La Carrozza di tutti - 09

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Alla prima fermata, infatti, discese alla lesta col suo piccolo carico,
che tendeva le braccia verso il babbo; e questi, ritenendola ancora con
la mano quando era giù sulla strada, le disse: — A questa sera.
— A che ora? — domandò essa, mentre già il tranvai si moveva,
fissandolo con uno sguardo d'amante, ma un po' triste, per il
presentimento della risposta.
Ed egli rispose con lo stesso sguardo e con lo stesso accento: — Al
solito.
— Alle undici?
— Alle undici, — rispose il fattorino, scotendo il capo.
La donnina mise un sospiro, e stette lì ferma in mezzo al Corso,
rivolta verso la carrozza che le portava via lo sposo. Ed eran così
belli quei due bei giovani che si guardavano a traverso lo spazio
crescente, tutti e due col capo un po' inclinato, egli stando voltato
indietro, essa porgendogli il bimbo da lontano, quei due poveri sposi a
cui pareva così lunga una separazione di quattro ore perchè era il loro
cuore che batteva i minuti e il loro bimbo che li voleva riunire!


CAPITOLO QUINTO.

Maggio.
Una mattinata bella.... e una conversazione sciocca di benpensanti, a
proposito della data del mese, sul tranvai di Vanchiglia. Eran certo
di quelli stessi che, quando il primo maggio era tumultuoso, dicevano:
— Facciano la loro festa pacificamente, se voglion che sia rispettata!
— Diventata la festa pacifica, si facevan beffe delle riunioni
private e delle passeggiate campestri dei rinsaviti, attribuendo il
rinsavimento a cagioni ignobili. Non c'è gente più stomachevole dei
paurosi che, appena rassicurati, scherniscono e accusano di viltà chi
li ha impauriti. E ragionarono un pezzo per dimostrarsi a vicenda una
cosa di cui erano già tutti convinti: l'assurdità dell'Idea che la
festa esprime. Ma li ascoltavo quasi con piacere, pensando al tempo
in cui sarebbero parsi altrettanto strani quei ragionamenti quanto
paion tali al presente i ragionamenti opposti. Strana cosa, infatti,
degna d'una favola d'Esopo: l'onda del mare che si stupisce e s'adira
d'essere incalzata da un'altr'onda, e le grida: — Va indietro! — Ma
quel piccolo mormorio di voci ingrate si perdette ben presto in quello
grande, ch'io sentivo nella mente, d'altri innumerevoli benpensanti
come quelli, dicenti le stesse stessissime cose, percorrendo sui
tranvai altre centinaia di città, vicinissime e lontanissime, di là
dai monti e dai mari, di cento aspetti diversi, mentre si preparavano
intorno a loro, come ai loro amici ignoti di Torino, altre adunanze e
feste e passeggiate campestri, nelle quali, per la seconda volta sulla
terra, milioni d'uomini avrebbero espresso in venti lingue gli stessi
propositi e le stesse speranze che ai miei vicini parevan follia. E mi
pareva che l'aria di maggio che m'alitava in viso mi portasse un'eco
vaga di quelle voci infinite, confuse in un suono solenne e dolce, come
un sospiro del mondo, risvegliato dal sentimento della primavera.
Eppure ero triste; con la data del mese mi ritornava in capo di
continuo il pensiero d'un edifizio, già eretto e compiuto con cinque
anni di fatiche, di cure amorose e di passione ardente; il quale un
giorno, in un momento di potente chiaroveggenza critica, avevo visto
tutt'a un tratto, come per un crollo di terremoto, spogliarsi del
suo intonaco, aprirsi dal tetto alle fondamenta e rovinare in mille
frantumi. Quella data riconduceva forzatamente il mio pensiero fra
quelle rovine, che non avrei più potuto ricomporre che con altri più
anni di duro lavoro, e dopo che mi si fosse rifatta serena la mente
per concepire un nuovo disegno; e quel ricordo d'entusiasmi vani, di
speranze deluse, di veglie perdute, e il dubbio che una prova eguale si
potesse ripetere con una fine egualmente miserevole, mi sgomentava come
l'idea d'una condanna alla tortura perpetua.
Fui scosso all'improvviso da una voce gaia: — Primo maggio! — e,
voltandomi, mi vidi accanto sulla piattaforma un viso noto, un bel
giovane biondo, vestito a festa, con un garofano all'occhiello,
rosso come la sua bocca di vent'anni. Tutt'i miei pensieri tristi
fuggirono all'aspetto di quella gioventù sfavillante d'allegrezza.
