ch'era
stata fatta dai primi senza alcuna concessione pericolosa alla loro
indipendenza avvenire; calcolando come, se non ci fosse stato il
voto plurimo, se tutti i partiti fossero scesi nella lotta ad armi
eguali, non il clericale, ma il socialista avrebbe avuto la vittoria.
Ma dall'uomo pratico ch'egli era, di questo non andava a parlare ai
suoi uditori: andava a persuaderli della necessità d'un'associazione
cooperativa, con argomenti tratti dalle loro condizioni e dai loro
bisogni particolari, ch'egli conosceva perfettamente, come conosceva
i bisogni, le condizioni d'ogni sobborgo o villaggio, industriale o
commerciante od agricolo, in cui fosse chiamato a parlare; in ciascuno
dei quali arrivava con un grande corredo di osservazioni, di notizie
e di cifre, raccolte pazientemente da pubblicazioni statistiche e
da conversazioni con gente colta, anche d'altri partiti. E mentre,
scansandosi ogni momento per lasciar salire o scender qualcuno, egli
mi esponeva la traccia della sua conferenza con quella semplicità
modesta di linguaggio e d'intonazione, che faceva il miracolo di
soffocare nei suoi eguali ogni gelosia della sua autorità e quasi
ogni invidia della sua preminenza intellettuale, io osservavo il suo
vecchio compagno, tutto intento alle sue parole; il quale guardava
lui e me, alternatamente, con un'espressione viva di compiacenza
d'amico e d'alterezza di collega, mista di non so che di paterno e
di umile insieme; tanto più commovente in quanto era visibile che
il suo cervello, intorpidito dal disuso, apertosi troppo tardi a
quella nuova luce di idee, non lo capiva che per barlume. Punto dalla
curiosità, tirai anche lui nel discorso; nel quale entrò volentieri,
con una vivacità che mi stupì; ma per uscir dall'argomento quasi
subito, con frasi indeterminate e strane, che attirarono fortemente
la mia attenzione. Riconobbi sull'atto il caso, accennato dal De
Vogüé, d'una di quelle dottrine che, seguendo la legge della caduta
delle idee, discendendo, cioè, dalla mente eletta che le concepì nella
gente semplice e inculta, si deformano, o, meglio, si contraggono e
si cristallizzano in un piccolo residuo tenace, equivalente quasi a
una forza d'istinto, nata con loro. In lui era la dottrina del Rénan,
l'_Avvenire della Scienza_, ridotta in questa sola idea semplicissima:
che grazie ai progressi indefiniti della scienza, e in particolar
modo della meccanica, l'uomo sarebbe riuscito un giorno a provvedersi
così abbondantemente e con così poca fatica quanto gli abbisogna, che
ogni miseria, ogni ingiustizia, ogni lotta sociale avrebbe avuto fine
come la tempesta al cader del vento. Per quale via fosse discesa,
per quale spiraglio entrata nella sua mente, come un raggio in una
grotta, quell'idea unica, nella quale egli aveva una fede assoluta,
immobile, invincibile, e che era il tema di tutti i suoi discorsi e la
fonte d'altri cento embrioni d'idee a cui non trovava parola, forse
non sapeva dire egli stesso. Della sua stessa idea principale io non
afferrai che la coda, quando, con una brusca transizione, egli venne
a parlare dei futuri tranvai elettrici, e movendo da questi, precorse
gli anni con la fantasia, eccitato come da una visione della città
avvenire, che ritrasse in frasi vivaci ed informi, senza badare al
sorriso di compatimento con cui il suo amico lo ascoltava. Egli vedeva
le strade corse da ogni sorta di “automobili„ fitti come i moscherini
per l'aria; i ragazzi portati a scuola, gli operai al lavoro, le donne
al mercato; tutti i pesi trasportati a volo; le distanze sparite, le
fatiche soppresse, un risparmio enorme di tempo e di forza, la vita
agile e facile in tutte le sue forme: _tutt coma la losna_, tutto come
il lampo; e faceva un gesto continuo con la mano come per indicare una
cosa che guizzi e scompaia. Ed era ancora eccitato dalla sua visione
quando scese con l'amico in piazza Vittorio Emanuele per prendere il
tranvai a vapore di Moncalieri, e di lontano mi fece ancora quell'atto:
— _coma la losna_, — che riassumeva tutta la sua dottrina e la sua
speranza....
