La Carrozza di tutti - 02

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avrebbe voluto che si “desse una lezione„ anche alla Francia. Era un
esempio maraviglioso di atavismo bellico. Le sue idee sulla politica
estera si riducevano in un solo concetto semplicissimo: — _darle_ —;
dandole, non importa a chi nè con qual fine, s'accomodava ogni cosa.
Avendo un giorno udito parlare delle stragi d'Armenia, diceva che
si doveva mandar là “in vcntiquattr'ore„ tutte le flotte: era molto
semplice anche il suo modo di risolvere la quistione d'Oriente: —
_Bombardé tutt!_ (Bombardar tutto) — e accennava con un gesto largo
tutto l'orizzonte. Ma pochi gli davan retta, perchè i blateroni, a
Torino, fanno poca presa. V'era un solo passeggiere che gli rispondeva
ogni tanto qualche monosillabo perchè lo doveva conoscere da un pezzo,
un abbonato che saliva ogni mattina alla stess'ora sui tranvai diretto
a Piazza Castello, un tipo di travet che ha del suo, grasso e severo,
e correttamente vestito; che Carlin chiamava “cavaliere„. E anche
questo era destinato ad essere uno dei miei personaggi prediletti.
Era la figura ideale del _bicchierino_ pacato e compassato. Si sedeva
ogni mattina dentro, dalla parte posteriore del carrozzone, e se
non trovava libero quell'angolo, anzichè sedersi in un'altra parte,
restava in piedi di fuori. Appena seduto, ogni volta con lo stesso atto
riposato tirava fuori dalla stessa tasca del soprabito la _Gazzetta
del Popolo_, l'apriva lentamente, e leggeva sempre per prima cosa la
cronaca cittadina, e poi il rimanente, ma senza mai tagliare il foglio,
che voltava e ripiegava con tutti i riguardi, e senza dar mai nel viso
il più leggiero segno di curiosità o di maraviglia, qualunque fossero
le notizie del giorno; finchè arrivato in Piazza Castello tirava
fuori l'orologio, ogni mattina con lo stesso gesto, e guardava l'ora
prima di scendere. Un vero _travet_ dello stampo antico, conservatosi
intatto perfettamente. E d'un amor proprio campanilista così geloso!
Una mattina, lui presente, vedendo che passava un carro sul marciapiede
per lasciar la strada al tranvai, dissi forte a un mio amico: — Già,
questa via Garibaldi è troppo stretta. — Egli alzò dalla _Gazzetta_
il viso stupito e sgranando gli occhi verso di me, senza guardarmi in
faccia, mormorò: — Stretta Via Ga-ri-bal-di? — Poi ricominciò a leggere
con una sfumatura di sorriso ironico sulle labbra. Tutta l'anima del
vecchio Torinese s'era rivelata in quelle tre parole. Me ne innamorai,
e scrissi i suoi connotati nel mio taccuino.
*
Pure in quei giorni feci un'altra scoperta che mi diede un impulso
di più a colorire il mio disegno, la scoperta (non posso far di meno
di quest'espressione barbarica) dell'“erotismo tranviario„ una delle
“molte forme psicologiche di quella eccitazione sessuale„ che, secondo
il Ferrero, è cagione della minore attitudine della razza latina al
lavoro metodico, in confronto della razza anglo-sassone. Scopersi che
v'è una famiglia d'uomini di tutte le età, ma i più dell'età matura e
della classe agiata, facilmente riconoscibili, per i quali il tranvai
è un nido errante di delizie erotiche del pensiero, una specie di arem
continuamente cangiante, in cui per la via degli occhi, dell'olfatto
e dei contatti fortuiti essi si procurano mille godimenti raffinati
dell'immaginazione. Infatti, respirare come in un salottino un'aria
pregna di delicati profumi femminili, seder per mezz'ora in mezzo a
due belle signore che vi pigiano, sentirsi urtare il ginocchio dal
ginocchio o premere il piede dal piedino d'una signorina che entra o
che esce, o appoggiar la mano inguantata sulla spalla da un'altra che
perde l'equilibrio nell'atto di sedersi, e altre cosette simili, sono
piccole voluttà in nessun altro luogo così frequenti e così facili
come nella carrozza di tutti. V'è in questa famiglia una varietà
grandissima di dilettanti, da quello che cerca soltanto dei piaceri
quasi spirituali, come il _grazie_ e il sorriso della signora a cui
cede il posto o apre l'uscio o porge il fazzoletto dimenticato o
sorregge il bambino quando scende, via via, per una gradazione minuta,
fino a quello che preferisce le voluttà più sensuali della piattaforma,
dove le sere dei dì di festa, fra la calca della gente in piedi, si
trova a strofinar la barba sulla capigliatura fresca d'una ragazza
del popolo, o riceve sul petto e nel viso l'urto e l'alito d'una bella
persona buttatagli addosso da un sobbalzo del carrozzone, o può premere
col braccio un braccino imprigionato, di cui sente la morbidezza a
traverso la manica. Studiare questi vari “amorosi„, e in special modo
gli ultimi, del palcoscenico rotante, osservare le simulazioni diverse
di fredda indifferenza o di raccoglimento filosofico con cui cercano
di coprire le loro ebbrezze silenziose, e cogliere anche il contrasto
comico che c'è qualche volta tra la gravità dei loro discorsi politici
e la natura delle loro sensazioni e dei loro pensieri segreti, mi parve
una cosa nuova e allettante. E apersi una colonna per gli erotici dei
tranvai nello scartafaccio dei miei appunti.
