La Carrozza di tutti - 21

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— Essi sono l'Aprile, ed io.... il mese corrente. — Vedevo di là dal
ponte la trattoria dell'_Olimpo_, appartata e chiusa, che mi ricordava
dei festosi banchetti giovanili, dei cari amici, delle ardenti
discussioni letterarie. Come mi pareva tutto lontano, e la casa, e gli
amici, e le idee discusse! Eppure provavo un conforto vago in quella
pace, come il sentimento d'una dolce rassegnazione, e il principio d'un
riposo infinito. E udii con rammarico il grido brusco del fattorino:
— Via! — come se mi dicesse: — Andiamo! Torniamo allo strepito della
città e alle cure della vita; torniamo a lavorare.... e a invecchiare.
*
Ebbi un altro momento, di quelli che non si scordano, sulla linea
della Crocetta, uno di quegli incontri inaspettati che ci lasciano
stupefatti e pensierosi come se avessero il significato recondito d'un
avvertimento del destino. Allo svolto da Piazza Carlo Felice in via
Sacchi salì sul tranvai un controllore sui cinquant'anni, piccolo e
pingue, con due enormi baffi rossicci brizzolati, che gli mascheravano
mezzo il viso; e incominciò il suo giro sulle pedane per chiedere
i biglietti. Dalla cautela con cui s'aggrappava alle colonnine e
posava i piedi per non cascare, argomentai che fosse nuovo al proprio
ufficio, al quale anche si prestava male la sua corpulenza. Quando mi
fu vicino sulla piattaforma, ancora parato ai miei occhi da due persone
interposte, gl'intesi dir forte al fattorino: — È al numero 136; — e
quella voce risvegliò qualche cosa nella mia memoria, ma così lontano
e confuso, che subito disparve, come l'ombra d'un uccello che passi.
Essendo vuota l'ultima panca, il controllore s'infilò tra questa e
quella accanto, per prendere i biglietti dei passeggieri ch'erano in
piedi. Quando fu davanti a me, mi disse, toccandosi il berretto con
una mano: — Il biglietto, signore.... — e restò con la bocca aperta
e la mano per aria, fissandomi in viso. Ci fissammo così a vicenda,
per qualche secondo, in atto interrogativo, e poi, nello stesso punto,
uscì dalla sua bocca il mio nome e il suo dalla mia. Un intimo impulso
gli fece sporgere il viso, ma si tirò indietro; io mi spinsi innanzi
e gli baciai la guancia; egli mi rese il bacio, e volle dir qualcosa;
ma non potè. Sorridemmo tutti e due, col respiro un po' oppresso. E
un'onda di memorie attraversò la mia mente in un lampo: la Scuola di
Modena, il suo lettuccio di ferro in un angolo del camerone della
quarta squadra, una discussione sull'utilità dell'“ordine sparso„
sotto un albero del giardino ducale, il cappotto bigio chiaro ch'egli
aveva portato dal Collegio militare d'Asti, e un nostro breve incontro
per le vie di Piadena durante la guerra del 66. Da trent'anni non
c'eravamo più visti, e non avevo più avuto notizie di lui. — Ebbene?...
— Ebbene?... — Ma la conversazione s'arrestò lì; c'era gente intorno;
vidi che gli tremavan le labbra; non si poteva proseguire. Fece un
cenno con la mano, come per dirmi: — A più tardi, — e riprese il suo
giro. Controllore! Dopo trent'anni! Lui! Per che vicende era passato?