Era un tipografo, uno dei credenti più appassionati e più sereni, di
natura affettuosa e ingenua, un bersagliere ardente del partito, il
più svelto e fervido dei galoppini elettorali, divoratore infaticabile
di scale e di strade, sempre pronto a tutti i servizi, a conciliare,
a ammansire, a metter bene; non mosso da alcuna speranza di vantaggio
proprio nè prossimo nè remoto, ma pago e contento di esser l'ultimo
soldato dell'esercito; e altero della sua fede, compreso di un così
vivo sentimento di dignità di classe da accendersi di vergogna e da
patire un vero tormento alla vista d'un operaio ubbriaco; e zelante
come un missionario, primo sempre ad accorrere a tutte le riunioni,
nelle quali la sua testa bionda brillava fra mille come una luna d'oro,
e il suo fremito e il suo riso d'assenso agli oratori si trasfondeva
nei vicini come un fluido elettrico. Era felice, quel giorno; l'idea
della passeggiata campestre pomeridiana lo eccitava; aveva già corso
non so quante linee del tranvai per andar a sollecitare dei compagni
irresoluti; sapeva quello che si sarebbe fatto nelle principali città
straniere, pregodeva il piacere del leggere le notizie del dì dopo,
diceva: — I compagni di Bruxelles, di Berlino, di Vienna, di Parigi, —
facendosi suonar quei nomi all'orecchio con un sorriso di compiacenza,
come dei nomi di amanti; e interrompeva ogni tanto il discorso per
indicarmi i garofani rossi sui tranvai che passavano, come avrebbe
indicato dei trofei di vittoria. In fine, mostrandomi il suo garofano,
mi disse che era un regalo inaspettato che gli aveva portato a letto
la mattina la sua vecchia mamma, non perchè fosse “convertita„ ah!
tutt'altro; ma per fargli una sorpresa piacevole, e che prima di
darglielo gli aveva fatto mille amorose raccomandazioni d'aver giudizio
almeno per quella giornata, povera vecchietta! come se fosse stata una
giornata di battaglia. Poi saltò giù dalla piattaforma dicendomi che
andava a comprare una mezza dozzina di _numeri unici_ da distribuire
agli amici stangati, e fattomi un saluto vivace con la mano, scappò,
lasciandomi nell'anima un raggio della sua gioventù e della sua gioia.
*
Ma il giorno dopo scontai la festa. Pericoloso è il tranvai per quelli
a cui tocca di tanto in tanto di “correre per le bocche„ dei loro
fratelli in Cristo. Non sospettava certo ch'io stessi ritto dietro le
sue spalle il grosso signore brizzolato che sedeva sull'ultima panca
della giardiniera di corso Vinzaglio, sulla quale ero salito con lo
scultore Costa per andare all'Esposizione triennale. Aveva fra le mani
la _Stampa_ della mattina, in cui era riassunto un discorso fatto
da me il giorno avanti all'_Associazione generale_ degli operai, e,
parlando con un vicino, mi tartassava in un modo barbaro, con voce
lenta e pacata. Ah se si potesse intendere tutto quello che dice di noi
la gente che non ci conosce, saremmo le più volte meno offesi dalle
ingiurie che stupefatti, divertiti dalla stranezza e dall'assurdità
delle favole, impossibili a immaginarsi. Anche il Costa tendeva
l'orecchio; ma senza comprendere chi fosse il tartassato. Il buon
signore spiegava al vicino il vero perchè di quella ch'egli chiamava
la mia _rivolta_ (rivoltatura di giubba, voleva forse dire): egli lo
sapeva di certa scienza. Perduto quel po' di ben di dio col crac della
Banca Tiberina, avevo brigato, per campare, il posto di bibliotecario
civico, che m'era stato rifiutato; e, ridotto al verde, invelenito, per
puro sfogo di vendetta contro il mondo ingrato, avevo fatto il salto
nefando. E presagiva dove sarei andato a finire: in un luogo dov'egli
m'avrebbe chiuso subito, se avesse potuto. Illuminato a un tratto da
una parola, il Costa mi diede di gomito, dicendo: — Senti, senti....