*
Ebbi ancora una spinta a scrivere esperimentando quante più cose
abbracci e penetri la facoltà d'osservazione quando invece d'aspettare,
come di solito, il richiamo degli oggetti, si fa una facoltà attiva,
che interroga e cerca, acuita dalla curiosità e stimolata da uno scopo.
Non ero ancora ben fermo nel mio proposito che già, in quegli ultimi
giorni di gennaio, avevo raccolto una maggior quantità d'osservazioni
che non avessi fatto per l'addietro in molti anni; alcune delle quali,
d'ordine generico, m'avrebbero messo sulla via di farne molte altre
curiosissime. Avevo osservato, per esempio, che signori e signore,
rispetto al modo di considerare il tranvai, si dividono in due ordini:
quelli che lo hanno accolto e se ne servono volentieri, senz'alcuna
ripugnanza, anzi quasi compiacendosi della promiscuità delle classi
che v'è inevitabile, e quelli che se ne giovano perchè non possono
farne di meno, ma che, per quella ragione che lo rende ad altri
piacevole, vi ripugnano, e fanno un piccolo sacrificio d'amor proprio
ogni volta che vi salgono, e mostrano a mille segni sfuggevoli, mentre
vi stanno, di adontarsi dei contatti plebei e di non veder l'ora di
uscirne. Avevo notato, in special modo nella gente del popolo, e più
che altro nel sesso femminile, altre due grandi famiglie: quella dei
disinvolti, in cui è vivo e altero il sentimento dell'eguaglianza, che
s'accomodano e discorron forte fra i signori come in casa propria,
non vergognandosi, anzi facendo quasi ostentazione dei loro panni
poveri; e quella dei timidi, giovani e ragazze per lo più, anche
del ceto medio, che entrano impacciati e arrossendo come in casa
d'altri, umilmente cerimoniosi, e siedono tenendo gli occhi sulle
ginocchia, e aspettano per scendere che tiri un altro il campanello,
per non attirar l'attenzione sopra sè soli. Mi s'era presentata fra i
passeggieri d'ogni classe un'altra divisione notevolissima: la schiera
dei noncuranti, che non hanno alcuna curiosità dei propri simili,
che stanno là con gli occhi morti, senza guardar nè chi esce nè chi
entra, come se fossero stufi dello spettacolo della vita e non avesse
più alcun viso umano maggior significato per loro che una pietra
del lastrico, e quella degli spiriti curiosi, che giran gli occhi
continuamente da un viso all'altro, badando a ogni atto e a ogni parola
di tutti, con la vivacità evidente d'un pensiero che scruta, indovina
e commenta, come se ogni sconosciuto che entra nel carrozzone entrasse
nella vita loro e dovesse un giorno esercitare un influsso sul loro
destino.... E altre mille cose osservavo ogni giorno, maravigliandomi
di non averle prima vedute mai, come se fosse stato sempre tra me
e i miei compagni di corsa interposto un velo, che soltanto in quei
giorni si squarciasse. Quante scene mute finissime e giochi riflessi di
fisionomia e manifestazioni involontarie di pensieri e di sentimenti
intimi fra quella gente che non si conosce, che si vede e si tocca
per un momento, e non s'incontrerà forse mai più nella vita! Che
baleni guizzano sul viso della ragazza povera, ma bella e opulenta
di forme, quando siede di fronte alla signorina d'aspetto infelice e
d'abbigliamento splendido, della quale si sente gli sguardi addosso
e indovina i pensieri; quali ombre passano sul viso della signora
elegante, regina del tranvai per cinque minuti, quando n'entra un'altra
elegantissima, che svia da lei e attira a sè tutti gli sguardi e le
siede davanti vittoriosa posando i piedi sulla sua corona caduta; e
