La Carrozza di tutti - 01

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EDMONDO DE AMICIS

La Carrozza di tutti

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1902

=Sedicesimo Migliaio.=


PROPRIETÀ LETTERARIA.
_I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti
i paesi, compreso il Regno di Svezia e di Norvegia._
Si riterrà contraffatto qualunque esemplare di quest'opera
che non porti la firma dell'autore.
Tip. Fratelli Treves.


LA CARROZZA DI TUTTI


CAPITOLO PRIMO.

Gennaio.
Era il primo di gennaio del 1896. Salii la mattina sul tranvai del
corso Vinzaglio, in via Roma. Per tutto il tragitto, di là a via
Garibaldi, fu un continuo salire e scendere di signore e di signori,
che pareva si fossero dati convegno nel carrozzone, poichè dentro
e sulle piattaforme, all'entrare e all'uscire, era uno scambio di
saluti, d'inchini, di levate di tuba e d'auguri, come in una sala di
ricevimento. A metà di via Garibaldi vidi dentro un quadretto curioso.
Stava seduta nel mezzo una contadina tarchiata, col fazzoletto in
capo e un grosso involto di cenci sulle ginocchia; di fronte a lei
una ragazza del popolo, col capo nudo e i capelli corti, un viso
mal lavato di monella, vestita poveramente; e tutt'intorno signore e
signorine elegantissime, indorate e impennacchiate, che ad ogni aprirsi
dei battenti a vetri mandavan fuori un'ondata d'odori fini come da
una bottega di profumiere. Mi maravigliai di non aver mai badato,
in tanti anni, ad alcuno di quei contrasti sociali che pure sono
così frequenti in quei carrozzoni; nei quali soltanto, non essendovi
separazione di classi, può accadere che gente del popolo infimo si
trovi per qualche tempo a contatto con gente della signoria, con tutto
l'agio d'esaminarla, di fiutarla e di ascoltarne i discorsi. Osservai
curiosamente allora l'attenzione viva e continua con cui quella
contadina e quella ragazza esaminavano le loro vicine, dalle ciocche di
fiori dei cappelli alle cernierine dorate dei guanti, tastando quasi
con gli occhi le stoffe e le pelliccie, il portamonete dell'una, il
libretto da messa dell'altra, e il loro modo d'alzarsi e di sedere e
ogni più piccola mossa e quasi ogni piega che facesse il loro vestito;
un'attenzione insistente, seria, scrutatrice, come se avessero avuto
davanti creature piovute da un altro mondo. Da quell'osservazione uscì
come un lampo nella mia mente. Cercai, ritrovai nella memoria altri
quadretti simili a quello, e diversi, e d'un significato profondo;
mi ritornarono alla mente scene, incontri, conversazioni, piccole
avventure allegre e tristi, che non si possono dare che in quella
specie di carrozza democratica, dove tutte le classi continuamente si
toccano e si confondono; mi sfilò davanti una processione di personaggi
che conoscevo soltanto per aver fatto delle “corse„ in loro compagnia,
coi quali non avevo mai parlato che sulle piattaforme, e che formavano
per me come una famiglia a parte di compagni abituali di viaggio; e mi
suonò dentro un'esclamazione che per poco non mi sfuggì dalla bocca: —
To'.... uno studio.... un libro.... _la carrozza di tutti!_
*
Il giorno stesso questa idea mi fu attraversata da un'altra. Ripassando
in rassegna i “personaggi„ che m'eran più vivi nella mente, mi fermai
sopra due, sui quali fui tentato d'architettare un romanzo. Erano
un giovine e una ragazza. Questa, che doveva abitare nel borgo San
Donato, la trovavo sul tranvai della linea del Martinetto, alla prima
corsa delle sette e mezzo, ogni volta che salivo in piazza dello
Statuto per andar verso il centro di Torino. Il giovane saliva sullo
stesso carrozzone ogni giorno, all'angolo di via Siccardi. La ragazza
sedeva quasi sempre nell'angolo a dritta, dalla parte del cocchiere;
lui, quando c'era posto, le si metteva sempre accanto o di faccia.