sei in ballo tu.... — e intesa la chiusa, ch'era un epiteto, soggiunse
ridendo: — Beccati questa e serbala a Pasqua. — Stavo per ribattere;
ma mi balenò una speranza di rappresaglia, che mi fece tacere. La
speranza non fu delusa, in fatti. Svoltato il tranvai sul corso
Vittorio Emanuele, quando fummo vicini alla piazza, il grosso signore,
preso da un impeto improvviso di collera, tese il pugno verso l'assito
del monumento, e gridò: — E anche quest'auro! O quando sarà finita? E
bisogna essere minchioni come siamo noi.... — e taccio il resto. Allora
toccai col gomito il mio buon amico e gli dissi: — Questa mi farai il
piacere di beccarla tu e di serbarla a Natale. — Scoppiando tutti e due
in una risata, facemmo voltare l'oratore che, messo in sospetto, non
disse più nulla. Ma non occorreva che dicesse altro. Per i nostri dieci
centesimi, come osservò il Costa, ne avevamo avuto abbastanza. Regola
generale: andare a piedi il giorno dopo che s'è pronunciato un discorso
in pubblico.
*
I discorsi che si sentono sui tranvai, che pascolo per la fantasia! Ne
feci uno studio particolare in quei primi giorni di maggio e mi parve
di raccoglier pagine e pezzetti di pagine di mille romanzi lacerati.
Eppure in quella varietà infinita c'è anche una grande monotonia. Quei
dialoghi a bassa voce fra ragazze del popolo, nei quali ogni venti
parole, infallibilmente, come il _paese_ nei discorsi elettorali,
vien fuori la parola _chiel_ — lui — l'eterno _chiel_, il protagonista
anonimo del racconto; quei ragionamenti politici, in cui potete esser
certi sempre di sentir pronunciare come giudizio proprio il giudizio
che avete letto la mattina sul giornale che il ragionatore tien nella
mano; quei discorsi sulla pioggia, sul caldo, sul freddo e sul vento,
fatti di parole che milioni di bocche ripetono da tutti i secoli ad
ogni variazione del tempo come se fosse sempre una cosa nuova, strana,
inaspettata! Una gran parte delle conversazioni degli uomini non sono
che sbadigli dell'intelligenza sonnecchiante. Ma va a giorni. Trovo fra
gli appunti d'una sola corsa la storia interminabile del cambiamento
d'un'unghia del piede, raccontata da un operaio al cocchiere, mentre
un medico, che gli stava accanto, spiegava a un terzo in che modo
dovesse far aprir le mascelle al suo cane da caccia per cacciargli in
gola ogni mattina una cucchiaiata di sale, che l'avrebbe guarito dal
raffreddore; poi una frase colta a volo da due ufficiali che parlavan
d'un duello: — Quando uno la dà, che gl'importa degli arresti! — e una
esclamazione soffocata: — Io la strozzo con le mie mani — intesa da
un Tizio che faceva uno sfogo confidenziale con un amico, nel tempo
stesso che due signori, dall'aria di gente di teatro, maltrattavano
il maestro Leoncavallo chiamando i _Pagliacci_, con fine sarcasmo, i
_Pagliericci_, e un tale che mi stava di dietro, discorrendo con non
so chi, spacciava intorno all'Argentina, dond'era ritornato da poco,
le più grosse panzane del mondo: per esempio, che ci si pagava dieci
lire per farsi fare la barba. Poi, in quello stesso giorno, stralci di
storie di malattie, di danari prestati e non resi, di liti coi vicini
di casa, d'avventure galanti, di gite ciclistiche, e vari di quei
discorsi che per un tratto par che si riferiscano a un dato argomento,
ma che da una parola si comprende che riguardan tutt'altro, un cosa
mille miglia lontana, senza parerci men balordi per questo. E non è uno
studio inutile, perchè ci s'impara fra l'altro a proceder cauti nel far
la critica su dei frammenti. Ecco ad esempio un dialogo che intesi fra
due ragazze nella mia ultima corsa sul tranvai di via Cernaia.
— Uno tra due.... è vergognoso.
— Ma che! Nessuno è lì a vedere.
— Ma ci vedono entrare insieme.
— Che importa? Chi sa quante fanno lo stesso. — Dopo una pausa: — È un
gran piacere.
— Sì, ci si sente meglio, dopo.
— È già più d'un mese.... Ne ho proprio bisogno.
— Diamine, — dissi tra me, — ci vuol della faccia. E mi sarebbe rimasto
di loro un concetto orribile se non le avessi viste, quando discesero,
entrare nello stabilimento di bagni di corso San Martino.
