La Carrozza di tutti - 18

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la scoperta d'una nuova famiglia d'originali: gli sbeffatori della
villeggiatura e dei villeggianti: cittadini che, trovandosi bene a
Torino anche nel cuor dell'estate e preferendo il _Caffè romano_ e
le corse serali in tranvai a tutte le delizie campestri, si burlano
di tutti quegli imbecilli, i quali, per ubbìe igieniche o per
ostentazione di signoria, rinunciano a tutti i comodi della città e
si vanno a rintanare in bicicocche solitarie, anche in rasa pianura,
dove arrostiscono dal caldo e cascano a pezzi dalla noia. Giorni fa
era un grosso signore sbracato che canzonava con molt'arguzia certe
famiglie, le quali dalla villa tempestano di lettere supplichevoli gli
amici lontani perchè vadano a sbattere con una visita la malinconia
mortale delle loro giornate, e quando uno ce ne casca, lo accolgono
con tale espansione di gratitudine da moverlo a compassione della
loro esistenza. Avantieri era un impiegatuccio rinfichito che si
rallegrava della stagione pessima pensando ai villeggianti di montagna,
i quali, sorpresi dal freddo precoce, condannati alla reclusione
dalla pioggia, devono covare il fuoco come in gennaio, per giornate
eterne, sospirando amaramente Torino, rabbiosi di non aver il coraggio
di ritornarvi. E ieri sera, da un vecchietto elegante, con la bocca
tutta da una parte, intesi mettere in burletta una famiglia che, per
la vanità di farsi credere in campagna, tien tutte le persiane chiuse
e non esce che di notte, menando una vita miseranda e vergognosa di
malfattori braccati dalla polizia. Non tutti, peraltro, sentono il
bisogno feroce di condire il proprio piacere con rimmaginazione del
dispetto altrui. Trovo sul tranvai delle facce ilari di giubilati
che si godono l'estate con tutti i sensi, nuotando voluttuosamente
nel caldo addormentatore dei loro incomodi, contenti della città meno
affollata e meno rumorosa, e delle giornate lunghe che dimezzano il
tormento dell'insonnia, riavuti dal sole come le biscie. Fra questi è
il mio buon veterano, il quale, uscendo una mattina dal suo numero 43,
sale sulla giardiniera di via Garibaldi con Ciuchetto fra le braccia,
e mi rivolge la parola amichevolmente, con quell'effusione allegra e
verbosa che dà ai vecchi il sentimento insolito della piena salute. E
sta bene davvero, e sarebbe pienamente felice se il suo piccolo amico
non avesse avuto una zampa sciupata dalla ruota d'un carretto; per
cui da una settimana egli è costretto a portarlo in braccio a “prender
aria.„ Povero vecchietto! Sentendosi forte, ha fatto uno sproposito:
una gita ai laghi d'Avigliana, con biglietto d'andata e ritorno, tutto
solo, e ne è tornato soddisfatto, niente stanco. E poi è contento
dei “grandi onori„ con cui è stato ricevuto da Makonnen il Nerazzini,
_uomo di testa_, che dà a sperar bene dei negoziati, ed esprime tutta
la sua gioia di devoto monarchico per il matrimonio del principe di
Napoli, e una tenerezza paternamente ammirativa per la principessa; —
_bella persona, bella persona_. Parla di questo matrimonio come d'un
avvenimento ch'egli avesse bisogno di vedere per viver tranquilli
i suoi ultimi giorni e chiudere gli occhi in pace. — Se mi guarisse
presto questo qui! — dice poi, accarezzando il cane, che mugola dalla
gratitudine e tira a leccargli il viso. — Creda, è stato un _dispiasì
gross_. È l'ultimo amico del povero vecchio. Già, non si scherza: son
settantotto e mezzo, sa lei? Del resto, non mi lamento. Digerisco bene
da un tempo in qua, e non tutti, all'età mia, possono dire altrettanto.