*
Qui, tra gli ultimi appunti di luglio, trovo poche righe, che mi
ricordano una serata afosa, in cui il tranvai corre sotto gli alberi
non mossi da un alito, in mezzo a passanti che si fanno vento col
cappello, mostrando al lume dei lampioni la fronte luccicante di
sudore, fra due file di case alte, dove alle finestre, ai terrazzini
e alle soffitte è affacciata gente che guarda il cielo e le montagne
lontane, col capo rovesciato indietro e con la bocca aperta, come
se gridassero: — Aria! Aria! Aria! — E: — aria! — invoco anch'io,
bevendo con avidità il po' di fresco che mi manda in viso il ventaglio
d'una signora vicina. Ma al passare lungo i quartieri popolari, dove
pullulano migliaia di bimbi scalzi, sdraiati per terra, coricati sui
marciapiedi, ammucchiati nei fossi, ravvoltolantisi tra i cocci e
la bruttura, coi visi e i colli segnati di scaglie e di gore, con le
braccia e le gambe nere fino ai gomiti e ai ginocchi, e la camicia e i
panni ridotti a un solo colore dalla polvere addensata d'una settimana,
un altro grido mi vien sulle labbra. Aria, sta bene. Ma e l'acqua?
Sta bene la refezione scolastica. Ma e la disinfezione scolastica?
E mi compiaccio a immaginare un gran carro inaffiatore che corra
sulle rotaie lungo quei fossi e quei marciapiedi schizzando zampilli
su quei mucchi brulicanti di piccole creature sudicie, o un'enorme
tinozza ambulante d'acqua tepida, dove li tuffo e li sciacquo tutti
per rimandarli ai loro giochi più vispi, più sereni e più buoni.
Quanti malanni, quanti mali umori, e chi sa anche quanti piccoli germi
d'infezione derivino all'animo da quella sporcizia! Di chi la colpa?
Sì, certo, è in parte incuria colpevole; ma è più miseria, ignoranza,
penuria di tempo, di spazio, di comodi, e mancanza di dignità e
d'amor proprio che da tutto quello deriva. E allora.... allora non
trovo a confortarmi che nella dottrina del vecchio fabbro ferraio: la
scienza, la macchina vôlte a vantaggio diretto di tutti, la produzione
moltiplicata dal perfezionamento dei processi e dal lavoro fatto
universale, e il lavoro reso da queste due cause per tutti quale non
è ora che per pochi, abbreviato e alleviato in modo che a tutti avanzi
tempo, forza e libertà da dedicare alla cura del corpo e alla cultura
dello spirito. Eh, bisogna pur giunger lì, per una via o per un'altra,
se non si vuol rinunciare alla speranza! Ma mentre dico tra me queste
cose, mi dà prima nell'occhio la mano tremante con cui il fattorino
accende il lume del tranvai, e poi il suo viso malandato e turbato, che
mi par di riconoscere. È lui, infatti; il povero fattorino che, dopo
esser stato percosso, quasi mortalmente, da passeggieri sconosciuti,
contro i quali la Società ha mosso causa, trema sempre al calar della
notte, per terrore d'una vendetta. E allora mi raffiguro la scena
selvaggia, penso a quelli sconosciuti che, non provocati, per puro
istinto di malvagità, han messo in pericolo di morte e reso malato e
infelice forse per sempre un uomo onesto e buono, e ritornando al mio
ideale della miseria e dell'ignoranza soppresse, mi domando: — E la
malvagità umana sarà soppressa mai?
E questa domanda, a cui non oso di rispondere, mi lascia triste e
pensieroso. Ma per un minuto soltanto. Mi riviene in mente l'operaio
lattoniere, mi salta su dinanzi il buon falegname dalla giacchetta
di velluto stinto, penso a tanti altri che vengon su come loro, che
diffondono nel popolo idee e sentimenti di giustizia, di fraternità, di
pietà per i deboli, di orrore per la violenza, che lo educano alla vita
intellettuale, alla dignità di classe e alla fede nella forza dell'idea
e nel progresso della civiltà; e le mie speranze tornano ad accendersi
l'una dopo l'altra, come i lumi che fuggono lungo la via.


CAPITOLO OTTAVO.

Agosto.
