La Carrozza di tutti - 05

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che corresse fin dalla prima mattina e dovesse correre fino alla
sera, stimolata a un tempo da un obbligo e da una passione: servitori
volontari e conscienti d'un'idea. E fu appunto uno di questi fattorini
apostolici che mi fece fare la prima scoperta riguardo a uno dei miei
compagni misteriosi di viaggio.
Ero sul tranvai del Martinetto, una mattina di nebbia, accanto al
cavaliere Bicchierino, che leggeva la sua solita _Gazzetta_, in
piedi. Salì sulla piattaforma un falegname mio conoscente, con un
gran cappello alla calabrese e una giacchetta spelata di velluto color
cacao, che gli vedevo addosso da cinque o sei anni, e un grosso pacco
di stampe sotto il braccio. Era un originale curiosissimo d'indole come
d'aspetto, che, a vederlo serio, con quel barbone rossastro e ispido,
con quelle folte sopracciglia irsute e quel collo taurino, pareva
un uomo terribile, e quando rideva, il più gran bonaccione di questo
mondo, benchè avesse una voce di cannone Krupp. Era un filosofo, il
quale esprimeva tutti i suoi pensieri in forma di sentenza, e ne notava
una gran parte in un taccuino, che portava sempre con sè, spaziando di
preferenza nel campo della morale, dei costumi, della rigenerazione
della donna e dell'educazione dei fanciulli. Non un pensatore
astratto, peraltro; ma “un propagandista individuale„ appassionato, un
ragionatore infaticabile, capace di “lavorare„ un amico renitente per
un anno di seguito, tutti i giorni, con la tenacia d'un missionario;
e buon lavoratore con questo, sobrio per istinto e per proposito,
tanto da privarsi del vino e del tabacco per dare il suo obolo alla
causa e per comperare opuscoli, giornali e anche ritratti e calendari
socialisti, di cui tappezzava le pareti della sua camera. Buono e
semplice, in fondo, e arguto: canzonatore benevolo della borghesia;
rallegrato da una sua idea fissa, che era di turbare i sonni al
Prefetto, di esser vigilato continuamente dalle Autorità, delle quali
soleva parlare con un tono comicissimo di compatimento, come se ogni
giorno sventasse qualche loro trama e facesse loro qualche bel tiro;
e prendeva in fatti per ogni suo atto più innocente ogni specie di
precauzioni sopraffini e superflue, sorridendo maliziosamente nella sua
grossa barba.
Appena salito, prese a discorrere con me, a bassa voce, ma con viva
soddisfazione, del movimento elettorale, che s'avviava bene. Gli
scappò una sola frase a voce alta: — Torino si scuote. — Il cavaliere
Bicchierino la sentì, e, alzati gli occhi dalla _Gazzetta_, lo guardò
un momento con un'espressione di grande stupore. Egli continuò a
discorrere; altri salirono. A un certo punto, guardandomi intorno, vidi
dall'altro lato della piattaforma gli occhiali e il pizzo grigio di
quel tal mio nemico misterioso, che quando mi vedeva da una parte del
tranvai saliva dall'altra. Egli guardava me e il mio conlocutore con
due occhi così dilatati e sporgenti, tirando rapidamente fra l'uno e
l'altro dei tratti di congiunzione così vigorosi, e con un'espressione
di sdegno così viva, che la verità mi si scoperse come al chiarore d'un
lampo. Era il socialista ch'egli odiava! E mi balenò nello stesso punto
un vago sospetto che fosse lui l'autore d'una lettera anonima che avevo
ricevuto il giorno dopo dell'assassinio del povero Carnot, intestata
col vocativo: — _degno amico di Caserio_....
Ed io che avevo fatto il disegno di conquistarlo! Indovinata la causa
dell'orrore che gli destavo, non c'era proprio da far altro che un
atto di mesta rassegnazione. Ma, insomma, il mistero era svelato; avevo
fatto nel mio piccolo mondo del tranvai la prima scoperta importante;
e poi.... chi sa mai! Intanto gli affibbiai nelle mie note il nome di
Guyot, il mangia-socialisti francese, per mio comodo.


CAPITOLO TERZO.

Marzo.