Giusto, ci ho un vecchio camerata, che non sta punto bene. Vado ora a
trovarlo. Questo tranvai mi porta proprio sull'uscio. Gran comodità,
non è vero? Con queste belle giornate, in special modo. Lei scende
già? Ah no, badi; non scenda fin che sia fermo. _Si ha un bell'esser
giovani_, una disgrazia è presto accaduta. Così, grazie, e altrettanto.
Buona passeggiata. _Cerea._ — È felice! O anima umana, mal paga del
mondo, assetata dell'Infinito, e contenta di così poco!
*
Faccio un'altra scoperta, di natura opposta alla precedente e ristretta
al solo bel sesso: quella d'uno stato d'animo che si potrebbe definire:
la _musoneria settembrina_. Vedo sui tranvai molti visi di signore e
di signorine di cattivo umore, come tormentate da un dispetto sordo
e immobile, che traspare dagli occhi fissi e guizza sulle labbra
strette; e ne leggo la cagione nelle occhiate oblique che, al passar
vicino alle stazioni, lanciano sulle signore in abito da viaggio, a
piedi e in carrozza, che vanno dal lato della partenza, con un gran
corredo di cappelliere e di borse. Ah, esse non appartengono, no, alla
famiglia degli sbeffatori della campagna. Sono mogli e figliuole di
poveri borghesi, ai quali la professione o la borsa vietano le dolcezze
del “silenzio verde„, sono condannate e non rassegnate al domicilio
coatto cittadino, rabbiose contro Torino, e contro la schiavitù o la
pitoccheria coniugale o paterna, e contro le amiche partite, di cui
prevedono, al ritorno, gli sguardi trionfanti e le interrogazioni
compassionevoli. Come s'indovina tutto quel che mulinano quelle piccole
teste fiorite durante le lunghe corse delle giardiniere! È il mese
dei viaggi, delle gite alpestri, delle regate sui laghi, delle feste
d'addio nelle case di bagni, delle chiassose scarrozzate da villa a
villa, rallegrate d'incontri inattesi e d'ardite galanterie e di dolci
colloqui nell'ombra e d'una gioconda libertà spensierata che la città
coi suoi mille occhi aperti e la casa con le sue mille piccole cure
non consentono. Tutte queste visioni danzano davanti a quegli occhi
socchiusi che guardan lontano, al di sopra delle teste ciondolanti dei
cavalli, in fondo ai viali lunghissimi e bianchi, l'orizzonte velato
dai vapori estivi. E dietro a quelle fronti accigliate si preparano
intanto le allusioni amare, le satire coperte, le rampogne, che
ricadranno all'ora di desinare e di dormire, in suono di lamento o di
condanna, sulle spalle d'un infelicissimo, ridotto ad aver paura della
tavola e del letto come di due macchine di tortura. In verità, vedo dei
bei visetti in cui la musoneria settembrina è così dura e provocante
che, quando salgono o scendono, mi scanso con timore, come si fa con
quegli spadaccini attaccalite che cercano un pretesto per bucar la
pelle al primo venuto. E sono alle volte molte insieme, son giardiniere
cariche di rancori coniugali, di polvere da guerra domestica, nelle
quali mi piglia un malessere come a viaggiare in un treno che porti
delle sostanze esplosive. E toccano anche a me degli sguardi ostili
che dicono: — Devi essere anche tu uno di quei mariti aguzzini che
fanno spasimar la moglie in città nel mese di settembre; — e se mi par
qualche volta che uno di quegli sguardi s'addolcisca incontrando il
mio, la mia vanità è castigata subito da uno sbadiglio mal frenato, che
mi dice in faccia: — Ooooh.... non s'illuda; mi secca anche lei.
*
Eppure, anche sul tranvai, aiutandosi un po' con la fantasia, si può
goder la campagna. Io ci fo delle escursioni piacevolissime. Percorsi
per la prima volta tutta la linea della barriera di Lanzo, e fu per
me un vero viaggio di scoperta: l'osservatore s'ingrandisce il mondo.