O novellieri antichi, ricercatori amorosi e descrittori lepidissimi
di gente “semplice, grossa e di nuovi costumi„ quali tesori avreste
raccolti nella carrozza di tutti se fosse stata inventata cinque secoli
avanti! Ci sono sposi di campagna in viaggio di nozze, che fanno tre
volte la corsa circolare dei Viali, dodici miglia a un dipresso, con
l'illusione di far sempre nuovo cammino, fin che, mordendoli la fame,
discendono, sbalorditi dall'immensità dì questa Torino che non finisce
mai; montanari solitari che, arrivati alla barriera dov'eran diretti,
salgono sur un'altra carrozza partente, credendo di continuate il
viaggio, e ritornano per un'altra via al punto da cui partirono, dove
si guardano intorno stupefatti, come gente piovuta dal cielo; e poveri
villani che, addormentatisi durante la corsa, si svegliano a un miglio
oltre il punto dove volevan discendere, furiosi contro il cocchiere,
che avrebbe dovuto svegliarli, o almeno “gridar le stazioni„ come si
fa sulle strade ferrate. Più amene, anche in questo, e più stranamente
pretensiose sono le donne. Ho qui notata una balia che, non trovando
da sedere, non vuol dare più d'un soldo, dicendo che un soldo, per
stare in piedi, è già un bel pagare, e che dovevano “attaccare un
altro vagone„; due contadine che, salendo, avvertono il cocchiere di
fermare davanti alla casa d'un _monsú Garet_ o d'un _monsú Cimussa_,
sconosciutissimi, come si direbbe: — Fermate davanti al Palazzo reale;
— e una giovane alpigiana, la quale, scendendo a Porta Palazzo con un
grosso involto, prega il fattorino di aspettare, chè tornerà subito,
appena portata la roba a una sua parente; e si risente della risata
dei passeggieri, trattandoli di maleducati. Non c'è specola migliore
del tranvai per vedere quanta ingenua ignoranza giri ancora per il
mondo e comprendere perchè sia ancora tanto facile l'arte di gabbare
il prossimo. E ci sono anche i timidi, gli affannoni, nuovi affatto
a Torino, i quali, cercando il loro tranvai agl'incrociamenti delle
linee, domandano informazioni di qua e di là ai cocchieri che passano
e, non comprendendo le risposte affrettate, inseguono un carrozzone, si
ravvedono, ne inseguono un altro, s'arrestano, salgono sopra un terzo,
che non è quello, e scendon trafelati e disperati, maledicendo a quella
confusione, a quella furia infernale di tutti e d'ogni cosa, dove un
povero galantuomo perde il tempo e la testa. O povera gente, di cui
il mondo ride, poveri naufraghi della città grande, come fate pietà a
chi sotto il vostro affanno del momento indovina il pensiero inquieto
della lite che v'ha condotti fra le _cittadine infauste mura_, o della
moglie che v'aspetta all'ospedale, o del figliuolo che visiterete alle
carceri, o del lavoro che cercherete invano, o del parente agiato,
ultima vostra speranza, che vi chiuderà l'uscio sul viso!
*
L'agosto cominciò lietamente con la scoperta d'un uso nuovo, a cui
non avevo mai pensato che il tranvai potesse servire. Sboccando dal
corso Valentino in via Nizza salii in fondo a una giardiniera, della
quale occupava tutte le panche, fuor che l'ultima, una comitiva
nuziale. C'eran nella prima lo sposo e la sposa, biondissima, tutta
bianca, coronata di fiori e ravvolta in un gran velo; nelle altre una
ventina di parenti e d'amici, donne grasse in abito di seta, uomini
impomatati, con la barba fatta di fresco e un fiore all'occhiello,
un vecchio con un cilindro d'altri secoli, un prete di campagna,
delle ragazze in fronzoli, dei bimbi vestiti da festa. Si capiva che
andavano al Municipio in quella forma economica non per tirchierìa,
ma per capriccio, per un gusto originale di far mostra pubblica della
loro allegria. Erano tutti allegri, infatti, come se avessero già
festeggiato la coppia di prima mattina con molte bottiglie di vermut;
le donne chiacchieranti, gli uomini sorridenti all'idea d'un pranzo
di tre ore, i vecchi ringalluzziti, le ragazze agitate. Anche il
cocchiere e il fattorino, che discorrevano con l'uno e con l'altro,
parevano presi da quell'allegria, come dai vapori d'un liquor forte.