Eran tutti e due piccoli, male in carne, di poca salute, pareva, e
vestiti meschinamente, ma puliti; di quei poveretti la cui gioventù
non consiste in altro che nella data della nascita, e che fanno più
pietà perchè mostrano d'aver coscienza della loro miseria fisica, e di
vergognarsene. Il giovine aveva un occhio chiuso, un viso che faceva
pensare a una fanciullezza perseguitata ed esprimeva una rassegnazione
antica alla povertà, al dolore, alle umiliazioni; della ragazza avrei
detto, non so ben perchè, che era orfana da bambina e vissuta molti
anni sotto la tirannia d'una matrigna. Pallida, uno scheletrino, un
viso irregolare, con un naso a ballotta e una bazza di vecchietta:
la natura non le aveva fatto l'elemosina che di due occhi belli e
dolci: la sua gioventù, il suo sesso era tutto in quegli occhi, la
sola cosa che ella avesse al mondo per ottener qualche volta dai suoi
simili uno sguardo di simpatia. Egli poteva essere uno scrivano, un
piccolo impiegato senz'avvenire; essa maestra in un asilo, governante
o cucitrice in qualche istituto. M'aveva colpito fin dalla prima volta
la serietà, la dignità semplice e triste del loro contegno. La ragazza
scendeva sempre in piazza Castello; il giovine proseguiva per via
di Po. Quando egli saliva si salutavano con un sorriso leggerissimo;
quando ella scendeva si salutavano senza sorridere, ed egli sporgeva il
capo fuor dell'uscio per accertarsi che non cadesse; non si scambiavano
che poche parole, di rado guardandosi. E singolare: non guardavano
quasi nessuno: ufficiali brillanti, belle signore, chiunque entrasse,
non gli rivolgevano che un rapido sguardo distratto, come a un'ombra,
che non destasse in loro alcun pensiero. Si capiva bene che c'era fra
di loro qualche cosa d'irrevocabilmente determinato, non un amoretto,
ma un fidanzamento; che eran due vite legate; e si capiva pure che per
allora non avevan modo di star vicini altro che sul tranvai.
Mi commoveva l'amore di quei due poveri esseri così maltrattati dalla
natura e dalla fortuna, così meschini e così umili, che s'erano forse
stesa la mano per pietà l'uno dell'altro. Pensavo che s'eran forse
detto, senza parlare: — O povero giovane, o povera ragazza, e chi ti
vorrà bene al mondo se non son io? Vuoi unire la tua tristezza con la
mia tristezza, la tua povertà con la mia, vuoi che soffriamo insieme
e che ci amiamo tanto da non avvederci più che la natura ha messo le
nostre anime in due corpi infelici? — E da questo pensiero mi nacque
l'idea del romanzo: l'amore, il matrimonio, molti anni di miseria
durissima, una sequela di calamità e di umiliazioni da condurli al
proponimento del suicidio; poi le leggi della natura smentite: un
amore di bambino, un fiore maraviglioso di bellezza e di robustezza,
e con esso la vita mutata; e dopo questa altre creature somiglianti,
una nidiata d'angioli, d'intelligenza pari alla bellezza, ammirazione
e invidia di tutti, una famiglia di grandi ingegni precoci, di
artisti ammirati a quindici anni e famosi a venti, la gloria, la
ricchezza, la vita come un sogno d'oro.... Ma l'idea cadde dopo pochi
giorni. Non erano più poetici, così come li vedevo, quei due poveri
giovani sconosciuti, destinati a una vita oscura e stentata, ma
confortata da un amore profondo; non era meglio ch'io non snaturassi
con l'immaginazione quel sentimento di simpatia pietosa ch'essi
m'ispiravano, accompagnata da molti pensieri quieti e buoni intorno
alla vita e alla natura umana? Perchè contraffare con l'arte quella
realtà così triste e così gentile? E buttai l'idea del romanzo nella
gran fossa comune degli aborti della fantasia.