Passato il ponte sulla Dora e svoltato da via Ponte Mosca sul largo
corso Emilia, si sente come il piacere dell'uscir da una folla: il
respiro, lo sguardo, il pensiero più libero, un rasserenamento dello
spirito che mette voglia di cantare. Attraversata la strada ferrata
di Lanzo, non par più di essere a Torino. La città, a poco a poco,
si traveste di gran signora in borghesuccia di campagna, spianando la
fronte e prendendo un aspetto placido e ingenuo. Le case diradate si
parano di lenzuola e di pezze di bimbi, come per il passaggio d'una
processione; le botteghe sporgon fuori le insegne di cent'anni fa; le
piazzette si congiungono con gli orti, le vie laterali si stringono in
viottole che si perdono nel verde ai campi, e si va fra lunghi muri
di cinta d'officine e di ville solitarie, fra assiti di giochi di
bocce e larghi fossi, dove corre l'acqua fino agli orli, cantando la
ninna nanna alla via che sonnecchia. Poi appaiono i primi terrazzini
di legno, con le scale di fuori, le prime aie, i primi usci a cui
è attaccata l'immagine d'un Santo da un lato e dall'altro un avviso
della Prefettura; e qua e là vacche pascolanti, bimbi arsi dal sole e
donne coi piedi scalzi; e in ogni parte una quiete, un silenzio, che
il rumor del tranvai, dov'è con me un solo passeggiere addormentato,
vi echeggia ed empie l'aria come lo strepito d'una corriera in
un villaggio deserto. E là veggo scritto sopra un usciolo chiuso:
_Teatro Gianduja_, e trovo degli annunzi in stampatello d'altri teatri
sconosciuti: _Teatro della barriera di Lanzo, Teatro Manzoni_; nel
quale si rappresenta _Kean, sublime capolavoro di Alessandro Dumas_.
O che malinconia è questa che mi salta addosso tutt'a un tratto di
venirmi a chiudere in una di quelle piccole case dormenti, pure sapendo
che ci vivrei di tristezza, anzi appunto per viverci così, per sentir
più profondamente la solitudine sul confine della città rumorosa?
Tentazioni nere di soldato imbelle della vita! Ma questi pensieri volan
via alla barriera, dove la piccola stazione della Madonna di Campagna,
il sobborgo arioso che mi s'apre di fronte, e il via vai delle guardie
daziarie, dei carrettieri e delle donne in mezzo ai carri e ai banchi
di frutta e sull'alto cavalcavia della strada ferrata, mettono una
vita, una gaiezza di movimento cittadino e di lavoro campestre, che
m'entra nell'animo. Discendo per aspettare che si riparta, m'affaccio
per curiosità all'uscio d'un carrozzone senza finestre, e là dentro,
in un gruppo di fattorini e di cocchieri pasteggianti allegramente in
mezzo alla batteria dei canestri, riconosco il giovane dantista, che
sgranocchia una frittata col tegame in mano, e che, appena vedutomi, —
Oh diamine — esclama; — come mai è venuto fin qua, ai confini del mondo
abitato! Guardi, guardi che bella sala da pranzo....
e come il pan per fame si manduca.
*
Il tranvai s'era già mosso quando lo fece fermare un operaio che veniva
dalla parte di Madonna di Campagna, barcollando e brontolando, con la
testa ciondoloni. Ci mise un bel pezzo a salire e si lasciò cascare
sulla panca come un sacco. Allora soltanto riconobbi _Desbottonass_,
che si doveva essere sborniato in qualche osteriaccia dì fuor di porta,
impolverato da capo a piedi, coi capelli sulla fronte, una cicca in
bocca e la cravatta sciolta. M'accorsi subito che in quei due mesi
caldi trascorsi dopo l'ultimo nostro incontro la briachite cronica
aveva fatto in lui dei guasti terribili. Mi fissò un momento con gli
occhi imbambolati; ma non mi riconobbe. Si capiva dal modo come girava
intorno lo sguardo irritato che aveva una gran voglia di attaccar lite.