La bianchezza della sposa velata annunziando lo spettacolo di lontano,
molti si soffermavano sui marciapiedi, uscivan donne dalle botteghe,
accorrevano ragazzi; i conducenti dei carri e i fiaccherai sorridevano,
passando, dall'alto della cassetta, e lanciavan degli scherzi: — Oh
che bella bionda! — Tanti buoni auguri! — Salute e figliuoli! — e i
cocchieri degli altri tranvai salutavano il loro collega, auriga del
settimo sacramento, strizzando gli occhi e cacciando fuori la lingua,
mentre i passeggieri si voltavano a guardare tutti insieme, ilari e
curiosi. E la comitiva, eccitata dall'ammirazione pubblica, parlava
più forte, gesticolava più vivo, rideva più alto, incitava con la voce
i cavalli, che andavan di galoppo per via Lagrange, al suon dei fischi
raddoppiati del cocchiere, facendo sventolare come una bandiera il velo
trasparente della sposa bionda, accesa ogni tanto dai raggi di sole
irrompenti dalle vie laterali, e troneggiante nella sua bianchezza come
sopra un carro di trionfo. E mi pareva davvero un carro di richiamo
mandato in giro da un'agenzia di matrimoni o da qualche Società di
propaganda coniugale, un po' carnevalesco, ma pure gentile e simpatico;
e chi sa? forse la prima forma d'un carro da nozze del duemila, quando
tutto sarà servizio pubblico, e si sposeranno con la stessa pompa le
figliuole degli uscieri e dei ministri....
*
Da più giorni spirava aria di nozze su tutte le linee; nei discorsi
delle donne e delle ragazze sentivo ogni momento dei _chiel_ e dei
_chila_, pronunciati con un accento di rispetto insolito, che si
riferivano tutti a una sola coppia, come ad un Adamo e ad un'Eva, dai
quali dovesse discendere un'umanità nuova, e notizie vaghe e commenti
fantastici sopra una bellezza femminea, che nessuna aveva vista, ma per
cui pareva che tutte avessero l'animo preparato all'ammirazione. Ero
una mattina sulla giardiniera della linea di Lanzo, ritto accanto al
cocchiere e, stando voltato di fianco, vedevo un gruppo graziosissimo:
sur una delle prime panche due giovani monache, con gli occhi bassi
e le braccia strette alla cintura; dietro di loro, quattro ragazze
del popolo, col grembialino di stiratrici; più in là un fattorino del
telegrafo. In piazza Carlo Felice salirono accanto alle monache due
signore eleganti che, appena sedute, aprirono in fretta un giornale
illustrato comprato allora, e fissarono con viva attenzione la prima
pagina. Voltandomi da capo un momento dopo, vidi le quattro ragazze in
piedi, che sporgevano il viso, scintillanti di curiosità, piegando il
capo di qua e di là per vedere il giornale, ora scoperto, ora nascosto
dai cappellini delle signore. Era il ritratto della principessa
Elena del Montenegro; il primo apparso in Italia, e che tutte, certo,
vedevano per la prima volta. Il quadretto era curiosissimo. Gli sguardi
acuti e riflessivi e le labbra strette delle due signore rivelavano
un'analisi pacata e minuta, accompagnata da dubbi e da riserve di
critici meticolosi; il sorriso muto e quasi risplendente delle ragazze
esprimeva una curiosità ancor tanto forte da sospendere ogni giudizio;
le due monache sole non avevano voltato il capo, ma non riuscivano a
dissimulare il loro desiderio di vedere, e lanciavano sul giornale
delle occhiatine rapide e oblique come sopra una cosa proibita;
e anche il cocchiere torceva il busto indietro e adocchiava, e il
fattorino, ritto sulla pedana, allungava il collo, e il telegrafista
levava il viso sopra le spalle delle ragazze. A un certo punto, forse
per respirare più libero, le due signore porsero cortesemente il
giornale alle loro vicine, che l'afferrarono come una preda, frementi
di piacere, e vi si curvarono sopra con le teste aggruppate, tirandolo
di qua e di là e facendo un cicaleccio vivissimo. Il tranvai passò
davanti alla stazione di Porta Nuova, donde usciva un'onda di gente,
di omnibus d'alberghi e di carrozze, svoltò sul Corso di Genova in
faccia alla gran muraglia azzurra delle Alpi, s'inoltrò fra i begli
alberi e gli edifizi ridenti del Corso Re Umberto, e le quattro ragazze