quante cose dicono gli occhi della vecchia ragazza malinconica quando
le sta di faccia una florida mamma campagnuola con un gran pezzo di
marmocchio rosato che le succhia l'anima dal seno! E che rapido e
parlante scambio di sguardi e di sorrisi segue tra i passeggieri quando
il sindaco della città, conosciuto da tutti, non trova più posto che
accanto a uno spazzino municipale con tanto di scritta sul cappello, e
quando una mondana dipinta, incipriata e petulante, riconoscibile alla
prima occhiata, si viene a seder dirimpetto a una povera monachella
che sfila il rosario col mento inchiodato sul petto, e quando un
giovinotto attillato, che ha già preso un atteggiamento galante davanti
a una bella signora, scendendo questa ad un tratto, si vede sedere
di faccia in luogo suo un vecchio donnone in rovina con un cavolo
enorme fra le braccia! E muta ogni tanto, come un quadro dissolvente,
l'aspetto generale della compagnia. Predomina per un tratto il bel
sesso signorile con un profumo misto d'essenze fini e di viole; poi
si squaglia come per accordo, e prevale il popolo minuto — operai,
erbivendolo, serve — con un odor forte di pipe spente e di cipolle; e
poco dopo si trasforma il carrozzone in una stanza della Maternità,
dove cinque o sei piccini sgambettano e gnaulano, rodono mele e
pagnotte e succhiano poppaiole e caramelle; e dieci minuti appresso
non ci son più che vecchi intabarrati, occhiali e barbacce, facce
gravi d'uomini d'affari che consultano taccuini e discuton di cifre
come in una sala d'agenzia. E in ciascuno di questi quadri mutevoli è
un succedersi continuo di macchiette che spiccano vivamente sul fondo,
ora un ufficiale in gran divisa, ora un prete che legge l'ufficio, o
una signora con un mazzo di fiori, un ubbriaco che parla da sè, un
malato che languisce, un contadino che dorme. Una piccola immagine
della società umana, infine, un piccolo mondo pieno anch'esso di pompe
e di miserie, di ravvicinamenti strani e di contrasti bizzarri, col
suo baratto perpetuo d'invidie, di disprezzi e di danari; nel quale v'è
chi scende, chi sale e chi casca, chi va fino a capo della corsa e chi
s'arresta a metà, e chi non trova posto e chi n'occupa troppo, e gli
uni lo disputano agli altri, e questi ridono, e quelli si lagnano, e
tutti hanno premura di giungere, e il veicolo che porta tutto questo —
come quell'altro — va, va, va senza posa
per tornar sempre là donde s'è mosso.
*
A questo punto il libro mi si disegnò nel pensiero lucidamente:
scrivere quello che vedevo sui tranvai, giorno per giorno, per il corso
d'un anno, dipingendo le persone più notevoli che v'avrei rivedute
più sovente; rappresentare le relazioni e l'azione che esercitano
l'una sull'altra, mescolandovisi, le varie classi sociali, senza
forzare il vero ad alcun fine; ritrarre, insomma, il più fedelmente
possibile, quella varia commedia umana, sparsa e fuggente per quindici
lunghissime linee, che, intersecandosi in cento punti, costituiscono
nella circolazione generale della vita cittadina una circolazione più
rapida, e quasi una vita volante al disopra di quella della popolazione
che cammina. Ma dal concepire il disegno al cominciare risolutamente
il lavoro c'è un passo, che in più d'un caso non si fa mai. A farlo
occorre alle volte un ultimo impulso, un piccolo accidente, che è
come la fiammella che dà fuoco a una grande architettura pirotecnica
lungamente preparata.
Questo piccolo accidente m'occorse l'ultimo giorno del gennaio, verso
il tramonto, sulla linea del Corso Vinzaglio. Il carrozzone era pieno.
