La Carrozza di tutti - 08

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e sui passanti, bevendo a bocca aperta e a nari dilatate l'aria
luminosa delle libertà, che accendeva delle fiamme nei loro occhi e
faceva correre pei muscoli della loro faccia dei fremiti di piacere,
visibilissimi nonostante lo sforzo con cui cercavano di dissimulare
la rinascente ebbrezza della vita. Allo svoltar del tranvai in Corso
Vinzaglio, e poi nel Corso Oporto, a quell'aprirsi da ogni parte
di viali verdi, di fughe di palazzine e di portici, di vedute delle
Alpi e dei colli, voltarono il capo di qua e di là, con un movimento
di stupore grave, come se ad ogni svoltata crollasse un muro delle
carceri da cui non era uscita ancora tutta l'anima loro, e guardavano
curiosamente ogni passeggiere che saliva, come per molto tempo avevano
guardato ogni visitatore sconosciuto che s'affacciasse all'uscio della
loro cella. Osservavo con meraviglia che, passata la prima ebbrezza,
il loro viso s'andava già oscurando quasi dell'ombra d'un disinganno,
come se quell'ora tanto desiderata non mantenesse tutte le promesse
che aveva fatto alla loro fantasia, e li riafferrasse da lontano
la tristezza della prigione, quando, al punto di attraversare il
Corso Umberto, uno spettacolo anche più strano mi distrasse da loro:
una giardiniera dalla linea di San Secondo, tutta piena di monache
dell'ospedale Mauriziano, un mezzo monastero in carrozza, venti figure
grigie e bianche, immobili e silenziose, che passavano rapidamente
sulla curva, presentandosi tutte di profilo, con la fronte bassa e le
braccia incrociate, come tante statue della Meditazione, e svoltate
di corsa in Via Oporto, non mostrarono più che venti veli neri enfiati
dall'aria, e come fuggenti insieme a una tentazione del diavolo.
I liberati dal carcere discesero all'angolo di via Alfieri, il
tranvai proseguì verso via Santa Teresa. Eravamo a pochi passi dal
crocicchio quando vidi lontano in via Venti Settembre un affollamento
che la ingombrava da un lato all'altro. Mi voltai per domandare al
fattorino: — Che sarà? — lo vidi pallido. Egli aveva già capito.
Il cocchiere frenò i cavalli, che andarono lentissimi. Raggiunta la
folla, ci fermammo. Alcuni ci s'avvicinarono. Il tranvai precedente
aveva schiacciato un bambino di cinque anni, un povero orfanello, che
una mendicante teneva con sè e faceva accattare. Egli era sfuggito di
mano alla donna per attraversare la strada nel punto che i cavalli
sopraggiungevano; le ruote della giardiniera gli eran passate sul
corpo; era morto nell'atto; avevan portato il cadavere sotto il portone
d'una casa vicina, che la folla chiudeva. Una moltitudine di curiosi
s'accalcava intorno al cocchiere che era saltato giù, lasciando le
redini al fattorino, che aveva proseguito la corsa. Nel mezzo della
calca, al di sopra delle teste ondeggianti, spuntavano gli elmi di
due guardie civiche e il cappello d'un carabiniere, e fra questi il
berretto gallonato del disgraziato cocchiere, rovesciato indietro, che
lasciava vedere delle ciocche di capelli grigi. Mi apparve mi momento
il suo viso, bianco e stravolto, con la bocca aperta; poi si nascose.
Parlava e gestiva; ma il mormorio della folla copriva la sua voce.
Vidi le sue mani agitarsi per aria. M'arrivò all'orecchio un: _giuro!_
rauco, come il grido di un ferito. A un tratto, la folla s'aperse
come in due ondate violente e il cocchiere, stretto fra le guardie, si
mosse; ma, fatti tre passi, si fermò, e alzate le braccia come un prete
all'altare, girando intorno gli occhi smarriti e piangenti che non
vedevan più nulla, gridò con voce soffocata dai singhiozzi: — Giuro per
l'anima di mio padre e di mia madre, giuro che non l'ho visto! — Poi
si rimise in cammino barcollando, e la folla lo riavvolse. Il tranvai
ripartì.