*
Ritornai alla prima idea una mattina presto osservando dalla finestra
sulla piazza dello Statuto, già bianca di neve, i carrozzoni delle
tre linee che vi s'incrociano, fermi, che aspettavano l'ora della
partenza. La vista di quelle piccole case ambulanti che nella luce
crepuscolare, ravvolte dal nevischio, con quei colori ciarlataneschi
degli annunzi, offrivano l'aspetto strano e compassionevole d'un
gruppo di baracche variopinte di saltimbanchi perdute in mezzo a una
steppa, mi destò il capriccio di scendere, di ficcarmi in una e poi
in un'altra, e di girar così tutta la mattina, come un vagabondo in
cerca d'avventure. E così feci. I passeggieri salivano con le spalle
bianche, la neve pioveva fittissima contro i finestrini; di dentro si
vedevano a traverso i vetri bagnati e il velo dei fiocchi le case e la
gente così in confuso da non raccapezzare più, di tratto in tratto, in
che parte di Torino si fosse; e lo strepito dei cavalli che puntavano
lo zampe e sdrucciolavano sul ciottolato, incitati dal vocìo continuo
dei cocchieri, il frastuono di fischi, di grida, di frustate, di
scampanellate, di scalpitii, di squilli di corno che raddoppiava ai
crocicchi dove le linee si tagliano, le traversate delle vaste piazze
candide dove altre grandi macchio oscure di carrozzoni s'avvicinavano
e fuggivano, era per me quasi uno spettacolo nuovo, che mi ricordava
certi diletti acuti che dà alla fanciullezza l'inverno. Poi, quando
la neve fu più alta, le fermate improvvise, le file dei carrozzoni
aspettanti, pieni di passeggieri immobili, come larve spaurite,
l'affaccendarsi dei cocchieri e dei fattorini a ripulire e a sospingere
le ruote, tutta quell'agitazione di forme nere su quella bianchezza
quieta, sotto quella pioggia bianca, densa, continua, silenziosa, in
cui si smorzavano le voci, i sibili e gli squilli che venivan dalle
vie vicine e lontane, tutto questo mi diede il senso e l'illusione
di quegli antichi viaggi in diligenza, pieni di peripezie e di
sorprese, che i romantici rimpiangono, e mi fece riafferrare vivamente
il proposito del primo giorno. Sì, uno studio.... un libro.... _la
carrozza di tutti._
Fu appunto quella mattina che mi si mostrò in piena luce l'animo
di _Giors_, un cocchiere della linea Vinzaglio, col quale avevo già
parlato più volte, perchè attaccava discorso con tutti, familiarmente.
Quel maledetto tempo, che era la dannazione dei cocchieri, pareva
che accrescesse il suo buon umore abituale. Insaccato nel cappottone,
imbacuccato nella grossa cuffia di lana color cacao, piantato in un
par di scarponi da cavatore di sabbia, coi suoi enormi guanti fatti di
pezzi di cuoio, di panno e di calza, egli si pigliava il nevischio in
faccia e sguazzava nella belletta della piattaforma con un'allegria di
carnevale, salutando con grida e versi buffi i cocchieri dei tranvai
che passavano e riprendendo ogni momento a zufolare un motivo della
_Carmen: toreador attento_, che non sapeva finire. Invidiabile uomo!
L'idea della colazione bastava a farlo felice. Ogni volta che facevo
una corsa con lui ritornavo a casa con un appetito da cacciatore
alpino. Ogni giorno verso quell'ora, quando principiava a stimolarlo la
fame, egli cascava nei discorsi gastronomici, tormentando i colleghi
con le più crudeli provocazioni. — Ebbene, camerata, ci staresti a un
bel piatto di agnellotti, con un buon sugo e molto formaggio, caldi
che fumino, eh? — o sillabava a voce alta i nomi delle ghiottonerie
che vedeva di sfuggita nelle vetrine, come parlando all'aria: —
Mor-ta-della di Bologna! Sa-lame di Alessandria! — e poi dava in una
risata che scopriva i suoi forti denti bianchi, spiccanti nel sano
color bruno del viso, attraversato da due grandi baffi neri e lucenti.
Diceva d'aver quarant'anni; ma ne davan trenta le mosse vigorose, la
voce sonora, il riso fresco, la giocondità di buon ragazzo che gli
brillava negli occhi chiari e vivacissimi, sempre sorridenti. Ed era
simpatico a tutti anche per il suo buon garbo ad aiutare a scendere e a
salire vecchi, bambini, donne, malati, di qualunque condizione fossero,
senza gradazione di cortesia.