E ricordai i suoi bei disegni topografici con un tratteggio di montagna
che gl'invidiavo, il suo costante buon umore, la rassegnazione di buon
figliuolo con cui una volta era andato alla cella di rigore, estratto
a sorte per un tumulto della compagnia, al quale non aveva preso
parte. Poi, rifrugando nella mia memoria, mi parve di ricordarmi d'aver
inteso dire molti anni innanzi ch'era andato in America, dove faceva il
maestro elementare. E aspettai con impazienza che i vicini scendessero
per interrogarlo e per dirgli la buona memoria che avevo sempre serbata
di lui. Ma, tutt'a un tratto, egli discese. Dalla strada mi fece ancora
un saluto con la mano, sorridendo, ma con una leggiera espressione di
tristezza; poi voltò le spalle e s'avviò verso il Corso. Aveva ancora
quell'andatura, tal quale, con quell'atteggiamento del capo, con
quelle spalle curve, da cui scappavano le cinghie dello zaino. E lo
seguitai con gli occhi fin che potei, con un senso di stupore misto di
sgomento, pensando che un giorno solo, un caso, un punto della mia vita
avrebbe potuto far sì che un altro mio amico, in quello stesso giorno,
ritrovasse me su quel tranvai, con quel berretto gallonato sul capo, in
atto di dire a lui: — Signore, il biglietto.... — Dopo quel giorno non
lo vidi più.
*
A questa avventura di romanzo succedette una scena di farsaccia,
che vorrei non aver veduta, e che racconto soltanto per non lasciar
nulla da parte di quanto può accadere sulla carrozza di tutti. Ma
chi avrebbe potuto prevedere una scenata simile osservando quella
giardiniera pochi minuti avanti, quando la raggiunsi in piazza
dello Statuto? Era proprio una carrozzata di gente per bene, alla
quale disdiceva intollerabilmente un cartello sospeso al di sopra
della panca di mezzo, con su scritto in grossi caratteri: — _Letame
di cavallo. Trovasi in vendita a pressi convenientissimi presso la
Società Belga._ — Vedo ancora sulla panca in fondo un consigliere
comunale e un medico militare in divisa; più in qua un generale di
brigata pensionato, con la _Gazzetta di Torino_ fra le mani; due
maestre della Scuola Sclopis; signore, signorine, faccie rispettabili
di grossi contribuenti e d'impiegati da tremila in su. Regnavano
tra quella eletta di passeggieri la pace e il Galateo; il mormorio
discreto delle conversazioni era coperto dallo scalpitìo dei cavalli
lanciati al galoppo; nulla dava indizio dello scoppio che doveva
avvenire. All'improvviso, dando le spalle alla compagnia, sentii il
suono d'una ceffata e due grida furenti: — _Baloss!_ — e: — _Canaia!_,
e voltandomi, vidi alle prese nel mezzo due signori senza cappello,
che con una mano si tenevano afferrati a vicenda per la cravatta e
con l'altra si barattavano delle mazzate sul capo; una signora che
gridava, altre che si preparavano a svenire, uomini saliti sulle panche
per separare i lottatori, e poi un gruppo stretto intorno a questi, di
cui non m'apparivano più che le due teste scarmigliate e i due bastoni
branditi. La lotta cessò subito; ma i due nemici non s'allentarono, e
rimasero in quell'atto di rappresentanti della “situazione europea„
ciascuno tenendo l'altro per la gola, come per dire: — Se non mi
picchi, non picchio; se ti muovi, t'accoppo. — E quella coppia così
atteggiata, su quella carrozza che correva, faceva uno strano effetto,
come d'un quadro plastico, concorrente al premio, portato in giro
sopra un carro di carnevale. Il cocchiere aveva appena fermato, che i
due campioni si allentarono e si rimisero a sedere, improvvisamente
racquetati dal pensiero del cappello volato via; e allora la corsa
ripigliò. Ma non mi riuscì neanche allora di vederli in viso perchè
restavano in piedi i loro vicini, intesi a sedare la contesa verbale
che ricominciava; nè potei capire che cosa dicessero, perchè il cicalìo
dei commentatori soverchiava la loro voce. Le notizie che arrivarono
fino a me eran contradditorie. Chi diceva che fosse nata la lite dal
fumo che l'uno dei due mandava in viso alla moglie dell'altro; chi
diceva invece d'un piede dato nelle reni alla signora per sbadataggine;
chi asseriva che non si trattasse d'un piede sbadato, ma d'una mano
investigatrice. Quello in cui tutti concordavano era che alla ceffata
maritale aveva dato la mossa decisiva un _boric_ nudo e crudo opposto
dall'altro ad un'osservazione vivace. Finalmente, quando i pacieri
sedettero, riconobbi la triade alle facce pallide e convulse e ai
due cappelli magagnati: una bella donnina col nasino all'in su, un
marito col viso bitorzoluto, e un biondo secco coi baffi sovversivi,
all'ultima moda. E fu il cocchiere, una faccia di ex carrettiere
burlone, che, rivoltando in bocca una cicca, dedusse la morale
dell'avvenimento. — S'ha un bel dire —, disse, fra due sputate nere —,
bene educati, male educati.... signori e povera gente, quando c'è di
mezzo _la fumela_, se le ammollano tutti ad un modo....