Per molta gente, che esce poco di casa e che per pigrizia o per età
o per incomodi non si serve più delle gambe, il tranvai è diventato
il solo mezzo di comunicazione col mondo, l'ultimo ponte mobile che
li unisce ancora alla città in cui vivono solitari. Costoro fanno
sul tranvai le loro passeggiate igieniche di “andata e ritorno„ o “il
giro di circonvallazione„ come lo chiamano, per pigliare una boccata
d'aria; sul tranvai cercano i piaceri della conversazione, fanno nuove
conoscenze, raccolgono notizie, rivedono qualche volta gli amici, e
quando rincasano, non parlano che della gente e dei piccoli casi veduti
nelle loro corse, come se per essi non ci fosse più altra società
fuori di quella che corre dalle sette e mezzo della mattina alle dieci
della sera sulla gran rete di ferro della Società belga e della Società
torinese. Posso dire d'aver fatto parte di questa famiglia per tutto
il tempo che impiegai a mettere insieme il mio libro. Anche stando in
casa, cercavo il più sovente col pensiero le persone che solevo trovare
sui tranvai, a ogni passaggio di carrozzone sotto le mie finestre mi
balzavano davanti le loro immagini, e ogni mia curiosità, quand'uscivo,
si volgeva a chi avrei incontrato, a che sarebbe accaduto, a che avrei
scoperto quel giorno nelle mie scarrozzate. Il tranvai era diventato
per me quello che è per certi vecchi pensionati il caffè, dov'essi
vanno a interrogare l'opinione pubblica intorno agli avvenimenti del
giorno. E la mattina del due di marzo, riavutomi appena dallo sgomento
delle prime notizie d'Abba Garima, corsi al mio caffè ambulante per
osservarvi gli effetti dell'avvenimento terribile.
Capitai nel carrozzone di Carlin, sulla linea del Martinetto. C'eran
seduti dentro sei o sette signori accigliati, tutti col giornale
in mano, che non si guardavano, come se ciascuno avesse temuto di
legger sul viso degli altri qualche notizia peggiore di quelle che
aveva lette stampate; e mostravan tutti, oltre al dolore, un'amarezza
sdegnosa, un'irritazione sorda, che mi pareva il rimorso e la vergogna
della credulità stupida, degli entusiasmi bamboleschi con cui s'erano
prestati per tanto tempo all'enorme inganno sanguinoso, dal quale
uscivan bruscamente quella mattina, come da un sogno di briachi. Tutti
tacevano: il carrozzone pareva un gabinetto di lettura d'ipocondriaci.
Il solo Carlin era agitato. Quando venne da me sulla piattaforma, con
la sua faccia zanardelliana più secca del solito, strappò lo scontrino
dal libretto con un gesto nervoso, dicendo: — Inzipiensa! Inzipiensa!
—; una parola imparata dai giornali, senza dubbio. — Cosa s'ha da dire
d'un _assortimento_ compagno? — Finalmente appariva chiara, pur troppo,
la bestialità commessa, di non aver preso il nemico tra due fuochi,
quando s'era ancora in tempo! Ma cercava di consolarsi, affermando
(di scienza propria, poichè notizie al proposito non n'erano ancora
arrivate) che le nostre artiglierie avevano fatto una strage inaudita;
e poi aveva gran fiducia nel maggior Prestinari, e aspettava miracoli
dal Baldissera, che avrebbe “spazzato tutto„. Invitto Carlin! Tutta
la sua lunga persona spolpata fremeva guerra e vendetta. Egli voleva
mandar laggiù cento mila uomini, duecento mila, quattrocento mila, e
fino all'ultimo cannone dei nostri arsenali, pur di aver con quella
canaglia di negri _l'ultima parola_. E dicendo questo continuava a
staccar gli scontrini vigorosamente, come se ad ogni strappo avesse
portato via un brandello della pelle del Negus.
Per alcuni giorni non ebbi altro oggetto d'osservazione che lui.