Quella mattina mi divertì moltissimo. Salì in piazza Carlo Felice
un quidsimile d'ortolano, con un canestro al braccio, che mandava un
odore acuto di tartufi bianchi. Quell'odore eccitò subito Giors, che
tra un fischio e una schioccata di frusta, tra una girata e l'altra di
freno, prese a fare ogni specie d'allusioni facete al “frutto proibito„
strizzando l'occhio ora a questo ora a quel passeggiere, contento, come
se quei tartufi fossero destinati alla sua tavola. — Ah che fior di
patate! Saccorotto! Roba dell'orto del diavolo! — Il municipio avrebbe
dovuto proibire di portar in giro quella razza di peste; egli n'avrebbe
sentito il puzzo nella polenta per quindici giorni. Proprio quello ci
mancava per aguzzargli l'appetito, quella mattina ch'egli si sarebbe
mangiato le posate. Tutte le disdette! Per esempio, ci aveva anche un
cavallo che si chiamava _Risotto_, che a nominarlo soltanto si sentiva
aprire un vuoto nello stomaco.
Finì di metterlo di buon umore la comparsa d'un signore di sua
conoscenza, che lo salutò amichevolmente: — Buondì, Giors! Brutto
tempo, eh?
— Che! — rispose Giors. — È un tempo che rinforza.
— Cosa c'è questa mattina al _Grand Hôtel_ della Barriera di Francia?
— Riso e paste.... con tartufi.
Giors aveva la famiglia alla barriera di Francia, suo _capolinea_, dove
verso l'undici la moglie gli portava la colazione, ch'egli spacciava in
cinque minuti, sedendo sul montatoio del carrozzone. Il _Grand Hôtel_
era quello.
La breve conversazione che fece con lui quel signore, un quarantenne
sferoidale, che aveva l'aria d'un buon benestante disoccupato, mi svelò
un originale, un prodotto particolare dell'istituzione dei tranvai,
appartenente a una famiglia numerosa, di cui non c'è lettore, son
certo, che non abbia conosciuto qualche esemplare.
Il signore adocchiò i cavalli; poi domandò:
— Dov'è _passerotto?_
— È passato alla linea dei Viali —, rispose Giors.
— E _Gabriella?_
— Sempre all'infermeria.
— Già, quella è debole di nervatura alle gambe davanti; non farà
servizio per sei mesi. E Ferrari, che non lo vedo?
— È in riserva.
— Quando metterete in circolazione il carrozzone nuovo?
— È in vernice.
— Tò: anche questo ha il difetto solito: bisogna che l'Amministrazione
si decida a cambiare i freni.
Mi bastò per riconoscere un _tranvaiofilo_. Ne conoscevo già vari.
Ogni nuovo servizio pubblico, che rappresenti un progresso cittadino,
tira a sè un certo numero di questi amatori, che prendono a cuore il
suo andamento, i suoi interessi, i suoi più minuti particolari come
se fossero azionisti della Società che lo esercita. Il mio vicino era
uno di quelli che sanno il numero esatto dei carrozzoni chiusi e delle
giardiniere della _Società Torinese_ e della _Belga_, che conoscono i
regolamenti, il profitto medio quotidiano di ciascuna linea, il nome
d'una cinquantina di fattorini, cocchieri e controllori, il nomignolo,
l'età, le buone qualità e i vizi di altrettanti cavalli, che nelle
loro corse quotidiane esaminano il materiale, interrogano gl'impiegati,
notano gl'inconvenienti, danno una mano. se occorre, a rimettere sulle
rotaie un carrozzone sviato, e fanno qualche volta delle proposte per
lettera all'Amministrazione, e parteggiano quasi tutti per l'una o per
l'altra Società, senza alcuna ragione determinata, per un sentimento
spontaneo di simpatia, che non si saprebbero spiegare.
Ricominciò a celiare con Giors sul _Grand Hôtel_ della barriera, e a
ridere ad ogni sua risposta amena ammiccando ora all'uno ora all'altro
come per dire: — Eh, che bell'originale? Ci son io soltanto che lo
so stuzzicare. — Poi, essendo scesi parecchi, si rivolse a me solo,
abbassando la voce: — Gran buon uomo, sa. È stato soldato. Prima
d'entrar nei tranvai faceva l'imballatore. Già, è tutto un personale
eccellente quello della Belga; l'avrà osservato lei pure. Anche quello
dell'altra, non fo' per dire. Ah, non ci possiamo lamentare. Io son
stato all'estero.... e non c'è Parigi, non c'è Londra. Per quello che
è personale, badiamo bene. Non potrebbero fare una scelta migliore....
salvo rare eccezioni. — Poi soggiunse sorridendo: — Ce n'è di tutte le
provenienze. Non troverà un altro personale di servizio pubblico che
sia passato per tanti mestieri. Anche con quelli d'una Società sola
lei può mettere insieme una pattuglia di carabinieri, di soldati di
cavalleria, di guardie di finanza; ci trova chi le fa la barba, chi
le canta l'_Aida_, chi le stampa un libro, chi le cucina un pranzo in
tutte le regole. Ci son perfino dei marinai e dei segretari comunali.