Ah, perchè non tenni gli occhi fissi sulla mano tremante con cui il
fattorino scriveva, invece di rivolgerli a terra, sulle rotaie? Non mi
sarebbe stata così orribile la vista del misero corpicino schiacciato
come mi fu quella del suo povero sangue sparso fra i ciottoli;
orribile come qualche cosa di lui che vivesse e soffrisse ancora e
implorasse soccorso dal fondo della fossa. E dovetti scendere, preso
da un ribrezzo improvviso di quel carrozzone, come d'un complice
della strage, d'una macchina sinistra, nella quale, come nell'altra,
stesse rimpiattata la morte, in agguato, per afferrare al varco
altri bimbi. Ma non mi giovò fuggire. Per tutta la strada intesi quel
grido singhiozzante: — Giuro, giuro per l'anima di mio padre e di mia
madre.... — quel grido desolato, supplichevole, solenne; nel quale ne
sonava un altro esilissimo, la voce del sangue sparso, che anch'esso
chiedeva pietà per lui, in tuono di preghiera infantile. E per vari
giorni non scrissi più, e non potei salire sopra un tranvai senza un
sentimento di repulsione, come se tutti avessero le ruote insanguinate.
Ahimè! È dunque vero che anche la vita civile, come la creazione, è una
ruota terribile, che non si può muovere senza stritolar delle ossa e
dei cuori, e che l'uomo è condannato a sparger sangue in eterno?
*
Maravigliosa leggerezza umana! Ma forse non è tanto leggerezza
il parlare che si fa da tutti di cose futilissime anche fra gli
avvenimenti più terribili, quanto spirito dì ribellione, bisogno
di provare la libertà del proprio spirito davanti ad ogni argomento
imposto di riflessione e di discorsi gravi. Avevano l'uno e l'altro
il giornale in mano, questa mattina, i due signori che m'eran seduti
davanti sul tranvai, e che discutevano vivacemente; avevano letto un
momento innanzi la prima notizia della battaglia di Turcuf; era da
supporsi che discutessero della vittoria per cui era liberata Cassala.
Discutevano invece sul colore del fanalino che segna l'ultima corsa del
tranvai del Martinetto.
— Le dico che è bianco, l'ho visto cento volte.
— Ma lei confonde con quello dell'ultima corsa di Vinzaglio.
Dalla voce riconobbi il mio buon “tranvaiofilo„ l'amico di Giors,
benestante sferoidale e gran paladino della Società Belga. Il quale
continuò: — Il fanale dell'ultima del Martinetto è rosso. Verde tutta
la sera, rosso all'ultima corsa.
— Verde tutta la sera, sì, — rispose l'altro, — ma all'ultima corsa,
bianco. Diamine! L'ho anche visto ieri sera.
— È impossibile.
— Oh cospetto! Mi vuol dare una smentita?
— Ma è lei che la dà a me, perdoni. Andiamo, vuol fare una scommessa?
Fattorino!
Il fattorino s'avvicinò sul predellino, e intesa la domanda, rispose
gravemente: — È bianco.
L'altro voleva ribattere, ma il “tranvaiofilo„ trionfante, gli tagliò
la parola. — A me la vuol insegnare, che conosco tutti i colori,
anche della _Torinese_? Bianco l'ultimo di Nizza, bianco Borgonuovo,
verde San Secondo, rosso Foro Boario, bianco San Salvario, rosso
Vanchiglia....
Sotto quel rovescio d'erudizione tranvaiesca l'avversario chinò il
capo, e non ribatte più sillaba.
Il tranvaiofilo stette ancora un po' pensando, poi soggiunse: — E
bianco l'ultimo dei viali.