*
Con quest'avventura volgare dovrei chiuder l'ottobre, se proprio la
penultima sera del mese, per andare allo Sferisterio, non avessi avuto
la buona ispirazione di salire sulla giardiniera della linea dei Viali,
nel punto dove il Corso Oddone sbocca sul Corso Margherita. Salendo,
vidi alzarsi un cappello a cencio da una testa che a tutta prima mi
riuscì nuova; ma nell'atto di sedere sulla panca davanti riconobbi un
muratore venuto tre anni addietro a casa mia per darmi dei ragguagli
intorno al lavoro dei garzoni, quando pensavo di scrivere sulle fatiche
precoci dei ragazzi; e nell'atto stesso vidi accanto a lui l'operaio
della caramella, sua moglie e il piccino, seduti anch'essi sulla stessa
panca. Vidi passar nell'occhio del marito, nel momento che si fissò nel
mio, il ricordo di quella scena: non altro che un'ombra sfuggevole,
ma che era ancora di rancor voluto, più che di rammarico, e al tempo
stesso una mal celata espressione di stupore ch'io fossi conosciuto e
salutato quasi amichevolmente dal suo compagno. Sedetti, voltando le
spalle a lui e agli altri tre, e stetti in una vaga aspettazione, non
so ben di che, inquieta, e pure piacevole, pensando che la curiosità
gli avrebbe fatto domandare all'amico chi fosse lo sconosciuto ch'egli
aveva offeso, e che una parola di quello sarebbe bastata a mutargli
in tutt'altro senso quell'antipatia cieca, ch'era nata, come tante
nascono, non dal risentimento d'un torto patito, ma dalla coscienza
amara e dispettosa d'un torto fatto.
Appena seduto, in fatti, udii delle voci sommesse, da cui compresi che
le teste si erano avvicinate; ma durarono pochi secondi, e la brevità
del colloquio, appunto, m'accertò di quanto già l'altra volta m'aveva
fatto supporre il giornale che gli avevo visto leggere: che, soltanto
il mio viso essendogli sconosciuto, non gli sarebbe occorsa alcun'altra
notizia o spiegazione quando avesse inteso il mio nome. Seguì un
silenzio lungo, durante il quale mi parve di sentirmi entrar per la
nuca e scendermi dal cervello nel cuore i suoi pensieri. L'ascoltavo,
udivo le sue parole come se veramente le pronunciasse. E gli rispondevo
dentro di me: — Vedi che ti sei ingannato. Ah certo, fu una trafittura
al cuore che tu m'hai dato. Ma non credere, non t'ho serbato rancore.