Sul Corso Vittorio Emanuele salì e rimase in piedi sulla piattaforma
davanti una donna del popolo d'una trentina d'anni, vestita male, che
teneva in braccio una bellissima bambina bionda di nove o dieci mesi.
Stando lei rivolta verso i cavalli, la bambina, appoggiata alla sua
spalla, volgeva il viso indietro, verso uno dei finestrini; dietro il
quale, nell'angolo interno del carrozzone, sedeva una giovane signora,
che avevo visto altre volte su quella linea, e che per il viso, il modo
di vestire e il contegno ugualmente singolari m'aveva colpito. Era
piccolina, ma bella, con due grand'occhi scuri e sporgenti; un viso
bruno pieno di vita e improntato d'una bontà grave, calda, inquieta,
ardita, come quella d'una suora di carità sul campo di battaglia;
e avevo notato che quando parlava le veniva su di tratto in tratto
un'ondata di sangue e le si gonfiava il collo e le s'alzava il seno
con violenza come se la forza della passione le opprimesse il respiro.
Ed era vestita bene, ma senza nulla di vistoso, con una discrezione
evidentemente voluta, che appariva anche più modesta accanto
all'eleganza della bambinaia che aveva con sè; e c'era nel suo vestito
una certa trascuratezza inconsapevole, che s'accordava coi suoi capelli
un po' scomposti, non per arte, si vedeva, ma per negligenza. Teneva in
quel momento ritto sulle ginocchia un bambino d'un anno al più, vestito
con lusso, bruno come lei, con gli occhi grandi e oscuri come i suoi;
il quale stava appoggiato col viso e con le mani contro il vetro del
finestrino.
Il bambino e la bambina si trovarono così di fronte l'uno all'altra,
quasi toccandosi col viso, non separati che dal vetro.
Appena si videro, parve che si riconoscessero dopo essersi per
lungo tempo desiderati e cercati. Non è raro il caso fra bambini di
quell'età; ma uno così bello non l'avevo visto mai. Cominciarono
a sorridersi, poi a ridere, a scuotersi e a tender le braccia, la
bambina chinandosi, il bimbo alzandosi sulla punta dei piedi; palpavano
il vetro con le manine, volevano toccarsi, avvicinavano i visi,
cercavano di sguisciare dalle mani delle loro mamme, ed eccitati a
vicenda da quella mimica amorosa, s'agitavano e ridevano sempre più
forte, mostrandosi i sedici dentini incisivi che avevano fra tutte e
due, ansando e accendendosi nelle guance, trillando e scattando con
tal vivacità l'un verso l'altro, che prima le due madri dovettero
voltarsi e trattenerli perchè non dessero delle capate nel vetro, e poi
tutti i passeggieri ch'eran dentro si misero a guardare, sorridendo,
maravigliati di quella espansione irrefrenabile di simpatia e
d'allegrezza.
Tutt'a un tratto la signora balzò in piedi, aperse l'uscio con una
mossa vigorosa e uscendo sulla piattaforma alzò il suo bimbo verso
la bambina, che l'aspettava con le braccia tese. Volevano baciarsi,
ma non sapevano, si misero le mani sul capo e intorno al collo, si
strofinarono il viso l'un contro l'altro, e poi s'avviticchiarono,
parendo per un momento un solo grosso bimbo con due teste, vestito per
metà da povero e per metà da signore, con una capigliatura mezza bruna
e mezza bionda....
— Ah che _birichinaia grama_! — esclamò Giors, dando una frustata ai
cavalli, dopo aver visto la scena. — Maledetta razza di sfaccendati, di
mangiapani a tradimento! — E voltando verso di me il viso esilarato: —
Eh, a quell'età, in pieno tranvai! E il povero Giors che fa lume! — E
diede in una risata. Ma vidi che aveva gli occhi inumiditi.
— Il libro è fatto — pensai.


CAPITOLO SECONDO.

Febbraio.