*
Maggio, bel maggio, maggio amor dei fiori
e dei legumi, è bello anche sui tranvai che, passando la mattina dei
giorni di mercato per le piazze Emanuele Filiberto, Bodoni e Madama
Cristina, si trasformano in piccoli orti, magazzini alimentari e
dispense ambulanti, piene di colori e d'odori. Vi salgon su da ogni
parte, caricandovi le loro derrate, fantesche, bottegaie, cuochi
di alberghi, ordinanze d'ufficiali ammogliati, signore con gabbie
d'uccelli e vasi di fiori fra le mani; ed è tale qualche volta
l'ingombro degli involti e dei canestri cacciati sopra e sotto le
panche e dei grossi cavoli posati sulle ginocchia e dei cardi enormi
tenuti ritti come torce e dei polli ciondolanti dal pugno delle serve,
che non vi si può più muovere un braccio o allungare una gamba senza
urtare in qualche cosa di commestibile. Ah! com'è curioso il contrasto
fra i cuochi di case signorili che mettono superbamente in mostra le
code delle trote e dei fagiani, e i piccoli borghesi dei due sessi
che vanno a comperare per necessità economica o per raffinatezza di
buongustai, facendo un sacrifizio d'amor proprio, con la speranza di
non esser visti dai conoscenti, e dissimulando con mille piccole arti
la roba comprata! Ma la signorina bionda ha un bel pigliare degli
atteggiamenti poetici o un'aria distratta per far credere di trovarsi
là per puro caso: io vedo bene rosseggiare i ravanelli delatori sotto
il coperchio mal chiuso del suo canestrino elegante. E il vecchio
maggiore giubilato ha un bel tamburinare con le dita la sua borsa di
cuoio da viaggiatore, con la quale vuol dare ad intendere d'esser
venuto or ora dalla stazione di Lanzo: il cuoio rigonfio disegna
bellamente la forma d'un mazzetto d'asparagi, sua desiderata primizia.
E non serve che la vecchia contessa, rovinata nel recente disastro
delle banche, cerchi di nascondere con l'ombrellino stinto il pacco
che si preme con la mano destra sul petto: vedo per uno spiraglio della
carta verdeggiare la cicoria, che un tempo ella non toccava mai che con
la forchetta e che ora, arrivata a casa, tagliuzzerà con le proprie
mani, da cui sono scomparsi gli anelli. Ah povera contessa, chiudi
un po' quell'ombrellino, col quale ti pari, non dal disprezzo come
credi, ma dal rispetto e dalla simpatia delle anime gentili.... E la
giardiniera va, spandendo odori di rosmarino, di basilico, di fragole,
di pesci, di caci, di cipolle, d'un po' di tutte le cose, destinate a
mense splendide di milionari, a tavole rotonde di stranieri, a poveri
deschi di studenti, d'impiegatucci, d'operai, di malati, a luoghi e a
mangiatori tanto diversi, quanto sono i modi con cui furono guadagnati
i soldi che le pagarono, dalla fatica della schiena all'imbroglio
finanziario, dalla vendita della scienza al mercato dell'amore.
Poi, ad uno ad uno, tutti i carichi son posti giù, e il tranvai,
ripigliato l'aspetto solito, continua la sua corsa leggera e inodora,
fin che ritornerà nello stesso punto, dove ripiglierà altri colori
e odori e vanaglorie culinarie e pudori aristocratici e peccati di
gola mascherati. Tranvai stimolanti, consigliabili, sul serio, a quei
pochi malati di anoressia che possono ancor essere sotto il bel sole
d'Italia.
*
Maggio, bel maggio, maggio amor dei fiori...