Io ho capito. Eri senza lavoro, abbandonato, infelice; eri sdegnato
contro la società, e ti è parso uno scherno ch'essa porgesse un dolce
al tuo bambino mentre negava il pane a te, a lui e a sua madre. Pensa
se non t'ho capito e scusato! — E pensavo pure ch'egli avrebbe voluto
fare un atto, dirmi una parola che m'esprimesse il suo sentimento; ma
non immaginavo in qual modo si sarebbe potuto esprimere senza fare al
proprio orgoglio una violenza che sapevo difficile, io che in tanti
altri casi simili non ero riuscito a farla al mio. — Non farà e non
dirà nulla — pensavo — mi saluterà al momento dì scendere, e sarà
tutto. Ma basterà questo. Purchè io sia certo che ha mutato sentimento;
che importa che me lo dichiari a parole?
Ebbene, m'ingannavo. Nel punto che si svoltava sul corso San Maurizio,
udii di nuovo un rapido bisbiglio dietro di me, poi un breve silenzio,
poi qualche cosa come un peso mutato di posto, e mentre mi domandavo
che cosa potesse essere quell'armeggio, mi sentii prima un alito
nell'orecchio, poi una piccola mano sopra la spalla, poi una bocca
infantile che strisciò la mia guancia. Ah, caro bambino! Me lo
porgevano. Era lui il messaggiero muto, il pegno palpitante della
riconciliazione. Potete immaginare come me lo presi....


CAPITOLO UNDECIMO.

Novembre.
Quanto più s'avvicinava la fine dell'anno, tanto più sovente pensavo al
giorno in cui avrei abbandonato la “carrozza di tutti„ che era da molto
tempo il mio pensiero assiduo; e presentivo che sarebbe stato triste
per me, come per il romanziere il separarsi dal mondo del suo romanzo;
con questa differenza, ch'io non mi separavo da fantasmi, ma da gente
viva. Avrei continuato a correre sui tranvai, certamente, e a vedere
i miei personaggi e scene e casi curiosi; ma con la mente occupata
da altri pensieri, non osservando più che per caso, non facendo più
gite con quel proposito, non più tendendo l'orecchio, nè cercando o
interrogando; e i miei personaggi familiari si sarebbero sbiaditi a
poco a poco ai miei occhi, per rientrare poi e finir con perdersi nella
folla. Sì, col novantasei si sarebbe chiuso un anno veramente singolare
della mia vita, e benchè ne desiderassi la fine per riacquistare la
mia libertà di spirito, pure avrei voluto insieme che si allontanasse;
e per questo moltiplicai le corse, in quell'ultimo periodo, e cercai e
osservai con più viva alacrità avvenimenti e persone, come per vivere
più intensamente e prolungare nel mio pensiero il breve tratto di
tempo che mi rimaneva. Intanto, qualche cosa essendo trapelato del mio
disegno, io cominciavo a vedermi guardato da cocchieri e da fattorini
con un'espressione insolita di curiosità, assai diversa negli uni e
negli altri secondo il concetto che s'erano formati di quello ch'io
intendessi di fare, e dello scopo del mio lavoro. Alcuni, quando li
interrogavo, mi guardavano con un'aria di stupore comico, come una
bestia rara, un bel capo matto, che stillasse sul loro conto qualche
stramberia misteriosa, inaccessibile affatto a qualsiasi sforzo
della loro immaginazione. Altri pensavano ch'io volessi dare una
gran battaglia con la _piuma_ in loro favore, e, comunque esordissi
con le mie domande, tiravano subito il discorso sul servizio duro e
sulla paga scarsa e su torti fatti a loro o ad altri, suggerendomi
proposte dì riforme _ab imis_ e argomenti di tirate tribunizie. Ma
ne trovai anche parecchi, che, sospettando in me un ferro di polizia
della _Belga_ o della _Torinese_, un furbo mariuolo che, col pretesto
di fabbricare un romanzo, tirasse a far cantare gl'impiegati per
regola e norma delle Amministrazioni, stavano in guardia, e ad ogni
mia più innocente domanda, anche lontanissima dall'argomento sospetto,
s'affrettavano a rispondere: — Ah, io non potrei dir nulla; non ho da
lagnarmi; faccio il mio dovere, son trattato bene.... cosicchè.... —;
e il cosicchè voleva dire: — Non mordo all'amo; ne peschi un altro. —
Quello che diede più vicino al segno fu Carlin; il quale, la prima sera
di novembre, sul tranvai dei Viali, mi si piantò in faccia sorridendo,
e con l'aria di chi ha scoperto in un amico l'intenzione di fargli un
tiro burlesco: — Ah, dunque, — mi disse, — lei _ci vuol metter tutti in
poesia_?