Un consiglio agli studiosi delle donne: osservino i loro diversi
modi di far fermare il tranvai, di sulla strada e di dentro, e ne
ricaveranno gran lume a giudicare del loro carattere. Alcune agitano
l'ombrellino in alto, da lontano, come un capitano di cavalleria
agita la sciabola, o gridano un _alt_ imperioso, corrugando la
fronte e tendendo il braccio come per dare un ordine perentorio a
un marito ribelle; altre muovono la mano all'altezza della spalla,
come chi chiama a sè qualcheduno, o l'alzano graziosamente con due
dita tese e col capo un po' inclinato da una parte, sorridendo,
nell'atto della scolaretta che chiede il licet alla maestra: mogline
sottomesse, parrebbe. E infinita e piena di significati psicologici
è la gamma degli _alt_ argentini e gravi, tremoli e dolci come note
di tortora o interiezioni amorose, o duri e taglienti come i _no_
d'una virtù inespugnabile. Quelle che hanno l'_alt_ soave, per lo più,
s'affrettano a salire, chiedendo scusa del ritardo con uno sguardo
timido e sorridente; le altre, invece, se anche sono d'un bel tratto
lontane, fanno il comodo loro, non badando agli atti d'impazienza dei
passeggieri che aspettano, o mostrando un viso di regine offese. E sono
anche più diversi i modi di far fermare per discendere. Le une s'alzano
di scatto e danno una strappata alla correggia del campanello come
padrone irritate che chiamino il servitore; le altre fanno un cenno di
preghiera al fattorino perchè tiri lui, o se stanno sulla piattaforma,
premono delicatamente con l'indice la spalla del cocchiere e gli
domandano all'orecchio, come in confessione, se vuol _far il piacere_
di fermare _un momento_. E si capisce che in molte, specialmente della
classe alta, deriva da un concetto esagerato della brutalità degli
uomini del popolo e del loro mal animo contro i signori la cortesia
eccessiva e quasi umile che usan con loro; con la quale cercano
d'ammansirli, come cagnacci ringhiosi, per timore di villanie gratuite;
ed è altrettanto palese che quelli rispondono malamente, in molti casi,
a quella cortesia soverchia, appunto perchè ne intuiscono la cagione, e
se ne adontano.
*
Stavo riandando queste osservazioni, fatte per l'addietro, quando salì
accanto a me sul tranvai dei Viali, vicino alla Mole Antonelliana,
un bel giovanotto di mia conoscenza, una specie di fanciullo erculeo,
sano e fresco come un fiore, figliuolo d'un ricco proprietario di case,
dilettante di pittura a ore perse, simpatico per un misto originale
d'ingenuità e d'arguzia, e compagno di chiacchiere piacevolissimo,
perchè conosceva mezza Torino. Seguitai con lui a voce alta il corso
dei miei pensieri.
— Ah! — esclamò, — lei fa degli studi sui tranvai. E anch'io. — Aveva
fatto egli pure delle osservazioni sull'“erotismo tranviario„, ma
s'occupava d'un ordine particolare di fatti: era uno _specialista_ del
bel sesso. S'interruppe per guardare una signora seduta dentro; poi mi
domandò se mi ricordavo dove quella signora fosse salita. In piazza
Vittorio Emanuele, mi pareva. — E scusi — ridomandò — ha osservato
che abbia preso il biglietto di coincidenza? — Non l'avevo osservato.
Rimase un po' pensieroso; poi disse piano: — L'ha preso di sicuro.
È strano. Gira su tutte le linee e prende sempre la coincidenza. Ci
dev'essere un perchè: forse per sconcertare i curiosi, o per sviare
qualche spia, che sospetta d'aver alle calcagna. — Gli domandai
chi fosse. Lo sapeva; ma non lo disse. — È la signora.... delle
coincidenze — rispose sorridendo. E mi parlò della sua “specialità„.
Egli si divertiva a indagare i misteri amorosi. C'era, per esempio,
una signorina di famiglia conosciuta, che saliva sempre sul tranvai
con la sua cameriera, ma fingendo di non essere in sua compagnia, e
a un dato punto scendevano tutt'e due, e l'una pigliava da una parte,
l'altra dall'altra, come se non avessero nulla a che fare fra di loro:
c'era lì sotto un segreto, che non aveva ancora potuto scoprire. Ah i
tranvai, che agevolezze avevano portato agli amori e che tormenti alle
gelosie! Egli sapeva di mariti gelosi che proibivano assolutamente alla
moglie di salirvi; che piuttosto di salire con essa sulla piattaforma
affollata, quando dentro non c'era più posto, facevano due miglia a
piedi sulla neve, e che quando eran costretti a ficcar la loro metà
in quella calca d'uomini in piedi, vigilavano le facce circostanti con
occhi di basilisco soffrendo delle torture d'inferno. Ne aveva inteso
uno, in un salotto, chiamare l'istituzione del tranvai immorale, e
definire i carrozzoni veicoli di scandalo, case ambulanti di mala fama.