E l'occasione era bell'e pronta.
Quando il fattorino dantista sì presentò a domandargli: — Da due o
da tre! — egli stette un po' pensando, e poi bofonchiò: — _Mi voo a
la Crocetta_; — e senza dubbio s'era fissata quella meta lì per lì,
senza un determinato proposito, per quella smania che hanno i briachi
d'andar lontano, alla ventura, verso osterie sconosciute, per allargar
l'orizzonte della sbornia.
— Allora, — riprese il fattorino — da tre.
L'uomo tirò fuori lentamente un soldo dalla tasca dei calzoni e glie
lo mise nella mano; poi, dopo aver molto frugato in un'altra tasca, ne
tirò fuori un altro e lo aggiunse al primo; e punto.
— Per la Crocetta son tre — ripetè il fattorino; — ancor uno.
Quello scattò. — Ma che tre! _Questa l'è nœuva!_ E perchè tre?... _Mi
ne paghi duu.... Mi n'hoo semper pagaa duu_....
E insistendo il fattorino, egli si voltò verso un signore che aveva
accanto, e gli dimandò col viso sul viso: — _E lù, ch'el disa, quanti
ghe n'ha pagaa lù?_
Il signore rispose che n'aveva pagato due.
— _Ah! el ved donca.... e perchè lù duu e mi trii? Oh questa l'è ona
bella giustizia!_
— Ma il signore, — gli osservò il fattorino, — va soltanto fino a
piazza Carlo Felice, e fa due soldi; lei va a capo linea, e fa tre.
— Ma che capo linea! _Mi g'hoo minga ditt a capo linea!... Mi disi la
Crocetta.... Soo nanca coss'el sia el capo linea.... El regolament el
dis: — Duu!_ — e il resto son mangerìe.
E seguitò un pezzo, smozzicando le parole fra i denti e la cicca,
declamando, apostrofando ora l'uno ora l'altro dei passeggieri. Non era
chiara? Chiedevano di più per intascarli; era una camorra impiantata
per spogliare il popolo; tutti parenti di Casa Mangioni. Il fattorino
tentò ancora di persuaderlo, un po' sul serio, un po' ridendo; ma dovè
smettere per andar da altri, e passandomi accanto mi disse piano: — Ha
visto che tipo? A momenti lo piglio _per la cuticagna_; non c'è altro.
— Poi ritornò da lui e ricominciò la prova.
Ma quello non gli badava, inveiva contro un biciclista che accompagnava
da un lato la giardiniera, come un cavaliere di scorta a una carrozza,
discorrendo tranquillamente con un passeggiere suo amico, seduto
all'estremità d'una panca. Quell'accompagnamento in bicicletta, non
so perchè, pareva a _Desbottonass_ un abuso enorme, una intollerabile
mancanza di rispetto alla “compagnia„. Gridava al biciclista che se
n'andasse per i fatti suoi, che _l'era minga permess_, ch'egli non
aveva mai visto un'impertinenza simile.... Poi, tutt'a un tratto, balzò
in piedi, e appoggiandosi alla spalliera davanti come a una tribuna,
gridò ai baracconi di Porta Palazzo: — _Mi sont de l'opposizion!_ — e
ripiombò sulla panca.
Dopo un po', il fattorino ricominciò a ragionarlo, e pareva già quasi
persuaso, quando in piazza Carlo Felice, essendo salito accanto a lui
un signore che pagò due soldi per la Crocetta, egli mise un grido di
trionfo: — _Ah! el ved donca.... quest chi el và a la Crocetta e ne
paga duu.... Ma se 'l disevi!... E mi trii, eh, fiœui de cani, e mi
trii? E perchè mi trii?_
— Ma il signore è salito qui, — rispose il dantista, — e lei ha già
fatto due terzi di strada. Animo, tiri fuori il soldo; vuol obbligarmi
a chiamar le guardie? — E, ripassandomi accanto, mormorò: — _O sovra
tutte mal creata plebe!_ Veda con che razza d'animali abbiamo da fare!