Scopersi che non era soltanto un africanista ardente e un curioso della
scienza; ma un osservatore dei suoi simili. Essendo in servizio da
molti anni, conosceva su tutte le linee un gran numero di persone, di
cui sapeva a che ora e dove salivano e a che punto scendevano, e sulla
condizione e sugli affari loro, ignorando chi fossero, almanaccava
con la fantasia, osservandoli con occhio scrutatore. E si capiva che
quel continuo salire e scendere di gente conosciuta e sconosciuta e
quei mille frammenti di discorsi che raccattava lungo il giorno lo
divertivano. Un giorno me lo disse: — Se si guadagnasse un po' di
più e si faticasse un po' meno, questa _professione_ sarebbe di mio
gusto. — Era uno di quegli uomini d'immaginazione viva e curiosa,
pei quali lo spettacolo del mondo è un godimento. A ogni discorso
che sentisse, su qualunque argomento, di persone che gli paressero
colte, tendeva l'orecchio e l'arco dell'intelligenza; raccoglieva
frasi, bocconi di notizie e mezze idee; le rimasticava in silenzio,
e poi le smaltiva storpiate, impasticciate, trasformate nei modi più
strani ai colleghi e ai passeggieri di condizione umile, mostrando di
sapere assai più di quanto diceva, come un uomo che vivesse in una
sfera intellettuale superiore al proprio stato. Sempre serio, con
la fronte corrugata; soltanto quando entrava nel carrozzone qualche
donna equivoca vistosamente elegante, socchiudeva un occhio e sporgeva
le labbra in modo lepidissimo, dandosi l'aria d'un conoscitor fine e
profondo del genere. Per attaccar discorso buttava là una parola, come
un amo nell'acqua, non rivolgendosi direttamente ad alcuno, e se un
passeggiere mordeva, egli scioglieva la lingua, se no, non aggiungeva
altro, aspettando miglior occasione; oppure cercava un'entratura
nominando a bassa voce le persone che salivano. — Quello lì è il
segretario capo del municipio, quello che fa tutto: gran testa. —
Quella è la signora Valdata, la prima donna del teatro piemontese, che
sale ogni domenica a quest'ora, per andare al _Rossini_, alla recita
diurna. — Questo è il cavalier Benotti, veterano del quarantotto, che
va al caffè Londra.... col cane.
Era questi uno dei frequentatori della linea; l'avevo visto salir molte
volte al numero 43 dì via Garibaldi; portava sempre all'occhiello
il nastrino della medaglia commemorativa. Aveva settant'otto anni,
e coglieva tutte le occasioni per far sapere la sua età, di cui
era altero. Quando saliva, si scusava della lentezza, dicendo:
— A settantott'anni non si può esser lesti.... — Quando i vicini
sorridevano dell'atto con cui afferrava a due mani la colonnina a un
sobbalzo del carrozzone, sorrideva egli pure e diceva: — Eh, non si
scherza mica; son settantotto suonati.... — Era un vecchietto pulito
e cortese, al quale un principio di rimbambimento dava un aspetto di
grande bontà; sorridente a tutti, in specie ai bambini, a cui carezzava
la guancia con la punta d'un dito, quando si trovavano col viso davanti
al suo, stando in braccio alla mamma; espansivo, bisognoso tanto di
discorrere, che qualche volta parlava da sè, scotendo il capo in atto
d'approvazione continua. Era curvo; ma si drizzava di tratto in tratto,
come se gli scattasse dentro una molla, alzando la fronte e guardando
fieramente davanti a sè, riscosso forse all'improvviso da qualche
ricordo delle antiche battaglie; per pochi momenti, però; poi ricascava
nell'atteggiamento solito, come se la molla si spezzasse, e rifaceva il
viso ilare e ossequioso. Aveva un piccolo cane che chiamava Ciuchetto,
un volpino giallognolo con la coda arricciata, il quale accompagnava
continuamente il tranvai, trottando accanto alla piattaforma e alzando
ogni momento il muso a guardarlo; ed egli guardava lui, per lunghi
tratti, sorridendogli amorevolmente, e lo cercava con occhio inquieto,
voltandosi a destra e a sinistra, ogni volta che il passaggio d'una
carrozza o d'un carro glielo nascondeva. E si capiva che quel cane
era per lui un amico, una consolazione della vita, la sola compagnia
ch'egli avesse durante le lunghe giornate in cui il cattivo tempo o
gl'incomodi dell'età lo tenevano rinchiuso in casa. Era anche un po'
sordo il vecchietto; ma tanto più cortese per questo, che acconsentiva
spesso col capo, sorridendo, a persone che non parlavano con lui, e
prolungava l'atto approvatorio anche quando non parlavano più, con
un'aria d'attenzione profonda. E fu appunto uno di questi casi, di
cui altri risero, che mi fece scrivere il suo nome, per impulso di
simpatia, nell'elenco dei miei personaggi....