*
È quella una corsa che deve fare, il giorno dei Santi, chi cerca lo
spettacolo, non frequente a Torino, d'una grande moltitudine. Per il
corso Margherita, per tutte le strade che vanno dal centro alla riva
della Dora, sui ponti, sui viali del Regio Parco e per i sentieri a
traverso i prati, s'allungavano cento processioni umane dirette al
cimitero, cento torrenti e rigagnoli neri, che travolgevano nelle loro
onde lente una profusione mirabile di fiori, come se avessero spogliato
nel loro corso tutti i giardini della campagna di Torino. Il tranvai
spezzava in due, a ogni tratto, delle grandi frotte di gente, così
fitte e restìe a separarsi da parere stuoli enormi tutti di parenti
e d'amici; famiglie numerose come tribù, dal nonno curvo ai nipotini
condotti per mano, precedute dall'uomo più robusto, portante una
grande corona; file di uomini e di donne, con corone piccole fra le
mani, che facevano ala per un momento al nostro passaggio, mostrando
una varietà infinita di visi pensierosi, spensierati, tristi, sereni,
alcuni improntati d'un dolore recente, i più di indifferenza o di noia;
e in quella grande moltitudine un grande silenzio, come in un esercito
disarmato e prigioniero. Sulla giardiniera c'era un carico di corone e
di ghirlande, adagiate o tenute ritte sulle ginocchia da signore e da
donne del popolo; alcune di viole del pensiero e di rose bellissime;
e forse ci sedeva già vicino e le adocchiava il ladro mortuario che
ne avrebbe rubato il nastro la notte. O carrozza di tutti, piccolo
panorama del mondo a dieci centesimi! Stando ritto in fondo, vedevo
dentro il vano d'una gran corona di mirto e di semprevivi le teste
combaciate d'un giovane e d'una ragazza che tortoreggiavano sulla
panca davanti, e quell'idillio chiuso in quella cornice funebre mi
faceva pensare a quante altre parole d'amore si sarebbero scambiate
quel giorno, a quanti innamorati avrebbero pedinato le belle in
mezzo alle croci e alle tombe, spandendo qua e là sulle iscrizioni
dolorose la gioia degli sguardi e dei sorrisi corrisposti. Una povera
donna, seduta davanti a me, teneva fra le mani una piccola corona di
crisantemi violetti, da pochi soldi, che doveva esser destinata a un
bambino, e parlava, parlava con voce accorata, come facendo uno sfogo,
al marito duro, che non rispondeva. Ah, che pietà! Da qualche parola
capii che la corona le pareva troppo misera, indegna del suo caro
morticino, e che rinfacciava all'uomo l'avarizia crudele o il danaro
sciupato all'osteria, che le aveva tolto di comprare una corona più
bella. — _Pover cit, va!_ — diceva. — _Pover cit!_ — con un accento
di compassione e di tristezza che stringeva l'anima, e guardava e
rivolgeva la corona fra le mani con l'atto d'una bambina delusa e
umiliata del regalo lungamente desiderato, lanciando tratto tratto
delle occhiate d'invidia triste alle altre corone grandi e ricche, che
le stavano intorno. Ci son piccoli dolori che fanno più pena delle
grandi sventure. Mi dovetti voltare da un'altra parte, quando la
povera madre discese al ponte delle Benne; dovetti guardare verso il
Corso San Maurizio, che altri tranvai risalivano, pieni anch'essi di
gente e di corone, tagliando una grande processione nera riversantesi
da via Rossini in via Reggio, simile anche essa a un torrente su cui
galleggiassero tutti i fiori delle sue rive predate.