Mostravano di sentirne l'influsso, e come! il bel capitano di fanteria
e la supposta moglie dell'impiegato postale, che ritrovai una mattina
di maggio in un carrozzone chiuso della linea Vinzaglio. Che il loro
amore non fosse uscito ancora dalle rotaie dopo un mese e mezzo di
corse? Possibile, non credibile. Comunque fosse, era evidente che si
trovavano tutti e due in quel periodo critico, nel quale all'amore
divampante cominciano a riuscire intollerabili la tirannia del
calendario e dell'orario, la simulazione, la menzogna e tutte l'altre
astuzie e cautele del tradimento; in quel periodo in cui la passione,
accecata dalla propria fiamma e insuperbita della propria forza,
illudendosi d'aver dei diritti, ha voglia di buttar via tutti i veli,
di scuoter tutti i gioghi, di spezzar tutti i lacci, e d'attaccar
battaglia aperta col mondo e con le sue leggi. Sul viso di lei non
c'era più segno di timidezza; non si parlavano, ma si fissavano
liberamente, e guardavano gli altri con gli occhi arditi, come dicendo:
— Ah, non crediate che si voglia fingere! Quello che sospettate è la
verità, e non la frodiamo, ma la portiamo in trionfo, e ve la gettiamo
sul viso. — Benedetto amore, segno eterno d'“immensa invidia„! Avete
notato che in chi n'è spettatore v'è quasi sempre un'espressione di
gelosia velenosa? che il mondo, che quasi sempre gode a veder due che
s'odiano, par che si roda a veder due che s'amano? Fra i passeggieri
che bersagliavano la coppia d'occhiate ostili c'era un signore serio
e barbuto che, a giudicar dalla faccia, li avrebbe pugnalati. Non
potea star fermo, si tormentava i baffi e soffiava; avrebbe voluto
non guardarli e non ci riusciva; avreste detto che era lui il marito
ingannato. Riconobbi in lui un erotico, ma d'un ordine particolare:
il geloso di tutto il sesso femminile, quello a cui tutti gli amori
sembrano un furto e un'offesa fatta a lui, e al quale par che ogni
donna innamorata, vedendolo, si dovrebbe staccar dal suo amante,
dicendogli: — Scusami tanto; mi sono innamorata di te perchè non
conoscevo quel signore: ti pianto. — Come divampava quel carrozzone!
Non pareva che lo tirassero i cavalli, ma che lo spingesse avanti la
forza della passione, delle gelosie, dei cuori palpitanti e delle
immaginazioni accese che portava dentro. C'erano due signorine col
viso rosso, due vecchi che avevan tutta l'anima negli occhiali, un
giovanetto che pareva magnetizzato; perfino il fattorino pigliava i
soldi senz'esame per covar con gli occhi la bella coppia colpevole. Ed
io pensavo con pietà a quel povero impiegato delle poste, che forse in
quel momento diceva allo sportello, con voce placida: — Niente per lei!
— Ah poveretto! E per lui c'era quel po' di roba.
*
Maggio, bel maggio, maggio amor dei fiori...
Lo sentiva anche il mio buon veterano di via Garibaldi la sera che lo
trovai, col suo cane inseparabile, sulla giardiniera della linea del
Valentino, diretta verso Porta Palazzo: in piedi, trionfalmente. Era
contento, si vedeva, di star bene, di respirar l'aria tepida, pregna
del profumo dei fiori d'acacia: infatti, a ogni crocicchio, girava il
capo con vivacità insolita, e guardava tutto, sorridendo alla gente,
ai monumenti, alle case in costruzione, ai tranvai che passavano, alle
strade lunghe e diritte, e alle Alpi lontane. Doveva esser per lui
una di quelle buone giornate che i vecchi ricordano poi come squarci
aperti nella loro vecchiaia, nei quali hanno rivisto da vicino e quasi
risentito di sfuggita l'età migliore. E sorrideva anche al tranvai che
lo portava, che era grazioso e allegro veramente: un giardinetto di
cappellini Arton, Vittoria e Romeo, coronati di rose e di pizzi; una
nidiata di bimbi bianchi, tutti in ammirazione della uniforme strana
d'un ufficiale Bulgaro della Scuola di guerra; due belle ragazze del
popolo, in capelli, d'un biondo abbagliante, e tre soldati del genio,
un po' eccitati dal Barbéra, che facevan rider tutti con certi commenti
comicissimi, accompagnati da risate infantili, sopra un desinare
disgraziato che avevan fatto all'osteria. Attraversare la sua Torino
in carrozza, per due soldi, con quella bella compagnia, con quel bel
tempo, doveva essere per quel vecchio celibe uno dei godimenti più
squisiti che gli restavano, qualche cosa come una brillante cavalcata
in un passeggio pubblico per un signorino di diciott'anni; e non potè
trattenersi dall'esprimermi la sua contentezza quando, nel passare
per via Siccardi, lungo il giardino della Cittadella, ci venne in viso
un'ondata di profumi dall'Esposizione dei fiori. Voltò verso di me la
faccia piena di rughe sorridenti, ed esclamò: — Che bella serata! — Poi
si rizzò un momento sul busto come per dire ai vicini, secondo il suo
solito: — Son settantotto, sapete! — Poi m'espresse il suo desiderio
di veder l'anno dopo l'“impianto„ dei tranvai elettrici e mi disse
la sua ammirazione per i “progressi maravigliosi del giorno„ come un
uomo che sentisse ancora in sè tanta vita da poterli godere per un
pezzo; e s'interruppe per chiamare il suo Ciuchetto con una nota di
voce insolitamente sonora, della quale si compiacque, come d'una prova
di vigoria di petto. E s'interruppe da capo in via Garibaldi per fare
una profonda scappellata, con una inclinazione reverente del capo. Era
passata in carrozza la principessa Letizia. E capii che quell'incontro
era per il suo cuore di buon vecchio piemontese monarchico il
coronamento felice d'una giornata d'oro.