— mentre che l'altro continuava a barbugliare: — _La reson l'è la
reson.... el regolament l'è el regolament_.... E ben venga la forza....
_Se se paga duu, se paga minga trii. Oh fiœu d'on todesch!_...
Come sia andata a finire non so; l'uomo tornava a dichiarar
solennemente di appartenere all'_opposizion_ quando io discesi dalla
giardiniera, rattristato d'aver ritrovato un gran tratto più giù sulla
china dell'abbrutimento quell'operaio che doveva esser stato buono,
onesto e intelligente; turbato dal pensiero che tutti gli sforzi coi
quali si combatte il vizio orribile non ne impediscano in alcun paese
l'incremento mortale; oppresso dal dubbio che ogni lotta col mostro
debba riuscire inutile, che l'umanità sia sospinta come da una condanna
fatale ad un segno, da cui l'immaginazione rifugge atterrita....
*
Son queste le linee ed è questo il mese in cui più sovente si fanno
lunghi tratti di corsa senza compagnia o con un compagno unico; nel
quale occorre spesso d'osservare l'espressione d'un sentimento curioso,
somigliante a quello che si prova in certi giardini o sale splendide
di grandi palazzi, quando vi si è soli: l'illusione fugace della
padronanza, la compiacenza immaginaria della ricchezza e del fasto. Si
vedono di questi passeggieri solitari, contenti e alteri d'esser tirati
per mezzo miglio da due cavalli che paiono correre per loro soltanto,
con un cocchiere davanti e un fattorino di dietro, che hanno l'aria
d'esser lì al loro servizio esclusivo; e si leggono sul loro viso dei
soliloqui fantastici di gran signori. Dove si potrebbe comprare per
dieci centesimi un altro così dolce diletto della fantasia? E sono
anche i tratti di strada in cui fattorini e cocchieri, liberi dal
pubblico e felici di quella breve libertà, chiacchierano, solfeggiano,
fischiano, salutano allegramente i colleghi che passano sugli altri
carrozzoni vuoti, e si lanciano a vicenda frizzi e saluti; nei quali
si manifesta quella familiarità fanciullesca che stringe tutti coloro
che hanno comuni occupazioni e noie e argomenti di riso, di lamento e
di critica, siano essi deputati o soldati o commedianti o collegiali.
Sono gli “incerti„ piacevoli, le ore di ricreazione di questi poveri
servitori di tutti; durante le quali, se gli riesce d'agguantare
qualche ascoltatore, il fattorino Carlin vuota con un gusto matto il
sacco di una intera settimana. Lo feci parlare per un pezzo in una
di queste corse solitarie, e compresi meglio che mai quale strana,
mostruosa confusione tutte quelle varie notizie di politica, di
scienza, di viaggi e di avvenimenti pubblici, ch'egli attinge giorno
per giorno dalle gazzette o dai discorsi dei passeggieri, possano
produrre nel cervello d'un uomo del popolo, in cui alla mancanza
della cultura necessaria a comprenderle e a coordinarle s'unisca un
certo ingegnaccio naturale e un'immaginazione vivace. In pochi minuti
accennò e commentò tutti i fatti principali del mese, collegandoli coi
più bizzarri ragionamenti e tirandone le più stravaganti deduzioni
che si possano immaginare. Nei terremoti dell'Islanda e di Messina,
nelle inondazioni del Ferrarese e nel ciclone di Messina egli vede
gl'indizi di qualche cosa di guasto nella macchina del mondo, i segni
coordinati d'uno sfacelo universale, che lo impensieriscono seriamente.