*
Il marzo, peraltro, non s'annunziava bene; pareva che il disastro
d'Abba Garima avesse disperso tutti i miei conoscenti; passavano i
giorni, e su nessuna delle tre linee ch'ero solito di percorrere,
anche percorrendole in ore insolite, non m'imbattevo più in alcuno di
loro, nè mi si offrivano altre persone o casi che mettesse conto di
registrare. Ahimè, mancava la materia! E mi prese un dubbio triste:
d'aver fondato il mio edifizio sopra un'illusione; che la realtà
non bastasse a sorreggerlo; che senza lavorar di mio, ossia, senza
fabbricarlo diversamente affatto da come l'avevo immaginato, non lo
avrei potuto compiere; e di giorno in giorno volgendosi il dubbio in
certezza, stavo per rinunciare un'altra volta, tristemente scoraggiato,
al mio proposito....
Furono quei due benedetti amanti di borgo San Donato che mi fecero
riprendere la penna. Li trovai una mattina alla prima corsa sul
tranvai del Martinetto, salendo in piazza Statuto. Era la prima volta
che vedevo la ragazza venir dal sobborgo con lui, solito di salire
all'angolo di via Siccardi. Stavan seduti l'uno accanto all'altro,
vicino all'uscio anteriore. Al primo sguardo vidi un mutamento in
tutti e due; in lei più notevole. Aveva un cappellino nuovo, un
vestito che non le avevo mai visto, e non so che di più sereno nel
viso, di più dolce negli occhi, un atteggiamento come di dignità
nuova, un'espressione vaga quasi di appagamento della coscienza.
Tutt'e due parlavan più liberamente, si sorridevano più spesso, con
un'aria di sicurezza, che per l'addietro non mostravano. Avrei dovuto
capir subito; ma non capii che dopo qualche minuto d'osservazione.
S'erano sposati. Non c'era dubbio. Guardai la mano destra di lei:
ci vidi l'anello. Ebbene.... n'ebbi un vivo piacere. Poveri ragazzi!
Eran dunque contenti. Chi sa con quante privazioni avevano raccolto a
soldo a soldo quel po' di fondo per metter su il loro quartierino in
via San Donato! Poichè era certo che stavano lì e che dovevano avere
una sola camera, con una nicchia di cucina, se pur non serviva di
cucina il caminetto. Guardandoli, vedevo quella camera al terzo piano,
mobiliata appena dello stretto necessario, con un vaso di fiori alla
finestra, con un piccolo lume a petrolio sopra un piccolo tavolo, dove
essa cuciva la sera, e lui, forse, faceva qualche lavoro straordinario
di copiatura, dopo aver cenato con un po' d'insalata; e immaginavo
la loro vita, nella quale eran contati i minuti e i centesimi, dette
ogni giorno, in quei dati momenti, quelle medesime parole, letto per
dei mesi uno stesso libro, una pagina per volta, vagheggiata per due
settimane una serata in seconda galleria al teatro Alfieri; e in quella
vita povera e oscura indovinavo un pensiero comune, l'aspettazione d'un
essere desiderato, allietata dalla speranza d'una grazia della natura,
d'un essere diverso da loro, florido e bello, che avrebbe portato fra
quelle quattro povere pareti luce, allegrezza, alterezza, coraggio. Sì,
certo, quel tenue chiarore che traspariva dal viso di quella donnina
di nulla, consapevole della propria bruttezza e rassegnata al posto
umilissimo che le aveva dato il destino nel mondo, era quella speranza,
l'intimo albore della maternità, già biancheggiante nell'anima, prima
che l'astro esistesse; il piccolo essere, forse non ancora concepito
che nel pensiero, era già amato e accarezzato; essa vedeva già la forma
indefinita, qualche cosa di bianco e di roseo, movere per la piccola
camera, agitarsi accanto a lei nel tranvai, drizzarsi sulle ginocchia
del giovane che le sedeva di fronte. Come al solito, essa s'alzò per
discendere in piazza Castello: continuava dunque a andare al lavoro.
Povera donnina! Nell'alzarsi fece un atto insolitamente vivace, e
quanta grazia si poteva mostrare in quel piccolo corpo così poco
femmineo vi si mostrò in quell'atto, che era tutto per il suo sposo, si
capiva. Quando fu a terra, aspettando che il tranvai passasse, gli fece
un saluto con la mano, sorridendo. Era la prima volta che faceva così:
un saluto di moglie a marito. Fu per me come un annunzio indiretto di
matrimonio.