*
_Maggio, bel maggio_: lo sentiva nelle vene anche il piccolo monello
che mi fu affidato.... Una corsa calamitosa. Salii a Porta Palazzo sul
tranvai, ancor fermo, della linea di Borgo San Salvario. Ero solo. Una
donna — una nonna, mi parve — mi mise accanto sulla panca un bel bimbo
bruno di circa sett'anni, dicendomi: — Scusi tanto, _monsù_; lei va a
_capolinea?_... E allora, vorrebbe esser tanto buono da tener d'occhio
questo bambino, che deve discendere da una sua zia in via Berthollet,
numero sedici? — E ringraziatomi, ripetè la raccomandazione al
fattorino, che appena le badò. Il tranvai partì. Io feci una carezza al
mio raccomandato, per rassicurarlo; ma riconobbi subito che non n'aveva
bisogno, poichè nell'atto stesso mi levò di mano la canna, dandomi del
tu, senza preamboli, e tirò a disfarmi il nodo della cravatta.
È varia e dilettevole quella linea, che dal corso Regina Margherita
svolta in un tratto di strada ariosa e chiara, aperta da poco; poi
rientra in Torino antica, fra il duomo austero e i palazzi foschi
del Chiablese e del Seminario, dove irrompe un soffio di vita giovane
dalla Via Quattro Marzo; e, proseguendo per la via rumorosa del Venti
Settembre, passa per quella nuovissima di Pietro Micca, in mezzo a
una allegrezza chiassosa di architetture ornate, a vecchi crocicchi
in rovina, che non si riconoscon più, a fughe di colonne snelle, di
cantonate fresche, di prospetti nuovi, davanti ai quali ripassan nella
mente visioni confuse di città straniere e ricordi di case sparite
e d'amici morti e immagini di finestre e di terrazzi noti, che pare
si sian dissolti nell'aria! Bello si, ma un po' triste, perchè tutto
questo non è stato fatto per voi, e si sente di più la vecchiaia che
s'avanza vedendo la città che ringiovanisce. — Tutto questo è fatto per
te e per gli altri monelli della tua generazione — pensavo, guardando
il mio piccolo protetto sconosciuto....
Un vero serpente questo piccolo protetto, che non mi dava requie un
momento. Si voleva rizzare in piedi sulla panca, si sporgeva fuori del
tranvai, agitava la mia canna per aria, metteva i piedi nella schiena
ai passeggeri seduti davanti, i quali si voltavano a guardar me,
come per domandarmi se era quella e non altra l'educazione che avevo
saputo dare al mio figliuolo. Ed io fremevo; ma potevo commetter la
viltà di dire che non era mio? E non ero che al principio delle mie
tribolazioni.
Lo scellerato, nell'ultimo tratto di via Venti Settembre, durante una
breve fermata, si mise a compitare a voce alta l'annunzio del _Cacao
Talmone_ dipinto sopra un altro tranvai pure fermo, insistendo con
malizia perfida sulle due prime sillabe, tanto che m'attirò addosso
dai vicini delle occhiate severe. — Vergogna —, gli dissi piano; ed
egli mi rispose forte: — Vergogna a te — fraternamente. Poi, sul corso
Vittorio Emanuele, essendo salito accanto a me un vecchio signore
col gozzo, egli credette opportuno di darne la notizia al pubblico,
dicendomi nell'orecchio, ma a voce spiegata: — _A l'a 'l gavass!_ —
Feroce mascalzone! Avevo il prurito alle mani; ma come si fa? dovevo
frenarmi e inghiottire il disonore di padre putativo, contentandomi
di fargli degli occhiacci, di cui si rideva: ero in sua balìa, e lo
capiva. E me ne fece ancor una in via Nizza, dove, vedendo salire una
donna incinta, esclamò con una intonazione prolungata di stupore: —
_O che pansa grossa!_ — E questa volta vidi correre per le panche un
fremito d'indignazione contro di me, e la donna stessa disse: — _Bela
educassion!_ — guardandomi in faccia. Non ci reggevo più. Fu una vera
liberazione quando potei gridar _alt_ davanti al numero sedici di via
Berthollet e rimettere il marmocchio al fattorino, dicendogli in cuor
mio: — Va, piccolo carnefice, e mi colga il malanno se accetterò ancora
la tutela d'un malfattore par tuo neanche per un tragitto di trenta
passi!