Fu il colpo di grazia.
Suggellata così la sua vittoria, gittò gli occhi sul giornale che
teneva aperto sulle ginocchia, e voltatosi verso di me, col viso
spianato di chi passa da un discorso grave ad uno che ricrea lo
spirito: — Ottocento morti! — esclamò sorridendo. — Una bazzeccola! Ora
staranno quieti per un pezzo....
*
Sono scampato a un pericolo grave e mi son goduto una scena curiosa.
Appena mi riconobbe dal capo opposto della giardiniera affollata e mi
vide accanto un posto vuoto, l'uomo spietato sorrise di compiacenza
feroce, e sceso sul montatoio, afferrandosi alle colonnine, s'avanzò
verso di me come il ragno sulla tela per afferrare la sua vittima. Io
capii che era armato d'un sonetto da piantarmi nel cuore, e tremai.
Ma in quel punto saltò sulla giardiniera, proprio al mio fianco, mi
ufficiale dei bersaglieri, che occupò il posto a cui lo scellerato
mirava; e questi dovette ritornare indietro con le sue strofe nel
gozzo. Vidi che fremeva. Ma fu subito distratto egli pure da un
piccolo avvenimento comico. Salì sulla piattaforma davanti un signore,
il quale, lanciato uno sguardo all'ultima panca, vi riconobbe un
amico, forse non più visto da mesi, e dopo averlo salutato con molta
effusione, prese a discorrer a voce alta con lui, che rispose nello
stesso tono, senza darsi un pensiero al mondo dei trenta passeggieri
che li guardavano e li ascoltavano con grande stupore. Appartenevano
tutti e due a un ordine assai numeroso di originali a cui manca affatto
un sentimento che si potrebbe chiamare “il pudore sociale„ e che hanno
la facoltà singolare di far arrossire gli altri per loro.
— Tu a Torino! E da quando?
— Sono arrivato questa mattina.
— E riparti?
— Questa sera. Ho l'_andata e ritorno_.
— Son birbonate, dovevi scrivermi. E Gabriella?
— Benissimo. E a casa tua?
— Tutti bene. Gustavo è andato a Genova.
— Me lo scrisse l'avvocato. E l'affare di Troffarello?
— Niente di nuovo; son muli.
— Oh diavolo! — E strizzando un occhio, — Di', e a quando il Messia?
— (Sorridendo modestamente) Di giorno in giorno....
C'erano delle signorine; vidi dei visi di mamme che si cominciavano
a inquietare. Come Dio volle, qualcuno discese, e i due poterono
avvicinarsi e conversare in famiglia. Ma essendosi fatto spazio accanto
a me, mi trovai di nuovo esposto al sonetto. Vidi infatti il poeta
che scendeva da capo sul predellino. — Ah no! — dissi in cuor mio,
ricordando il supplizio orribile dell'_Uom chi sei tu_; — una seconda
volta non mi torturerai — e gridato un _alt_ risoluto, che avvertì il
cocchiere e lui ad un tempo, mi salvai dai quattordici colpi di pugnale
che mi minacciava.