*
E subito, il giorno dopo, come se con quei due mi si fosse aperto un
buon periodo, scopersi un'altra coppia, della quale era destinato
che mi dovessi occupare curiosamente per tutto il corso dell'anno.
Erano le quattro dopo mezzogiorno, quando salì sul tranvai della
linea Vinzaglio, in via Garibaldi, una signora sui trent'anni,
bruna e bellina, vestita con garbo, un po' timida, con due occhi
chiarissimi e un bocchino di bimba; la quale, appena seduta dentro,
in un angolo, girò sui presenti uno sguardo rapido, con una leggera
espressione d'inquietudine, che immediatamente disparve. Era una di
quelle figure di cui si suol dire al primo vederle: — Ecco una donna
onesta. — Aveva un cappellino nero guernito di mazzetti di viole, che
tornavano mirabilmente al suo visetto bianco e modesto di fanciulla.
Dopo quella prima occhiata non guardò più nessuno, e parve che si
raccogliesse nell'osservazione delle scarpette d'un bambino che teneva
sulle ginocchia una donna seduta dall'altra parte. Quando il tranvai
arrivò allo sbocco di via Roma in piazza Castello, dove s'aggruppano
i giovani eleganti per veder sfilare le passeggiatrici dei portici,
salì senza far fermare un bel capitano di fanteria, alto e snello, con
un berretto nuovo fiammante e i guanti bianchi freschissimi, entrò e
sedette dì fronte a lei. Si guardarono di sfuggita, e poi voltarono
tutt'e due il capo dalle parti opposte, l'uno verso il marciapiede di
destra, l'altra verso quello di sinistra. Che imprudenza! Se si fossero
salutati e messi a discorrere, non avrebbero forse destato alcun
sospetto. Ma quello scambio d'occhiate indifferenti e quello sguardo
rivolto intorno da tutti e due insieme come per assicurarsi che nessuno
avesse notato il loro incontro, li tradirono. E li tradì anche più un
rossore leggerissimo che salì alle guance di lei, nonostante lo sforzo
ch'ella fece per rattenerlo, accusato dal movimento del suo petto. Il
rossore svanì in un attimo; ma rimase visibile il suo turbamento, un
non saper che fare dei propri occhi, la coscienza d'essere osservata
dai passeggeri, e come un sospetto pauroso della strada, alla quale
lanciava ogni tanto, con simulata distrazione, degli sguardi furtivi,
che percorrevano un tratto dei marciapiedi. Quel convegno sul tranvai
doveva essere il primo, una concessione di compenso fatta da lei dopo
aver rifiutato un convegno altrove. Fra quattro pareti, doveva aver
detto, ma di legno e di cristallo, per ora. E chi sa per quante altre
coppie il tranvai è un'anticamera! E chi sa perchè mi si piantò nel
capo l'idea che quella signora fosse la moglie d'un impiegato delle
Poste! Forse per una vaga rassomiglianza di visi, o per qualche ricordo
nascosto nella mia mente. Il fatto è che il viso di suo marito mi si
presentò inquadrato in uno sportello delle lettere raccomandate, e mi
restò davanti in quella cornice così fermo e netto, come se ce l'avessi
veduto davvero. E n'ebbi pietà al pensare che in quel momento, forse,
a poca distanza di là, egli stava tastando con le dita una lettera,
per assicurarsi che fossero saldi i suggelli. Ah, non c'è nulla di
saldo a questo mondo, povero travet: tutto è fragile come la ceralacca
e passeggiero come una lettera. Ma pensai a un punto che non sarebbe
trascorso lungo tempo prima che la traditrice dello sportello fosse
punita, perchè gli occhi scintillanti del capitano, mobilissimi e
sorridenti come quelli d'un fanciullo, che si chinavano ogni momento
sui galloni della manica o si fissavano sul vetro del finestrino
in cui brillava il riflesso argenteo del berretto nuovo, non davano
indizio d'una grande profondità di passione. E già incominciavano per
lei i piccoli affanni dell'amor criminale. A ogni persona che saliva
sulla piattaforma, il suo sguardo correva a cercar chi fosse; ad ogni
passeggiere che entrava, il suo viso si rimbruniva, scemando in lei
la speranza di rimaner sola un minuto con lui; e ogni volta che uno
sguardo scrutatore la fissava, i suoi occhi eran costretti a rifugiarsi
tra le scarpette del bimbo che le sedeva di faccia. Ah, signora: la
camera di legno e di cristallo preserva la virtù dalla gran caduta, è
vero; ma è pure una gran camera di tortura. Intanto, i loro sguardi
s'incontravano di tratto in tratto, e dalla fiamma morente sotto le
palpebre di lei, che si abbassavano subito, si capiva che il destino
dell'uomo dello sportello era deciso. Ahimè, sì, la Società Belga
avrebbe guadagnato ancora qualche soldo da tutti e due, e poi i suoi
carrozzoni sarebbero riusciti insufficienti: si sa, per dieci centesimi
non si può dar tutto. Quando discesi in piazza Carlo Felice non
rimanevano più sul tranvai che cinque o sei persone. Mi parve che il
capitano dicesse tra sè: — Un importuno di meno, — ed io gli risposi in
cuor mio: — Due personaggi di più.