— Che cosa accadrà? E tutta questa gran scienza non può proprio far
nulla per prevenire quello che sta per accadere? — Poi si lancia d'un
salto nella politica con la mancanza assoluta, propria dei bambini e
degli uomini incolti, di quel pudore intellettuale che impedisce a noi
di saltar da un argomento importante ad un altro, per non mostrare
d'aver esaurito sul primo tutte le nostre idee e d'essere incapaci
d'insistere a lungo in un solo pensiero. Si è varata alla Spezia la
corazzata _Carlo Alberto_ e a Sestri l'incrociatore _Colon_, destinato
alla Spagna; dunque c'è un'alleanza della Spagna con l'Italia. Si parla
del trattato italo-tunisino: dunque una nuova triplice: l'Italia, la
Spagna e la Francia. Contro chi? E poi un altro salto. Quel Nansen che
ritorna, tanto festeggiato, a Cristiania, ha scoperto un nuovo mondo,
non è vero? Si discorre in questi giorni della scoperta dell'oro nella
Nuova Zelanda: ecco la scoperta del Nansen: un mondo pieno di tesori.
Ed ecco, forse, perchè i Sovrani russi si dirigono verso la Danimarca e
la Norvegia, che son da quelle parti: per accaparrarsi l'oro pei primi:
è chiarissima. E tirò via in questo modo, fabbricando ogni specie di
castelli informi coi materiali disparati e monchi che s'ammucchiavano
nel magazzino semioscuro della sua testa; ed io, visto che le mie
spiegazioni non facevan che accrescere il disordine dei suoi concetti,
pensavo sospirando, senza più interromperlo, che fin che le migliorate
condizioni dei lavoratori non aprano a tutti gli adulti la scuola, ci
sarà sempre nel mondo la stessa quantità d'ignoranza, o una ignoranza
idropica di idee dimezzate e confuse, nella quale è forse più difficile
d'innestare un'idea netta che nei cervelli vergini d'ogni coltura.
Maraviglioso Carlin! Il suo cervello è in uno stato permanente di
ebullizione, e ci bolle un po' d'ogni cosa; ma son pur sempre i sogni e
i propositi di guerra quelli che gli vengon su più di frequente. Altri
seicento armeni macellati a Karput! Ma quando finirà questa storia
_infama_? — Ah giuraddio! — esclama, stringendo il pugno. — Andar là
coi nostri “colossi marini„, correre tutte le rive maledette, e bum
e bum e bum, far saltare in aria e bruciare ogni cosa fin che non
resti un brandello d'un turbante sulla faccia della terra! — E detto
questo, dà di mano al suo taccuino e segna i biglietti con un viso
risoluto come se facesse il conto dei cannoni occorrenti all'impresa;
poi, rimesso il taccuino nella borsa, si pianta sulla piattaforma
con le braccia incrociate e con gli occhi fissi all'orizzonte,
nell'atteggiamento d'un ammiraglio che spia dal ponte della corazzata
le fortezze nemiche.
*
E qui mi toccò un periodo (non il primo nel corso dell'anno)
somigliante a quei numeri di giornali della stagione morta, nei quali
non si trova da cima a fondo un cencio d'articoletto o di notizia, non
una riga di cronaca, non una parola che c'importi un'acca, come se la
vita del mondo, che il foglio rispecchia, fosse sospesa. Chi non ha
esperimentato sui tranvai di questi periodi morti? Per vari giorni non
ci trovate un uomo singolare, una donna bella, un bambino attraente; vi
son tutti sconosciuti i passeggieri come se la popolazione della vostra
città si fosse barattata con quella d'un'altra; tutti frontespizi
nuovi, per uno strano caso, gl'impiegati; e nè un accidente, nè un
discorso, neppure un inconveniente di servizio, nulla assolutamente che
rompa l'uniformità delle vostre corse, come se la gioventù, l'amore
e l'allegria avessero abbandonato l'“istituzione„ vecchia decrepita
oramai, e sul punto di morire alla sua volta, come gli omnibus di
antica memoria. Non vidi altro di notevole che una giardiniera, sulla
linea di San Secondo, tutta occupata da povere vecchie dell'Ospizio di
Carità, per le quali era il giorno settimanale d'uscita, vestite tutte
di grigio e curvate come da un vento che soffiasse dietro, e sopra
quella carrozzata di secoli, segnati sui visi da migliaia di rughe,
un grande annunzio arcato, in cubitali caratteri bianchi su fondo
azzurro, che diceva: — _Biblioteca romantica Sperani_. — Finalmente,
una domenica, trovai sulla linea di Madama Cristina il buon falegname
propagandista, con la sua eterna giacchetta di velluto stinto, stretto
in un vivo colloquio con un fattorino tarchiato e barbuto, dalla testa
enorme, piccolissimo di statura, che gli arrivava appena con la fronte
alle spalle.