C'è un fattorino della Belga che sa mezzo Dante a memoria e parla
latino. Non è vero, Giors, che c'è un fattorino che ha fatto il Liceo?
— E come! — rispose il cocchiere. — Ha sempre la testa nelle nuvole.
Gli caricano tutti i soldi dell'Argentina.
*
Quel benedetto “tranvaiofilo„ mi fece cambiar idea un'altra volta:
fui tentato di fare uno studio soltanto sugli impiegati dei tranvai.
L'argomento si prestava a rappresentare in un quadro forte la lotta
disperata degli innumerevoli cercatori di piccoli impieghi, che,
nuotando come naufraghi in tutte le direzioni, s'afferrano a tutte le
travi e a tutte le tavole, e lascian l'una per avvinghiarsi all'altra,
s'affondano e risalgono per riattaccarsi alla prima, da per tutto
respinti, sospinti, adunghiati da cento mani che cercano la salvezza
sullo stesso palmo di legno. La biografia d'una cinquantina di
cocchieri e di fattorini sarebbe stata una storia maravigliosa, e non
inutile, di famiglie fulminate e smembrate dalla sventura, dì piccoli
commercianti falliti, di piccoli proprietari rovinati, di poveri
diavoli travolti senza posa dalla caserma all'officina, dall'officina
all'anticamera, alla bottega, alla portieria, alla cantina,
all'ufficio, sbalzati sul tranvai dalla vettura, dal furgone, dalla
carretta, dal carro funebre, diversissimi fra di loro d'educazione e di
cultura, e nel modo di considerare il proprio stato, che è immutabile
e soddisfacente per gli uni, e transitorio e insopportabile per gli
altri, destinati in gran parte a nuove cadute, a nuove trasformazioni,
a nuove avventure. Ed anche mi allettava allo studio la vita strana di
costoro, che corrono la città tutto l'anno e tutto il giorno, mangiando
a scappa e fuggi come soldati alla guerra, in contatto con gente
d'ogni classe e d'ogni ceto, strisciati dalla veste profumata della
signora, urtati dal gomito brutale del briaco, costretti continuamente
a disputare, a ammonire, a comporre dissidi, spettatori e uditori
obbligati d'amori, di pettegolezzi, di discussioni, di beghe, di
ridicolaggini e di miserie infinite. E con questa nuova idea, per vari
giorni, andai interrogando fattorini e cocchieri....
*
Ma proprio in quei giorni fermarono la mia attenzione altri personaggi,
che m'indussero da capo ad allargare il campo del mio libro.
La prima fu una vecchietta della campagna solita a venire a Torino
sul tranvai che parte dalla barriera di Francia. Veniva forse da Pozzo
di Strada. La trovavo quasi sempre sulla piattaforma, con accanto un
sacco ritto, pieno di non so che, molto pesante, al vedere. Scendeva
ogni volta al crocicchio di via Venti Settembre. Giors l'apostrofava
di tratto in tratto come una conoscente: — _Bondì, mare_ —; essa
rispondeva con un cenno del capo. Non apriva mai bocca se non per
chiedere scusa ai passeggieri dell'ingombro del suo sacco, che mutava
di posto ogni momento, perchè impacciasse il meno possibile. Era una
vecchierella piccolissima, con le braccia d'una cortezza straordinaria,
vestita rozzamente, ma molto pulita, con un fazzoletto di colore sul
capo: un viso umile e buono. Soleva star ritta in un angolo, con una
spalla appoggiata alla colonnina, con la fronte bassa, con gli occhi
fissi sui piedi dei vicini, come meditando, e non solo non guardava,
ma pareva che non vedesse nessuno, e ogni tanto chiudeva gli occhi, e
stava un po' così, come se dormisse. Per via Garibaldi si faceva il
segno della croce quando il tranvai passava davanti alla chiesa di
San Dalmazzo, alla Trinità e ai Santi Martiri, o quando incontrava
una processione di _Figlie verdi_ col crocifisso. Era evidente che
aveva un pensiero fisso, un'immagine triste immobile davanti alla
mente, un dolore chiuso e grave che non cercava conforti e che nessuna