*
Rifeci la stessa strada il giorno dei morti; ma la gente era scarsa,
e velata da una nebbia umida, in cui le file dei lontani apparivano
come processioni d'ombre, che ritornassero dalla città al cimitero,
dopo aver reso ai parenti la visita del giorno innanzi. Pareva una
serata d'inverno. Sulla giardiniera c'eran poche persone. Tutta la
mia attenzione fu attratta da una sola. Sedeva sopra una delle ultime
panche, in mezzo a uno spazio vuoto, una signora di quarant'anni,
vestita di seta nera sbiadita, con una miseria di cappellino nero,
guernito di rose selvatiche, e una piccola corona fra le mani, di
perline nere e gialle, sulla quale erano disegnate due iniziali. Quelle
povere rose, benchè pallide e sciupate, parevano ancor fresche e d'un
rosso vivo appetto alla pallidezza cadaverica del suo viso infossato
alle guance, smunto e secco come un teschio con la pelle; nel quale
brillavano d'una fiamma febbrile due occhi dilatati e fissi, esprimenti
una stanchezza mortale, una tristezza infinita. Quella veste logora
disegnava le forme non d'un corpo, ma d'uno scheletro, e dalla pelle
delle tempie e del collo trasparivano le vene come le righe d'uno
scritto dalla carta velina. La corona diceva: — Sono afflitta; — la
veste: — Son povera; — il viso: — Son moribonda. — Pareva che portasse
quei fiori al camposanto per sè medesima. Aveva l'aspetto d'una vecchia
ragazza; era senza dubbio una signora caduta in povertà; sola al mondo,
forse. Tutt'a un tratto, le prese un accesso di tosse; con un brusco
movimento appoggiò un braccio sulla spalliera davanti, chinò il capo
sul braccio, e si mise a tossire, riscotendosi tutta a ogni schianto,
violentemente, come alle strette d'un artiglio che le frugasse le
viscere, e inarcando le spalle ossute e il busto lungo, d'una eguale
strettezza dalle spalle alla cintura, come un tronco d'alberella
incurvato, che un colpo di vento può infrangere. E tossì, tossì,
senza tregua e senza fine, in un atteggiamento d'abbandono sconsolato,
facendo dondolar le rose del cappellino e tenendo la corona in là col
braccio teso per non sciuparla; tossì d'una tosse fischiante, faticosa,
implacabile, che quando pareva sul punto di cessare ripigliava più
fitta e più aspra, come se non fosse dovuta cessare mai più, come se
fosse stata un linguaggio, un'effusione di parole confuse, il racconto
appassionato d'una lunga vita di miserie e d'angoscie, un'invocazione
ardente, ostinata, disperata della morte. I pochi passeggieri stavano
a guardarla con un'espressione mista di pietà e di ribrezzo. — Quella
lì, — disse forte il fattorino, — non farà le feste di Natale. — Bruto!
— gli dissi col cuore e con gli occhi. Un ragazzetto, voltato verso
di lei dalla panca vicina, rideva. Finalmente, quando il tranvai fu a
cento passi dal piazzale delle Benne, la disgraziata smise di tossire,
e rialzato il capo, sfinita di forze, s'assicurò subito che la corona
non si fosse guastata, palpandola qua e là con la sua mano di morta;
poi, come ricordandosi a un tratto dello spettacolo che aveva dato
di sè, girò sui vicini uno sguardo velato, umile, quasi vergognoso,
come di chi chiede scusa d'un'offesa involontaria, e alzò a stento il
braccio che pareva un osso, per far cenno di fermare. Quanto è male
giudicare il cuore della gente incolta da una parola villana! Fu il
fattorino, fu il _bruto_, che prima di lei saltò giù dalla carrozza
e con un atto di premura rispettosa e triste le porse la mano per
aiutarla a scendere. Io non avrei detto quella parola; ma non avrei
fatto quell'atto. Ah, la rettorica dei cuori gentili!