Al primo sguardo indovinai che lo stava catechizzando, e pensai che
fosse una sua consuetudine di valersi di quelle ore morte del servizio
per portare il verbo tra gl'impiegati del tranvai. Appena mi vide, in
fatti, mi venne accanto, e m'accertò che non m'ero ingannato: egli
faceva delle corse apposta per predicar la sua fede a fattorini e
a cocchieri, e n'avea già convertiti parecchi. Soltanto quello là,
quella specie di nano irsuto, che non rideva mai, era duro e resistente
come un masso, per motivo di quattro palmi di mota e di sabbia che
possedeva sulla riva del Tanaro, dalle parti d'Alba: una proprietà
ridicola, che spariva ogni tanto sotto l'acqua e che non gli rendeva
la croce d'un centesimo; ma che aveva piantato nel mezzo, come un
albero di bastimento naufragato, un grande faggio, da cui egli sperava
di ricavare, abbattendolo, una sessantina di lire. — È un uomo che
capisce, — mi disse — non è mica corto di comprendonio.... Seguita il
mio ragionamento: da una cooperativa di produzione, di consumo e di
mutuo soccorso a un gruppo di cooperative di corporazione, e poi a un
gruppo di gruppi, e via via, dai comuni alle province, dalle province
a tutto il paese. L'idea gli piace e si capacita. Soltanto, quando si
passa dalla proprietà industriale a quella della terra, ecco che gli
si drizza davanti l'albero, e lui ci s'attacca, e non c'è più verso di
smoverlo. — Quell'albero era per il fattorino l'ultimo e invincibile
argomento in contrario all'Idea; il fusto di quel faggio si cacciava
in mezzo ai congegni della nuova gigantesca macchina sociale, che pure
egli ammirava, e ne arrestava di punto in bianco il movimento enorme,
sconquassando ogni cosa. E mentre il falegname diceva questo, fissando
per di dietro il fattorino che s'era scostato, io capivo che col
pensiero egli non vedeva la persona, ma l'albero maledetto, il supremo
impedimento alla sua conquista, il grande nemico, e che escogitava
il modo di abbatterlo facendo un lavorìo vivace dell'immaginazione,
visibilissimo nei moti impazienti delle dita, con cui si tormentava
il barbone rossastro e stropicciava un pacco d'opuscoli che teneva
in mano. Gli domandai dove andava: mi rispose, battendo la mano
sugli opuscoli, che andava a distribuirli all'estremità di Borgo San
Salvario, dove degli amici l'aspettavano. E quell'idea gli risvegliò
tutt'a un tratto un ricordo, che gl'illuminò il viso e gli fece
dare una risata; il ricordo d'un suo trionfo, d'uno di quei tiri
fortunati ch'egli faceva alle autorità, e che erano la sua gloria. Oh,
un'avventura impagabile. La polizia aveva fatta un'apparizione nella
sua bottega, sospettando ch'egli ci tenesse un deposito d'opuscoli
proibiti. Di roba proibita egli non ci aveva nulla e nemmeno di roba
permessa, perchè i libri e i giornali non li teneva lì; e strizzò
un occhio. Il brigadiere aveva adocchiato e frugato per tutto senza
trovare il più piccolo pezzo di carta stampata. Ma proprio sulla
parete di fronte all'uscio era attaccato un gran _Calendrier de l'an
1896_, nel quale era segnato a ogni data, con una parola fiammante
di commento, un avvenimento socialistico. Il brigadiere ci aveva dato
un'occhiata e, credendolo un calendario innocuo, era passato oltre e
se n'era andato via, salutando lui con buona maniera. Ah, che farsa!