parola pietosa avrebbe potuto alleviare. Una mattina poco mancò
che un sobbalzo improvviso del carrozzone non la buttasse giù: fece
appena in tempo ad afferrarsi alla colonnina; ma non passò sul suo
viso bruno e rugoso la più leggiera espressione di spavento: non le
premeva la vita, si capiva. Che poteva esser stata la sua vita? La
ricorrevo con l'immaginazione, guardando lei: curvata al lavoro fin
da bambina, sfiorita a vent'anni, sposata per la dote d'un palmo di
terra, maltrattata, abbandonata dai figliuoli adulti, rimasta sola,
forse, dopo cinquant'anni di fatiche e di stenti, con un vecchio
ingrato e malato.... Mi destava una grande pietà. All'angolo di via
Venti Settembre scendeva, si metteva il sacco sulle spalle e, piegata
sotto il peso, pigliava verso Porta Palazzo. Vista di dietro, nella
strada, pareva una bimba, tanto era poca cosa: era veramente l'immagine
della sua vita: una cosa di nulla, china sotto un gran carico, in mezzo
a gente che la urtava e non le badava. Studiando la sua tristezza,
l'ultima volta che la vidi, vi scopersi l'espressione d'un dubbio o
d'una speranza, mi parve come un dolore che aspettasse, e che dovesse
cessare un giorno o mutarsi in disperazione....
L'altro “personaggio„ fu una signorina che trovavo qualche volta sul
tranvai del Martinetto, qualche volta su quello di corso Vinzaglio,
sempre sola. La prima volta che la vidi, seduta in un angolo del
carrozzone, il suo viso si disegnava di profilo sopra il vetro del
finestrino, dov'era dipinto in colore azzurro e rosso di fuoco un
annunzio figurato di pastiglie per la tosse; e pareva veramente un viso
di vergine campeggiante nell'invetriata d'una cattedrale; così puro di
linee, così casto d'espressione e d'una bianchezza così eguale e soave
che avrebbe attirato il primo sguardo fra dieci visi di monache tutte
belle. Fui anche più maravigliato quando si voltò, mostrando due grandi
occhi chiari e sereni, che si fissavano un momento ora sull'uno ora
sull'altro di quelli che la guardavano senza dare il più leggiero segno
nè di stupore, nè di compiacenza, nè di suggezione, come gli occhi
d'una creatura chiusa alle passioni umane. Aveva l'aria d'una ragazza
che non potesse arrossire per ignoranza del peccato, che non avesse più
mutato aspetto dall'età di cinque anni, e a cui mancasse la coscienza
del proprio sesso: una di quelle figure serafiche, che non ci riesce
d'immaginare intese a un'occupazione volgare, e quasi neppure alla
soddisfazione d'un bisogno fisico, come se del corpo umano non avessero
che le forme esteriori. Ebbi un disinganno, peraltro, quando la vidi
levarsi in piedi e discendere: era molto alta di statura, stretta di
spalle, un corpo di bambina allungata, così esile e leggiera, che un
ragazzo l'avrebbe potuta portar via. Tutta la sua bellezza era nel
capo, incoronato d'una stupenda capigliatura castagna: la natura le
aveva abbozzato il resto senz'amore. Vestiva molto modestamente, con
semplicità severa, come si vestirebbe una monaca costretta a smettere
per un giorno l'abito religioso. Mi destò una viva curiosità. E fin
dalla prima volta mi sorse nella mente un'immagine che non ne uscì più:
Vittoria Colonna morta, del pittore Iacovacci: chi sa perchè? Vidi lei
vestita di bianco, distesa sopra un catafalco, lunghissima, ravvolta
in un velo bianco, coronataci fiori bianchi, in mezzo a quattro grandi
ceri fiammanti, e la chiamai dentro di me: _la vergine morta_. Chi
poteva essere, così bella e così strana, e sempre così sola? Non
l'ombra d'un pensiero mi passò per la mente, che non fosse rispettoso,
poichè s'ha un bel sapere per esperienza che i visi ingannano: ci sono
dei visi su cui si giura. E mi rimase un desiderio acuto di sapere, e
feci il proposito fermo di chiedere, di scoprire in qualunque modo chi
fosse.