seguitavano il loro esame, senz'alzare il capo, non più chiacchierando,
chè avevano sfogata la loro prima furia, assorte in una contemplazione
immobile e silenziosa. Si vedevano passare nei loro occhi intenti
l'ammirazione, la simpatia, il sentimento della distanza immensa che
separava da loro la persona effigiata, lo sforzo della fantasia con
cui cercavano su quel viso i segni della predestinazione gloriosa,
il pensiero del corredo mirabile, delle grandi feste, della felicità
sovrumana che l'aspettavano, l'invidia timida e reverente d'una vita
che esse immaginavano tutta splendori, trionfi, ebbrezze, a cui la loro
speranza non s'innalzava neppure nel sogno. Ed io non potevo staccar
gli occhi da loro, e al pensare che altre migliaia di ragazze come
quelle, che altri milioni di creature umane d'ogni età e d'ogni stato
erano in quei giorni altrettanto smaniose di veder quell'immagine,
e che quell'immagine d'una fanciulla illustre e gentile, sì, ma
sconosciuta fino a ieri, sarebbe stata cercata, commentata, contemplata
religiosamente così, come non fu mai quella d'alcun eroe, o uomo
di genio o benefattore immortale dell'umanità in alcun paese e in
alcun tempo, ero preso da uno stupore profondo, come davanti a un
grande mistero, come all'intuizione confusa di qualche istinto non
ancora scoperto o compreso dell'anima umana. E ancora dominato da
questo stupore tenni dietro con lo sguardo alle quattro ragazze che
s'avviavano al sobborgo solitario della Crocetta, ragionando ancora
calorosamente di quell'immagine, come se portassero via con sè la
spiegazione di quel mistero.
*
Due giorni dopo (ricordo ch'era il giorno della morte della _Riforma_),
essendo scoppiato il settantesimo temporale della stagione, rivennero
fuori i carrozzoni chiusi, ed io mi trovai il dopo pranzo, sulla
linea della barriera di Casale, seduto in faccia alla studentessa di
medicina, in mezzo a vari signori e signore, che l'osservavano, senza
parlare. A questi, che forse non l'avevan mai vista, essa faceva la
stessa impressione, m'accorsi, che aveva fatta a me la prima volta;
ma su quel viso bianco e fermo, d'una purezza di vergine ideale, mi
parve di veder qualche cosa d'insolito, il segno d'un pensiero nuovo e
vivo, che mutava sede, mostrandosi ora negli occhi, ora sulla fronte,
ora sulle labbra, come un'ombra guizzante sopra un'acqua limpida e
queta. I suoi grandi occhi celesti, però, si posavano come sempre
sulla gente con quella espressione vaga di chi guarda cose lontane,
alle quali non pensa, e la sua bocca, col labbro di sopra leggermente
inarcato, serbava quell'atteggiamento infantile, indefinibile, che
attesta l'ignoranza del bacio amoroso. Con una mano accarezzava il
lembo d'un nastro del cappellino che le scendeva sul petto; e vidi
che parecchi guardavano attentamente quella mano lunga, bianchissima,
quasi diafana, che pareva si sarebbe dissolta nel calore d'una stretta
d'amante; ed era quella mano che palpava le teste tronche, che tirava
via la pelle dagli arti recisi sulle tavole del laboratorio anatomico
e s'insanguinava cercando i muscoli e i nervi nella carne infetta dei
cadaveri mutilati. Eppure quell'immagine non mi destava per quella mano
alcuna ripugnanza come se nessun sozzo contatto potesse far macchia,
nessun lezzo attaccarsi alla purità virginea delle sue dita, nello
stesso modo che non poteva, a mio giudizio, entrare nell'anima sua
alcuna bruttura della vita e del mondo. Con questo pensiero osservavo
il movimento di quelle dita che parevan petali di giglio agitati dal
vento, quando, nell'ultimo tratto di via Maria Vittoria, il tranvai
s'arrestò al cenno d'una ragazza ritta sulla soglia d'un portone: una
brunetta svelta e messa bene, con un cappellino purpureo guernito di
tre impertinenti penne di gallo; la quale salì rapidamente, e sedette
nell'unico posto che rimaneva, accanto alla studentessa. Ah, che
imprudenza! Ecco un nuovo pericolo, prima ignorato, che presenta alle
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