A quel ricordo lo assaliva una ilarità irresistibile, una gioia
come s'egli avesse fatto all'autorità uno di quei tiri magistrali,
superbamente buffi e temerari ad un tempo, che rimangono nella
storia delle grandi astuzie rivoluzionarie, a perpetuo ludibrio delle
tirannidi. E ne rise per un pezzo fregandosi le mani e rinsaccando
il capo nelle spalle. Poi si fece serio ad un tratto per parlarmi
del congresso femminista internazionale di Berlino, perchè era pur
sempre la questione della donna il primo dei suoi pensieri; e a questo
proposito mi fece vedere sopra un taccuino logoro certe sue sentenze
contro la pornografia, scritte con la matita, in carattere minutissimo.
In fine, quando discesi all'angolo del Corso Valentino, porgendomi la
sua grossa mano, mi disse all'orecchio, con quel suo vocione di basso:
— Ora ritorno all'albero.... Oh, ci lavorerò anche sei mesi, ma lo
butterò giù.... Glielo farò sapere. — E dalla piattaforma, quand'ero
già sulla strada, mi fece ancora, ridendo e strizzando un occhio,
l'atto di chi vibra un colpo d'accetta in un tronco.
*
Due giorni dopo, sulla linea di Nizza, cascai sopra Tempesta. Ecco un
soggetto che il buon falegname non convertirà mai. Era in un periodo
di furor nero contro le biciclette per via d'un caso occorsogli la
settimana addietro: d'un biciclista avventato che, volendo attraversare
il binario al sopraggiungere del tranvai, era stato urtato dal
parapetto anteriore e buttato a terra con le gambe in aria. Il danno
e il malanno eran stati tutti dalla parte sua: la macchina in pezzi,
la testa fessa e uno spavento maiuscolo, senza neanche la consolazione
di poter gridare un — _Si prutesta_ — come quel tale della banda di
Cécina, nel sonetto del Fucini. Eppure Tempesta n'avea perso i lumi,
come se avesse fatto lui il capitombolo. Da una settimana, mi disse
il fattorino, non sbolliva più. La vista d'una bicicletta gli faceva
erompere dalla gola dei fasci di saette. E quel giorno pareva che i
biciclisti si fossero dati convegno in via Nizza per tafanarlo. Egli li
vedeva spuntare in fondo alla strada a una distanza incredibile, come
i gauchos vedono i nemici all'orizzonte della pampa, ne accompagnava
la corsa con un monologo imprecatorio, li apostrofava al passaggio,
e quando qualcuno correva per un tratto accanto alla giardiniera,
squadrava con la coda dell'occhio le ruote, stringendo i denti, come se
si rodesse di non poterci dare delle pedate. Lo irritavano in special
modo i biciclisti attempati. — Passa via, _vei balotta_! — Scendi giù,
vecchio deposito! — Che il diavolo ti porti te e il tuo _ciarafi_!
— Allo sbocco di via Burdin passarono due signore, e contro queste
non imprecò; ma il sorriso sardonico con cui si voltò a guardarle
era da dipingere: valeva un libello di venti facciate. Poichè dovevo
andare dal mio amico Licia, direttore della _Torinese_, mi godetti
lo spettacolo fino alla barriera, dove ci venne incontro di fuori
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