*
Gran palestra di civetteria è la carrozza di tutti, e come vi si può
studiare la potenza del “femminino eterno„! Salì sulla giardiniera,
in via Maria Vittoria, una bella ragazza, che attirò lo sguardo di
tutti: piccolina, bruna, mirabilmente tornita, con le fossette nelle
gote, con un rosaio sul cappellino: vestita con un'eleganza un po'
teatrale, ma piacente nella sua stranezza. Non avevo visto ancora
un'arte di civetteria così varia, così profonda, così diabolicamente
raffinata. Era una continuità di leggerissimi, appena percettibili
movimenti ondulatori correnti dalle spalle ai piedi, un riso come
represso e diffuso su tutta la persona, un modo di girare il capo e
gli occhi, di guardar tutti e nessuno, di provocare e di fuggir gli
sguardi, un'arte d'addentarsi le labbra, d'inarcarle e di stringerle,
di far balenare le pupille, di velarle e di riaccenderle, qualunque
cosa guardasse, come se avesse voluto sedurre anche le cose, un
misto di monelleria, di finto pudore, di sensualità, di naturalezza,
d'affettazione e d'ingenuità bambinesca, da far cadere la penna di mano
al più potente descrittore di femmine della nuova scuola. Conquistò il
tranvai di primo colpo. Tutti i passeggieri si misero ad esaminarla
con occhio denudatore. Si voltava a guardarla di tratto in tratto
anche il cocchiere, e perfino una grave guardia civica, ritta in fondo
alla giardiniera, fissava su di lei uno sguardo affatto diverso dal
solito sguardo di servizio. All'angolo di via Bogino fece fermare un
vecchio generale in uniforme, un po' floscio di gambe, accompagnato
dal suo aiutante, e nell'atto di salire la guardò così fissamente che
mise male il piede sul montatoio e si dovè afferrare alla colonnina.
A un certo momento essa s'alzò e risedette un po' a sinistra, per far
posto a una signora, e in quell'atto così semplice e rapido mise tanti
guizzi e vezzi e grazie di colomba e di gatta, che lampeggiarono,
guardandola, gli occhi di tutti, come se tutti avessero bevuto a un
punto un bicchierino di Benedectine autentica dei frati di Chambéry.
Curioso che proprio al disopra del posto ch'essa occupava pendeva da
una traversa del tetto un cartellino d'annunzi, sul quale era scritto
in grossi caratteri: _Da vendere_, e il resto non si leggeva: una
villa, probabilmente. Ma era certo una calunnia del caso, o, almeno,
c'era d'aver dei dubbi per l'eccesso medesimo di quella civetteria;
la quale poteva non essere altro che un istintivo ardentissimo amore
dell'arte. Discese in via Plana. Le donne si voltarono a guardarla
con occhio severo, gli uomini.... con un altr'occhio. Ed essa si
allontanò col suo roseto sul capo, lievemente inclinato da una parte,
con un'andatura disinvolta e graziosa, mostrandoci ancora uno spicchio
di viso sorridente, da cui traspariva la coscienza d'aver lasciato una
dozzina di frecciole confitte in petto ai suoi compagni di viaggio d'un
quarto d'ora.
*
Fu la vergogna stupida di mostrarmi per la strada con un pacco fra
le mani, che mi fece salir sul tranvai di porta Susa per tornare a
casa; e sul tranvai fui punito. Stavano in piedi sulla piattaforma
un giovine operaio, sua moglie e un bambino, che non avevan trovato
posto dentro al carrozzone. L'operaio faceva uno sfogo col cocchiere,
in tono aspro. Era stato ingannato da un amico, che l'aveva fatto
venir dal Vercellese, assicurandolo che a Torino c'era lavoro; ma,
venuto qui, non aveva trovato nulla; da un mese batteva inutilmente
a tutti gli usci; un suo parente benestante gli aveva rifiutato un
piccolo imprestito; non sapeva più dove dar del capo. Il cocchiere
gli consigliò di rivolgersi alla Camera del lavoro. — Ma che Camera
di lavoro! — rispose scattando. — Buffoni! Se non trovo lavoro io,
me ne troveranno loro! — E seguitò, smozzicando maledizioni fra i
denti. Il suo bambino, intanto, succhiandosi la punta dell'indice,
teneva gli occhi fissi sul mio pacco. Io l'apersi e gli porsi una
caramella, ch'egli agguantò come se la rubasse, e prese a leccarla
rispettosamente, sorridendomi. Il padre, appena se n'accorse, si voltò
a guardarmi con occhio torvo, strappò il dolce di mano al bimbo e,
prima che riuscisse ad afferrargli il braccio sua moglie, lo gettò
nella strada. Mi sentii come il freddo d'una lama nel cuore, e poi
una vampata di sdegno, un rivolgimento precipitoso d'idee recenti,
un ritorno violento d'idee antiche, tutto in un punto, come se la mia
anima si rovesciasse. Ma fu un punto solo. — Ah miserabile, — dissi a
me stesso — basta dunque questo?... — Quegli riprese a sfogarsi col
cocchiere, a voce più bassa però, e dopo qualche momento sua moglie
— una povera donnina dall'aspetto buono e triste — voltandosi quasi
furtivamente verso di me, mi diede uno sguardo timido, che voleva dire:
— È povero, è disgraziato, è irritato.... lei capisce.... — E io le
risposi con gli occhi: — Capisco. — Allora il suo viso si rischiarò
un poco e parve che dicesse: — Gli perdoni.... — E io risposi con
uno sguardo: — Ho perdonato. — Ahi mentivo. E non voglio mentire una
seconda volta: non gli ho ancor perdonato....