*
Su quella stessa linea, correndola in direzione opposta, rividi due
giorni dopo donna Chisciottina, col suo bimbo inseparabile. Me li
trovai seduti davanti sulla giardiniera, e stando voltato un po' di
fianco, con l'aria di leggere le insegne fuggenti delle botteghe,
potei sentire gran parte d'un discorso accalorato ch'essa faceva
a un'altra signora; la quale l'ascoltava sorridendo, più attratta
dall'originalità, a quanto mi parve, che dal soggetto della sua
eloquenza. Aveva i capelli un po' scomposti, come sempre, e macchiato
d'inchiostro un dito della mano con cui gestiva, come una scolaretta
arruffona; e diceva, diceva, con la sua calda voce di contralto,
sgranando gli occhioni e enfiando il collo. — Disgrazie su disgrazie,
vede. La figliuola, figliuola unica, ch'era già malaticcia, peggiorò,
e dopo quel colpo non s'è più riavuta. Io le mandai il dottor
Rizzetti. Si figuri che ogni notte sognava la disgrazia e si svegliava
spaventata, gridando. E poi la paura che le mettessero il padre in
prigione e che perdesse il posto; una tristezza da morire, s'immagini;
una ragazza senza madre, poveretta, tutto il giorno in casa sola....
Io lo andai a raccomandare alla direzione; ma già non c'era pericolo
perchè non ci aveva avuto colpa. Lui però non è più quello di prima.
Da principio s'era dato a bere, per stordirsi, si capisce. S'è fatto
torvo, un po' strambo, con certe idee fisse, e parla più poco. Fa
compassione a sentirlo, creda, quando dice quel che prova a ripassar di
là, che rivede tutto, tutto, e gli prende il convulso ogni volta che un
bimbo attraversa la strada....
Ebbi un barlume, a quel punto, che il suo discorso si riferisse a
una persona e a un fatto che m'eran noti. Le parole che aggiunse me
n'accertarono.
— No, proprio, non c'ebbe colpa. Bisogna sentirlo ripetere dieci volte,
col pianto nella gola: — Giuro per l'anima della mia povera madre che
non l'ho visto passare! — Chi dice quello a quel modo dice la verità.
Se vedesse quella povera casa! La ragazza a letto, in quello stato; lui
seduto davanti a un pezzo di polenta che non può mandar giù; e sempre
quel povero morticino in mezzo a loro due, tutto in sangue, e quel
grido, quel grido che sentono sempre! Ma ora almeno ha smesso di bere,
tante glie n'ho dette. Dicono: chi ha preso quel vizio, è inutile di
ragionarlo. Ma è perchè non ne han voglia. Ma quando io gli dissi: —
Vedete, se diventate un briacone, diranno che lo siete sempre stato, e
che è per questo appunto, per vostra colpa, che la disgrazia è seguita
— questa ragione gli fece senso. E poi gli dissi: — Non voglio! Capite?
Ve lo proibisco in nome della vostra povera moglie morta, e della
vostra figliuola malata, che m'ha posto affetto come a una mamma! —
Pover uomo, si mise a piangere e mi baciò le mani. Ah, quel che può
fare una donna, quando ha un'anima! Ma io non posso esser da per tutto
e far tutto....
E mentre diceva questo con quella voce calda e violenta e con quel
gesto vibrante che faceva sorridere la sua amica, s'indovinavano in
lei dei tesori d'amore ardente, la forza contro il dolore, il coraggio
contro la morte, un disprezzo profondo delle false convenienze sociali,
una semplicità virginea dell'animo e un vigore di fibra virile, e sul
suo piccolo viso bruno e irregolare appariva una bellezza fuggente,
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