*
Il principio dl novembre mi portò ancora un'altra tristezza. Pochi
giorni dopo, in una mattinata piovosa e malinconica, salii in Piazza
dello Statuto sul tranvai del Martinetto, dove trovai Carlin, che
mi diresse subito la parola per espandere un suo caldo sentimento
d'ammirazione. — Ha letto, eh? Quel Kossuth! Quelli son vecchi di
polso! A quell'età, battersi in duello! Hanno un bel dire; ma non
ne nasce più.... Sacrestia! Ebbene, mi fa piacere. — Aveva letto nel
giornale la notizia del duello seguito a Pesth fra i deputati Kossuth
e Ugron per una quistione politica, e credeva che si trattasse del
padre, di cui ignorava la morte. Egli lo conosceva, il grand'uomo; glie
l'avevano indicato una volta in tranvai sulla linea della barriera di
Casale, e gli pareva miracoloso, giustamente, che quell'uomo facesse
ancora valere le sue ragioni col _saber_. Quando gli dissi che il
duellante era il figlio, e che il vecchio Kossuth era morto l'anno
prima, rimase stupefatto. Poi, essendoglisi chiarita la memoria,
per dissimulare la vergogna del granchio, voltò all'improvviso la
sua ammirazione verso il Chionio, l'autore del _Tempo che farà_,
il quale aveva predetto la pioggia appunto per quel giorno: — Un
altro grand'uomo quello, una testa che fa onore a Torino. — Intanto
s'era infilato via Garibaldi. Passato appena il canto di via delle
Scuole, il tranvai fu arrestato da un convoglio funebre: un meschino
carro di terza classe, a cui era appesa una piccola corona di edera,
preceduto da una ventina di _figlie verdi_, e seguito da un prete
e da poche altre persone, la più parte vecchi, curvi e zoppicanti
sotto gli ombrelli: una cosa misera e triste quanto si può dire,
sotto quell'acqua fitta, in quella strada rumorosa, dove nessuno si
voltava neanche a guardare, in mezzo a quei muri tappezzati d'annunzi
teatrali raggrinziti dalla pioggia. Mentre notavo che i più di quei
vecchi avevano un nastro all'occhiello, vidi davanti a loro, sotto
il carro, un piccolo cane tutto impillaccherato, che mi parea di
riconoscere.... Eh, sì, proprio, era Ciuchetto. O mio povero buon
veterano! Era lui, dunque, che portavano via! E infatti, voltatomi
a guardar la porta da cui il carro s'era mosso, lessi il numero 43,
la porta donde avevo visto uscir tante volte il caro vecchio, con la
mano in alto, per accennare al cocchiere che fermasse. Povero mio buon
veterano! L'avevo trovato l'ultima volta così contento della sua gita
ai laghi d'Avigliana e del matrimonio del principe di Napoli. E anche
quella mattina, all'ora solita, in quel luogo solito, egli aveva fatto
fermare il suo tranvai; ma non più alzando la mano, poveretto, e non
più per salire: egli era salito sopra un'altra carrozza, tutta per lui,
e diretta fuor della cinta; e il suo povero Ciuchetto, il suo ultimo
amico, lo accompagnava per l'ultima volta, rimasto solo al mondo, solo
e senza pane, com'egli aveva tristamente previsto. Ebbene, egli aveva
compiuto il suo cammino, il buon vecchio, e andava a riposare in pace;
ma quel povero cane infangato, che andava in capo al corteo come il
parente più prossimo, abbandonato e triste come un orfano, era più
compassionevole a vedere del carro che gli portava via il suo padrone.