*
Un'avventura più piacevole stamani, sulla linea del Martinetto. Stavo
sulla piattaforma di dietro con Carlin, il quale si fregava le mani,
molto soddisfatto della venuta dei famosi tre principi abissini al
collegio internazionale di Torino, ch'egli considerava quasi come una
rivincita; e andava ripetendo: — Questi tre qui, intanto, li abbiamo
nelle unghie! — Interruppe le sue espansioni un mio conoscente, che
salì all'imboccatura di via Garibaldi, un operaio lattoniere, che
aveva messo su bottega da poco, di trent'anni all'incirca, ma assai più
attempato all'aspetto, basso di statura e tarchiato, e serissimo. Era
un tipo degno di studio; un autodidattico di volontà ferrea, che aveva
frequentato l'Università in un periodo di disoccupazione, inteso quasi
unicamente a quistioni economiche e pratiche, intorno alle quali andava
raccogliendo da libri e da giornali note ed articoli che trascriveva
la notte in grossi quaderni; un socialista _sui generis_, non curante
del programma massimo, ristretto all'idea dell'organizzazione
del proletariato con lo scopo di conseguire una serie di riforme
parziali non isperabili dall'azione spontanea delle classi dirigenti;
_legalitario_, come egli stesso si chiamava, odiatore delle frasi,
disprezzatore dei capi matti, metodico in tutte le cose sue come un
impiegato, e così lucido e ordinato nelle idee e tenace nello studio
d'ogni quistione e nello sforzo di esprimersi chiaramente, che era
diventato in pochi anni uno dei parlatori più persuasivi del partito,
ammirato anche dai compagni di fede più colti.
Salutatomi con un tocco della mano al cappello, com'era suo solito, si
mise subito a discorrere d'un opuscolo sul _Salario minimo_, che aveva
in tasca; ma restò in tronco, dopo poche parole, vedendo passare a
traverso alla strada quattro giovani ammanettati, accompagnati da due
guardie di polizia; borsaioli, a giudicar dalle facce; due dei quali
vestiti decentemente, quasi con eleganza.
Carlin li giudicò con una delle sue frasi letterarie: — Ladri in guanti
gialli.
Ma un passeggiere, ch'era salito sulla piattaforma in quel momento,
un uomo sui cinquant'anni, dell'aspetto d'un capomastro malandato, che
olezzava d'acquavite, espresse un altro parere. — Siamo sotto il primo
maggio, — disse — sono socialisti. — E soggiunse, ammiccando a me, con
un sorriso ironico: — _Compagni_.... Sì, adesso, sono compagni proprio!
Gli lessi in cuore sull'atto. Avevo l'aspetto d'un signore, dovevo
odiare il socialismo; c'era nel suo scherzo l'intenzione ossequiosa di
guadagnarsi la mia simpatia dicendomi una cosa gradevole; apparteneva
alla famiglia degli striscianti. Per curiosità, l'incoraggiai con
un sorriso, e subito egli volle chiarirmi meglio che le sue opinioni
concordavano perfettamente con quelle che supponeva le mie.