*
A questo punto, poco mancò ch'io non mettessi da parte tutti i miei
personaggi per dar corpo a una nuova idea che mi venne percorrendo
per la prima volta tutta la linea da piazza Emanuele Filiberto al
corso del Valentino: la descrizione di tante corse a traverso a
Torino quante sono le linee di tranvai che l'abbracciano; una _Guida_,
sì, una modestissima _Guida_, ma scritta con amor di figliuolo e di
poeta, nella quale si succedessero di volo i quartieri, i monumenti,
le memorie, le colline, le montagne, nella luce e nei colori diversi
di ogni ora e di ogni stagione, come si succedono, fuggendo, allo
sguardo di chi sta sul tranvai, portato via dai cavalli a trotto
rapidissimo. Cedo l'idea a chi la vuole. Sarebbe stata la prima la
linea del Valentino, la più serpeggiante e la più varia di tutte,
che par stata tracciata, con diversità ed armonia d'intenti ad un
tempo, da uno storico e da un artista. Si parte di mezzo ai banchi
e alle baracche pittoresche del mercato di Porta Palazzo, e dopo un
breve corso per quel grande viale Margherita, che dalla riva del Po
par che giunga ai piedi delle Alpi, s'entra nella quiete ombrosa
della via della Consolata, dove si succedono a breve distanza gli
avanzi infossati delle mura romane, la statua aerea consacrata dal
Consiglio civico del 1835 alla Vergine scongiuratrice del coléra,
e l'obelisco mortuario del Foro ecclesiastico, sorgente in mezzo a
quella malinconica piazza Savoia, che par che lo guardi in aria di
pentimento e di rimprovero. Rotta l'onda rumorosa di via Garibaldi,
si fiancheggia il vasto giardino della Cittadella, vedendo da lontano
Angelo Brofferio che arringa le balie e i bambini ruzzanti in mezzo
agli alberi e intorno alla fontana, si passa fra la statua del buon
ministro Cassinis e la testa solitaria del giornalista Borella, ed ecco
la bella via Cernaia, dove squillarono le trombe dei primi francesi
nel '59 e la grande caserma merlata del Lamarmora, e il vecchio mastio
coronato di guardiole, e il Micca di bronzo che brandisce la miccia,
e di qua e di là portici e giardini e fughe d'ippocastani e colori
ridenti di città giovanile. Svolta il carrozzone nell'ariosa e romita
piazza Venezia, riesce per via Alfieri dietro al gran cavallo morente
del duca di Genova in mezzo ai palazzi multicolori di piazza Solferino,
passa accanto al Lafarina pensieroso, corre lungo l'Arsenale fumante e
sonoro, e aperta la folla chiassosa delle scolaresche di via Oporto,
e salutato in piazza San Quintino il vecchio Paleocapa sonnecchiante
sulla sua poltrona di marmo, sbocca nell'allegra ampiezza di corso
Vittorio Emanuele. Un po' più oltre, a sinistra, Massimo d'Azeglio
disegna il suo bel capo d'artista sul gran pennacchio bianco della
fontana, dietro al quale nereggia in lontananza il piccolo pennacchio
nero di Emanuele Filiberto, e davanti, in fondo al corso, lontanissimo,
biancheggia confusamente il monumento dei morti in Crimea sul fondo
scuro delle colline di Val Salice. Si svolta ancora in via Nizza fra
il moto affrettato di gente e di carri che rumoreggia intorno alla
stazione di Porta Nuova, si svolta da capo nella piazza dove _fu
giurata_ nel '21 _la libertà d'Italia_, e per il largo viale che va
diritto al fiume si arriva finalmente dinanzi al superbo castello di
Maria Cristina, donde gli occhi e lo spirito affaticati dalla visione
di tante cose e dal passaggio di tante memorie, si riposano nella
solitudine silenziosa del parco del Valentino e sulla grande linea dei
colli ondeggiante dalla cima della Maddalena alla vetta di Superga con
una grazia lenta e leggera che par che sorrida.