E per un pezzo non mi potei più liberare dall'immagine di lui, che
sarebbe ritornato dal cimitero solo, verso la grande città annebbiata,
dove non aveva più tetto e non l'amava più alcuno....
*
Fu il professore azzeccasonetti il mio primo incontro lieto del mese;
lieto non per suo merito, ma in grazia del caso. Mi colse in un momento
buono per lui, una sera di festa, sopra una piattaforma dov'eravamo
già in sei più del numero legale, stretti, accalcati in maniera che
non avrei potuto fare il minimo atto di difesa; ma, con mia gran
meraviglia, non m'investì subito. Era d'un umore orrendo, coi baffi
irti come penne d'istrice, furibondo contro il direttore d'un giornale
letterario che aveva rifiutato i suoi versi: un asino, un cretino che
avrebbe “cestinato„ un canto anonimo del Leopardi ed empiva le colonne
di porcherie. — Già, ha pubblicato anche delle cose sue, — mi disse
senz'ombra d'intenzione offensiva; — lei lo deve conoscere. — E mi
credevo già al sicuro, quando egli aggiunse: — Senta però come l'ho
conciato.... un sonetto che è un vero schiaffo di quattordici dita....
— Mi vidi perso; ma fui salvato. Salì sulla piattaforma, ridendo
sonoramente, un bel fusto di ragazza rosata, scarmigliata, sfrontata,
abbondante di tutto, mezza brilla e col diavolo in corpo; la quale
mise lo scompiglio in quel serra serra e tagliò in bocca a lui il primo
verso. Tentò d'entrare nell'uscio, non potè; si cacciò avanti e disse
una facezia grassa al cocchiere; poi si rifece indietro, e poi a destra
e a sinistra; in mezzo minuto scomodò tutti e rise con tutti, rigirando
sopra sè stessa e cascando a ogni sobbalzo del tranvai ora addosso agli
uni ora agli altri, che le scoccavano in viso degli scherzi, a cui essa
ribatteva con una risata, mettendo in tutte le nari l'odore dei suoi
capelli e il calore del suo fiato. E fu un bel vedere la scintillaccia
che diè fuori da tutti quei visi barbuti e gravi, senza distinzione
d'età nè di classe. Fu come l'effetto d'una candela accesa in mezzo
a uno sciame di farfalloni assopiti. C'erano degli operai, dei padri
di famiglia in cilindro, un consigliere della Corte d'Appello con una
faccia che pareva il frontespizio del Codice, un vecchio impiegato
dell'Intendenza di finanza, e degli studenti, che poco prima si
guardavano per traverso, uggiti dal contatto reciproco, e imbronciati
gli uni contro gli altri. Ed eccoli ora, quasi riconciliati e
affratellati per incanto, mostrare tutti negli occhi il luccichìo d'un
giolito comune e scambiarsi dei sorrisi quasi amichevoli, come gente
che trinchi insieme toccando i bicchieri. Eterno femminino! E anche
il poeta, attaccato dal contagio, teneva fissi gli occhi su quella
capigliatura scomposta e insolente che di tratto in tratto sfiorava la
bazza a lui pure, e mi pareva che il velarsi improvviso del suo sguardo
accusasse ogni tanto un movimento indagatore del ginocchio; ma guizzava
a un tempo sulla sua bocca l'espressione d'un altro sentimento. Era un
sentimento di dispetto, un'umiliazione amara al pensare che poca cosa
fosse la potenza della poesia, sua consolazione e suo orgoglio, se
bastava l'apparizione d'una qualunque giovine asinella in calore, non
solo a distogliere gli altri dall'ascoltarlo, ma a scompigliare nella
sua mente stessa i “sudati carmi„ e a mutare in tutt'altro ardore il
suo fuoco sacro. Quando la ragazza, lanciato in giro un _cerea_ burlone
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