— Ah che storie!... Un uomo che ha la testa a posto, un padre di
famiglia che lavora.... non si ficca lì dentro. Il mondo è com'è. Si
ha un bel far delle riforme, ci sarà sempre chi ne ha e chi non ne ha.
Badar a lavorare: non c'è altro.
Carlin interloquì. — Però, — disse — noialtri ci fanno lavorar
troppo....
— Ah quanto a questo — rispose l'altro — è un'altra quistione. — Io
pensavo che Carlin rispondesse che la quistione, invece, era proprio
quella, e che non si poteva risolvere non badando ad altro che a
lavorare. Ma mi persuasi che nella sua mente, tutta data alla politica,
l'idea dell'interesse della propria corporazione era affatto disgiunta
da ogni altra, come un lumicino solitario nelle tenebre. Infatti,
non seppe che cosa rispondere a quella risposta. E l'altro continuò,
sorridendomi con espressione lusinghevole: — Non è vero?... Bei tipi,
che vogliono rimpastare il mondo e non hanno che stramberie per la
testa.... Compagni! — E soggiunse ridendo: — Si chiamano compagni, e
son proprio compagni di pazzia!
A queste parole credetti che il lattoniere scattasse; ma, voltandomi
a guardarlo, fui maravigliato dell'atteggiamento del suo viso, affatto
diverso da quello che m'aspettavo. Egli guardava il parlatore con una
espressione di così sincera e profonda e tranquilla commiserazione,
che nessuna parola avrebbe potuto esprimere più chiaramente il suo
sentimento. Si capiva che in quel suo eguale, chiuso all'idea e alla
passione che avevan fatto di lui un altr'uomo, egli vedeva quasi
una creatura di razza inferiore; che lo considerava, come doveva
un cristiano dei primi tempi considerare un pagano, un impasto di
ignoranza, di servilità e di stupidaggine, da non poter nemmeno movere
l'ira. Ma quegli, tutto intento a finir di conquistarmi, non badò a
lui, che credeva per me uno sconosciuto, e ripigliò: — Per me, quando
qualcuno viene a tentarmi, lo mando a farsi scrivere. Non voglio finire
come quei “compagni„ che son passati adesso. Se a loro piacciono quegli
arnesi alle mani, si servano, branco di matti: ce n'è per tutti. Non ho
forse ragione? — E sorrise da capo, aspettando i miei rallegramenti.
Allora il lattoniere fece un colpo di scena che meditava forse da
un po'. — Ha visto — mi disse bruscamente — le dimissioni del nostro
Barbato?
Risposi che lo sapevo e che me ne rincresceva; ma che mi parevano
rispettabili le ragioni della persistenza nel primo rifiuto, le quali
dimostravano un animo onesto, senz'ambizioni, profondamente persuaso di
poter fare opera più utile fuori del campo parlamentare.
— È però un peccato, — rispose l'operaio, mettendo il piede sul
montatoio per discendere, — perchè è un sant'uomo; — e nell'atto di
stringermi la mano disse spiccando le sillabe: — Buon giorno, compagno.
— Buon giorno, — risposi, e mi voltai a guardare l'altro, che aveva gli
occhi spalancati e la bocca aperta, interdetto dallo stupore, come il
villano alla vista d'un gioco di prestigio. E un bel pezzo dopo, quando
discesi, mi guardava ancora.