Il terzo personaggio mi destò una curiosità anche maggiore. Una
mattina che nevicava, in via Garibaldi, fa fermare il tranvai un
piccolo signore sulla cinquantina, con gli occhiali e il pizzo grigio,
s'avvicina per salire sulla piattaforma davanti, e, visto me, mi lancia
un'occhiata severa e scappa sulla piattaforma di dietro. Diavolo!
Già una volta l'avevo visto fare quell'atto; ma non m'era nato alcun
sospetto: poteva essere un caso o uno sbaglio. Ma la seconda volta
non cadeva più dubbio. Ero proprio io la forza repellente. E perchè
mai? Non lo conoscevo; non ricordavo d'avergli parlato mai. È però
tanto facile il dimenticarsi d'aver offeso, anche non volendo, uno
sconosciuto, o con una lettera asciutta, o col silenzio, o con uno
sgarbo fatto per la via, che mi diedi a cercare rapidamente nella mia
memoria. Ma non vi ritrovai nè il suo viso, nè un indizio qualsiasi
della sua esistenza. Che fosse un'antipatia letteraria così violenta
da rendergli insopportabile la mia vicinanza? Ma non m'aveva l'aria
d'un cittadino che potesse patire di quella malattia: pareva d'una
professione remotissima dal mondo delle lettere, come un notaro o un
segretario d'agenzia, un padre di famiglia serio e posato. A un certo
punto, voltandomi indietro, mentre i due usci erano aperti, lo vidi
ritto sull'altra piattaforma, e incontrai il suo sguardo: egli dilatò
gli occhi, come a una sorpresa sgradevole, e voltò bruscamente il capo
dall'altra parte.... Ombre degli avi miei! Era veramente un'antipatia
d'indole acuta; era un uomo che m'avrebbe dato fuoco da due parti.
Ebbene, rimasi male; sì, alla mia tenera età! perchè son uno di quei
poveri diavoli che non sanno rassegnarsi a essere odiati. Presi nota di
quel viso nella mia memoria. L'“amico„ doveva star di casa su quella
linea, l'avrei rivisto, avrei forse scoperto il suo _perchè_, e mi si
poteva offrir il modo di levare a lui il verme dal cuore e a me l'osso
dalla gola....
*
Mi si presentarono intanto altri personaggi; la cosa s'avviava bene.
Pensai che si potessero anche studiare sul tranvai gli effetti degli
avvenimenti politici; ma mi persuasi presto che, per questo riguardo,
c'era poco da cavare da un popolo dell'indole del torinese. Eran quelli
i giorni della grande ansia pubblica per la sorte della fortezza di
Makallè. Sui tranvai di Napoli avrei inteso chi sa che discussioni ed
esclamazioni; su quelli di Torino non c'era nulla da raccogliere: la
mattina leggevan tutti il _Popolo_ e la _Stampa_, in silenzio, e solo
i conoscenti barattavano qualche parola a voce bassa, per lo più dei:
— ma! — secchi e solitari, come suoni di bottiglie stappate. Conobbi
però un fattorino che s'occupava della guerra con gran passione, e
che mi diede egli solo una forte spinta a scrivere il libro. Era una
settimana sulla linea del Martinetto, un'altra su quella dei Viali:
un lanternone biondiccio, con gli occhi lustri e le guance cave, che
arieggiava lo Zanardelli. Lo chiamavano Carlin. Era acceso d'un sacro
furore per la guerra d'Africa; diceva egli stesso che fin dal principio
della campagna quello era un suo pensiero fisso, che non gli dava pace.
Tendeva l'orecchio a tutti i discorsi guerreschi dei passeggieri,
e quando sentiva biasimar la guerra o far presagi sinistri, faceva
dietro le spalle del parlatore degli atti violenti di negazione. Le
buone notizie lo inebbriavano, e allora parlava alto da sè: — Bravo
Galliano! Ah non importa: si fanno un bell'onore! Ah, la vedremo! —
E aveva il baco dello stratega: ripeteva ogni mattina che bisognava
pigliarli fra due fuochi, e faceva l'atto con le braccia. — Ma perchè
non li pigliano fra due fuochi? — Gli pareva così semplice! E non
sapeva darsi ragione del perchè non lo facessero. — Non concluderanno
niente — diceva —, fin che non li attaccheranno davanti e di dietro
non concluderanno niente; non ne tornerebbe più uno a casa di quei
maledetti negri, non uno! — Se la prendeva anche con la Francia per un
pezzo d'articolo insolente che aveva letto tradotto in un giornale;
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