*
Se per tornare a casa di là non avessi preso a caso la linea di Borgo
Nuovo, forse oggi ancora non saprei nulla d'uno dei personaggi più
originali e più simpatici della mia compagnia. Fu una buona ispirazione
che mi fece salire sul tranvai che parte dall'Orto botanico. Ed è
quella pure, sotto l'aspetto storico, una delle linee più belle.
Usciti dal grande viale del parco e percorso un tratto del corso
Cairoli fino a pochi passi dalla statua di Garibaldi, che, ritto sullo
scoglio, par che fissi lo sguardo sulla fiumana delle sue camicie
rosse irrompente verso di lui per la via dei Mille, si svolta in
via Giuseppe Mazzini. Quante memorie, non istoriche, mi s'affollano
alla mente passando davanti agli sbocchi di quelle vie laterali per
cui si vedevano un giorno i famosi _giardini dei ripari_, dove tanti
amori sospirarono e si preparò il fallimento di tanti esami! Certo,
ingombravano bruttamente la città quegli alti terrapieni a zig zag che
tagliavano le vie come bastioni di fortezza; ma avevo vent'anni. Ah!
fortuna che il tranvai va di volo! Ecco la porta della tomba del caffè
Perla, dove, giovinetto, andavo a sorbir timidamente un moka apocrifo
per contemplare di sott'occhio gli emigrati illustri e i giornalisti
celebri della capitale. Ecco laggiù in fondo il conte Cavour, ritto in
mezzo a piazza Carlina come un lungo fantasma bianco che si levi al
cielo da un catafalco. Ecco qua il Lamarmora a cavallo che minaccia
con la sciabola in pugno i socialisti accorrenti per piazza Bodoni
al Comizio del vicino teatro Nazionale, convertito da palestra delle
Muse in tempio malfamato dell'utopia vermiglia. Si svolta di corsa
in via Lagrange, si passa dinanzi alle case dove il Gioberti mise il
primo vagito e il conte Cavour l'ultimo sospiro, si sbocca in piazza
Carignano dove tremano ancora nell'aria, fra il palazzo del parlamento
e il teatro, le grida amorose di Adelaide Ristori e le apostrofi
tonanti d'Angelo Brofferio, e poco più in là si vede riflesso il
tranvai nelle vetrate del vecchio Cambio, la trattoria elegante dei
ministri e dei deputati della Mecca antica. Ah, come sono antico io
pure! E per liberarmi da questo pensiero mi volto a destra; ma torno
a voltarmi subito dalla parte di prima per non vedere la libreria
dell'editore di Pietro Cossa, di quel benedetto Casanova eternamente
biondo, che può esser là dietro ai vetri a mettermi invidia e dispetto
con la sua gioventù invulnerabile....
*
Fu, come dissi, una buona ispirazione la mia di pigliar quella linea
perchè arrivai in tempo per l'appunto a salire in piazza Castello
sul tranvai del Martinetto, nel quale, stando sulla piattaforma di
dietro, vidi seduta in mezzo ad altre signore la mia brava incognita
dai capelli arruffati, la sfidatrice del fumatore, col suo inseparabile
bambino sulle ginocchia; e mi riuscì poco dopo, per caso, di sapere chi
fosse. Mentre, come al solito, lavoravo d'immaginazione sull'essere
suo, vidi alla cantonata di via XX Settembre, dopo più d'un mese che
non lo vedevo, quel simpaticone di pittore, che stava osservando gli
stivaletti d'una signora che passava; lo chiamai e gli feci un cenno
premuroso perchè salisse. Conosceva mezza Torino, mi poteva forse levar
la curiosità. Salì d'un salto. Gli accennai la signora.
— Come? — mi domandò. — Lei non conosce donna Chisciotta della Mancia?
Accortasi che parlavamo di lei, la signora ci fissò in faccia un
momento i suoi grandi occhi oscuri e sporgenti; ma con espressione di
assoluta indifferenza; si capiva che era abituata a “veder„ parlare di
sè.
Tutta Torino la conosce, — riprese il giovane. E la nominò. Donna
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