*
Ah il socialismo sul tranvai! Sarebbe curioso a trattarsi, specie
per i cattivi incontri che ci fa e i brutti quarti d'ora che ci
passa, poichè la carrozza di tutti, finora, è assai più borghese che
popolana. Questa mattina appunto mi ritrovai accanto sulla piattaforma
della giardiniera, fra piazza Castello e piazza Carlo Felice, il
mio onorevole nemico Guyot, il mangiasocialisti, il quale mi vibrava
certe puntate di sguardi, in cui era evidentissimo l'influsso del 1.º
maggio imminente. Certo egli domandava a sè stesso quali scelleratezze
io andassi macchinando per domani, pensava ch'io girassi per Torino
a soffiar negli odi di classe, e almanaccava forse che nascondessi
qualche ordigno infernale sotto la sporgenza che mi faceva il soprabito
dalla parte sinistra del petto, dove fissava gli occhi di tanto in
tanto. E perchè no? Quattro anni prima, in quel giorno stesso, non
avevano certi buoni amici fatto credere a un Consigliere comunale,
eccellente uomo, ch'io ero stato arrestato perchè scoperto in
corrispondenza epistolare col Ravachol, inducendolo per giunta a metter
la sua firma a una loro petizione per ottenermi la libertà provvisoria?
Quanto più guardava quel misterioso rigonfio del soprabito, tanto
più il Guyot si rimbruniva: la sua immaginazione più benigna doveva
essere di un pacco di proclami incendiari. Vedete un po'! Ed eran le
memorie di _Sant'Agostino_, ch'ero andato a prendere dal legatore.
Che strana cosa! pensavo. Desiderare ardentemente il bene di tutti,
sognare la pace e l'amore fra gli uomini, avere della società un nuovo
concetto, il quale, riferendo al suo ordinamento la causa dei mali che
si attribuivano prima all'egoismo dei fortunati, sopprime ogni ragione
d'odio contro di loro, sentire orrore della violenza e del sangue e
sdegno di tutte le ingiustizie e pietà di tutti i dolori, e da questo
desiderio del bene essere tormentati tanto da non godere più pace....
e in grazia di tutto questo vedersi guardare con occhio d'avversione
come se portaste dentro tutto quanto di più tristo e di più feroce può
covare un animo malvagio!... E pensare che chi vi guarda così è forse
un uomo sensato e buono, il cui sguardo intellettuale vede in voi tutto
rovesciato e falsato per il solo fatto ch'egli passa a traverso alle
lenti di un preconcetto irragionevole, e che, pur non consentendo nelle
vostre idee, quell'uomo vi diventerebbe amico se gli poteste parlar
per un'ora, ma che non gli potrete parlar mai, e ch'egli per questo
v'odierà sempre! Che strana cosa!
Mentre ciò pensavo il tranvai si fermò in piazza Carlo Felice per
lasciar passare un battaglione di bersaglieri, e il Guyot girò
da questi su di me uno sguardo acuto, in cui era manifesto il suo
pensiero: — Ecco chi vi terrà in riga domani! Tu li devi odiare,
costoro!
Ah le lenti! E dire ch'io amavo quei giovani tanto più di lui; non più,
come un tempo, per quello che erano in quel periodo della loro vita,
ma in loro stessi, nelle loro famiglie, nel loro avvenire, nei loro
futuri figliuoli, d'un amor non legato ad alcun sentimento nascosto
d'interesse di classe, ma purissimo e profondo e pensieroso, tanto
che mi pareva così angusto e leggiero in confronto al nuovo l'affetto
antico!
E così, quando il mio nemico discese e il tranvai infilò il Corso
Vittorio Emanuele, fiancheggiato da quelle due interminabili ghirlande
verdi e chiuso in fondo dalla gran mole del Rocciamelone, pensai
che non volava una volta il mio spirito, come fa ora, di là da quel
baluardo enorme, a dire a una moltitudine sconosciuta la santa parola
dell'amor fraterno e la speranza divina d'un avvenire senz'odi e senza
guerre di popoli. E confortandomi in questo pensiero, mi pareva che il
suono delle trombe soldatesche che s'affievoliva dalla parte opposta
del Corso morisse non nello spazio, ma nel tempo, come una voce del
passato.