Ma d'altra parte, era un'“istituzione„ assai comoda per il servizio di
polizia coniugale. Egli conosceva una signora che cercava gli scontrini
negli abiti di suo marito per accertarsi ch'egli fosse veramente andato
dove aveva detto, e che spesso, quando egli usciva dicendo: — Vado nel
tal sobborgo — usciva essa pure, subito dopo, per pigliare un'altra
linea convergente allo stesso punto; per il che accadeva qualche volta
che in capo alle due corse, alla barriera di Nizza o di Casale, moglie
e marito si ritrovavano di fronte, lei contenta d'averlo riconosciuto
sincero, lui arrabbiato d'esser stato seguito; e ne seguìva una scena.
— La linea dove avvengono più incontri d'amanti — disse poi —, è quella
da piazza Castello alla barriera di Nizza. — Gli domandai perchè. —
Non lo so — rispose —, ma è quella. Ne riparleremo. — E mentre stava
per scendere, si rattenne per dirmi: — Guardi là, intanto, un quadretto
curioso per lei.
Era un quadretto amenissimo, infatti; una famiglia numerosa,
raggruppata da un lato del viale, due vecchietti, tre ragazze e due
bimbi, che accennavano al cocchiere di fermare agitando tutti insieme
nella nebbia una canna, quattro ombrelli e non so quanti fazzoletti,
con le braccia in alto, con un movimento regolare e continuo, come un
gruppo di naufraghi sopra uno scoglio, che chiedessero soccorso a un
bastimento.
— Frequenti la linea della barriera di Nizza — mi ripetè il pittore
discendendo; — ci troverà molti _documenti_.
*
Dovetti appunto in quei giorni frequentar quella linea per andar a
visitare un vecchio amico malato, che stava sul corso Galileo. E fu un
piacere nuovo per me, in quelle mattinate grigie d'inverno, correndo
quella lunghissima via diritta, a cui la grande stazione affumicata
della ferrovia, i camini delle officine, il via vai fitto dei carri e
la folla e la nebbia danno l'aspetto d'una via di Parigi o di Londra,
osservare nella rapida corsa come la città via via dirada, rappicinisce
e si acqueta fino alla barriera di Nizza, dove par che nelle cose e
negli uomini incominci la pace della campagna. In pochi giorni conobbi
la linea. Andando verso le dieci vedevo venir giù la _vivandiera_,
il carrozzone consolatore che porta in piazza Emanuele Filiberto
la colazione dei fattorini e dei cocchieri, il carico dei canestri
sospirati, gli uni per gli scapoli, dati dalla Cucina economica della
_Società Torinese_, gli altri portati alla Società o rimessi man mano
al conducente lungo la via e raccomandati come bambini dalle mogli e
dalle figliuole, appostate ogni giorno a quell'ora in quei dati punti,
come per un convegno amoroso. Ritornando verso mezzogiorno incontravo
il tranvai della “corsa degli impiegati„, quello che, partendo da
piazza Castello alle undici e mezzo, raccoglie lungo il tragitto
tutti i _travet_ che vanno a desinare a casa in borgo San Salvario,
sbadigliando a bocca squarciata, con la faccia lunga dalla fame e gli
occhi rotanti dall'impazienza. Ritornando invece a notte fatta, trovavo
nel carrozzone illuminato delle famigliole borghesi che andavano al
teatro, eccitate dall'avvenimento insolito come se venissero a Torino
da un'altra città, strette in conversazioni scolarescamente vivaci,
come brigate giovanili partenti per un viaggio notturno d'avventure.
E tra una corsa e l'altra, osservando i cavalli mentre aspettavo la
partenza alla barriera, cominciai a prender simpatia per quelle povere
bestie, venute la più parte dall'Ungheria, comprate alle fiere di
Lunigo, di Novara e di Padova, alcune ancora belle e vigorose, altre
con le gambe davanti già piegate e sformate dagli strapazzi, distinte
con ogni specie di strani nomi, trovati dalla fantasia degl'impiegati
intinti di lettere, — Sparta, Ovo, Falò, Rabagas, Romanziere, Ministro,
Bibi, Colonnello, Episodio, Camelia, Passerotto, Senato, — destinate
a passare un giorno dai tranvai alle _cittadine_, alle carrette, alle
macine, ai carri mortuari, ai carrozzoni dei saltimbanchi, per dare poi
all'uomo anche la carne e la pelle e le ossa, dopo aver faticato dieci
anni al suo servizio e lasciato la vita sotto la sua frusta....