*
Qui, mentre chiudo il mese d'aprile, mi si leva dinanzi uno stuolo di
fattorini e di cocchieri originalissimi, che mi domandano: — E noi? —
E hanno ragione; ogni uomo è un libro; peccato ch'io non possa dar di
loro che i titoli! Ce n'è uno che fu maestro, frate e volontario con
Garibaldi, una strana caricatura di Giove, con una gran testa bianca
riccioluta, così grave e maestoso, che par che stia sul tranvai come
sopra un carro di trionfo e dispensi gli scontrini come grazie celesti.
C'è un antico becchino, cocchiere, un capo amenissimo, di razza nana,
così buffo d'aspetto e di spirito, che fa torcer dalle risa tutti i
colleghi con piccoli gesti e con mezze parole dette sottovoce, di cui
nessun passeggiere riesce mai ad afferrare il significato. C'è un ex
cocchiere di famiglia nobile che nomina i padroni e le padrone di tutte
le carrozze stemmate che passano, con un sorriso vagamente misterioso
di familiarità e d'alterezza, come un patrizio scaduto a cui la vista
d'ogni stemma ricordasse un'amicizia o un amore de' suoi bei tempi.
Ce n'è un altro, un fattorino tetro e taciturno, che ha la bizzarra
passione di esercitarsi a scrivere in caratteri minutissimi, e che
dedica ogni momento libero a quell'esercizio, di cui fa vedere i saggi
ai passeggieri, senza parlare, dei pezzettini di carta come biglietti
di visita, segnati di zampe di mosca non leggibili da occhio umano. E
ci sono altri Carlin, divoratori di giornali e politicanti di color
vario, altri Marchesi vezzeggianti che porgono lo scontrino come un
fiore, altri Tempesta ringhiosi, che si mordon la coda dalla mattina
alla sera. E le loro donne, quale collezione! Ne ho conosciuto in capo
alle linee una varietà grande: mezze signore e cenciose, mogli canute
di giovanotti, mogli che paion le figliuole dei loro mariti, visi di
vittime rassegnate, scarmiglione ardite e appetitose che han l'aria di
approfittar malamente delle lunghe assenze coniugali, donnine alacri e
premurose, che, porgendo all'uomo affamato il canestro della colazione,
gli fanno mille raccomandazioni supplichevoli di non mangiar troppo in
furia, e stanno a vederlo mangiare spiando con occhio inquieto l'arrivo
dell'altro tranvai e contando con l'anima in pena le bocconate e i
secondi. Ah che dure e affannate esistenze ho indovinato durante quei
pasti, ed anche quante buone nature, quante modeste virtù, quante belle
e sane corrispondenze d'affetto!
E ieri sera appunto, sulla linea dei viali, verso il tramonto,
assistetti a una scena gentile. C'era sul tranvai quasi vuoto un
fattorino dai capelli e dai baffetti bruni, un bel giovane, di viso
un po' malinconico e di belle maniere. A una fermata sul corso San
Maurizio accorse da una via laterale una donnina in capelli, graziosa,
con un bimbo in braccio; la quale salì in fretta sulla giardiniera,
dopo aver lanciato intorno uno sguardo diffidente, come se venisse
a un convegno amoroso. Il fattorino le tolse di mano il bimbo con
premura, sedette, se lo mise sulle ginocchia e prese a accarezzarlo e
a baciarlo in furia, come per saziarsene tutt'in una volta, mentre la
giovine madre, seduta al suo fianco, guardava con un'espressione di
grande dolcezza il figliuolo e lui, che ogni tratto alzava il capo per
rivolgerle un sorriso, in cui appariva ancora l'affetto caldo e quasi
la curiosità dello sposo. Essa aveva colto l'occasione del tranvai
quasi vuoto per portare al marito quella consolazione del bambino, che
gli era concessa così di rado a casa sua, e misurava con gli occhi quel
che le rimaneva di cammino da fare insieme: un troppo breve tratto!
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