*
Fin dal primo giorno conobbi su quella linea un cocchiere tipico; e
do a questa parola il suo vero significato, perchè era un di quelli
che in ogni famiglia d'impiegati o d'operai par che condensino in sè
tutti i malumori, tutte le stizze, tutti gli spiriti ribelli della
famiglia. Era un traccagnotto col capo nelle spalle, con un viso
color di terra cotta, che pareva enfiato, con gli ocelli di bragia, la
barba di setole, una voce di tuono. Gli muggiva in corpo una tempesta
perpetua. Eruttava “accidenti„ smozzicati, di continuo, contro le
biciclette che passavano, contro i monelli che spaventavano le bestie,
contro i carrettieri che gl'ingombravan la via, contro chi saliva e
chi scendeva, contro i cavalli, la frusta, il campanello, il colore
del tempo. E quando non sacrava a voce, sacrava con tutti i moti della
persona, col modo di frustare, di tirar le redini, di girar la testa
e lo sguardo, di stringere il freno e di pestare i piedi; e quando
non se la pigliava apertamente con nulla o con nessuno, faceva dei
soliloqui stizzosi inintelligibili guardando in alto, come se dei
nemici visibili a lui solo lo provocassero, danzandogli davanti per
aria, o si sfogava soffiando nel suo fischietto, cacciando dei fischi
prolungati, rabbiosi, senza necessità, come se fischiasse la creazione.
Da piazza Castello alla barriera non lo vidi un momento rabbonito;
pareva che portasse dentro l'ira d'un popolo; non potevo capire come
non schiattasse. Pensai che, se aveva moglie, la povera donna doveva
aver il paradiso assicurato. Intesi che lo chiamavan _Tempesta_, e il
soprannome gli tornava a pennello. Dei passeggieri se ne lagnavano,
brontolando; ma a me fece compassione, perchè un povero diavolo che
passava la giornata a quel modo si condannava da sè al più miserando
dei supplizi che gli potesse augurare la più vendicativa delle sue
vittime; e mi pareva anche da compatirsi perchè per ogni Tempesta
cocchiere c'era bene una decina di Tempesta passeggieri, che mettevan
la pazienza dei suoi colleghi alla stessa prova a cui egli metteva la
nostra.
*
Apparteneva alla famiglia dei Tempesta il grosso signore coi baffi
tinti e la caramella all'occhio, che la mattina dopo fece cenno di
fermare all'angolo di piazza Carignano e di via Amedeo. Fece cenno
in modo che il cocchiere, un perticone dal naso a becco, credè
che lo facesse al tranvai di Vanchiglia sopraggiungente, e datagli
un'occhiata, tirò via. Quegli si mise a correre accanto al carrozzone,
col viso acceso, agitando la canna e gridando ira di Dio, e quando
fu sulla piattaforma, ansante, investi il cocchiere. — Che maniere
son queste? T'avevo fatto segno dì fermare; non ti faceva comodo, è
vero? Queste sono facezie da _birichin_! — Il cocchiere, risentito, si
difese; ne nacque un battibecco; venne innanzi il fattorino, un giovane
biondo, dall'aria per bene, che ebbe il torto di pigliar le parti del
compagno. L'altro imbestialì, gridò che sarebbe ricorso alla direzione.
— Quando avrà tolto una giornata di pane alla mia famiglia, — rispose
il cocchiere, — non avrà ragione per questo. Intanto, non mi deve
trattare col _tu_.
Il signore tinto lo guardò con stupore; parve più punto da quella
osservazione che dall'altre parole. — Conosco la regola, — disse
bruscamente — si dà del _lei_ al controllore, del _voi_ al fattorino e
del _tu_ al cocchiere.
— È una regola rispose l'altro — che riguarda il personale, noi fra di
noi, non i passeggieri.
— È quello che saprò dalla direzione, — ribattè il signore, tirando
fuori un taccuino per segnarvi il numero del carrozzone.
— Faccia pure.
— Non ho bisogno del suo permesso.
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