La Carrozza di tutti - 24

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come una statua semovente, e mi fissò gli occhi negli occhi. Ah,
l'avevo conquistato finalmente! Capii a volo dal suo sguardo che la
critica di via Garibaldi e la lacerazione della _Gazzetta del popolo_
ed anche quelle matte teorie di socialismo municipale m'erano perdonati
per sempre. Il buon Bicchierino, il “controemarginato„ signor cavaliere
Bicchierino, impiegato modello di non so qual regia amministrazione,
il più puro e più geloso di tutti i torinesi nati e da nascere, era
intenerito, era vinto, era mio. Quando discese si toccò con la mano
l'ala del cilindro, e prima di perdersi nella nebbia rivolse verso il
tranvai un leggerissimo sorriso benigno, che mi tolse l'ultimo dubbio:
avevo un amico di più. Sia ringraziata Cuba! L'avvenimento era un buon
auspicio per una lieta fine dell'anno.
*
Svanì la nebbia e splendette il sole, che ci parve di rivedere dopo una
notte di sette giorni. I tranvai ricominciavano a correre liberamente
per la città chiara e come ritinta di colori più vivi, dorata in ogni
parte da larghi sprazzi di luce, e fattorini e cocchieri, usciti da una
settimana di ansie e di fatiche penose, salutavano con un'allegrezza
di liberati dal carcere l'aria limpida in cui si drizzavano le Alpi
bianche nitidissime, che pareva si fossero avvicinate durante i giorni
dì cattivo tempo. A Porta Palazzo, dove aspettavo il tranvai della
barriera di Lanzo, verso l'ora della colazione, era una festa; da
tutti i carrozzoni che arrivavano da tutte le barriere saltavano giù
cocchieri e fattorini e, seduti sui montatoi, dentro al casotto dei
biglietti, sulle ceste rovesciate della verdura, facevano il loro
pasto, alternando con le bocconate fameliche apostrofi chiassose alle
erbivendole e ai colleghi arrivanti e partenti; e così incappottati
com'erano, con quei cuffioni e quei guanti enormi, in mezzo alla neve
della vasta piazza, dove qua e là ardevano dei fuochi, sarebbero parsi
una banda di cosacchi bivaccanti tra i carri della provianda durante
una fermata in mezzo alla steppa; se non avessero fatto una macchia
italianissima in quel quadretto russo i mucchi d'arance siciliane che
brillavano sui banchi in mezzo all'erba montanina e ai rami di alloro
annunciatori del Natale....
Salito sul mio tranvai, mi trovai daccanto sulla piattaforma il giovane
tipografo biondissimo, lo sposo novello, fresco e gaio come l'aria.
M'abbordò con Antonio Maceo, domandandomi se credevo che gl'insorti
cubani avrebbero proseguito la lotta non ostante la sua morte; ma io
m'accorsi bene che aveva qualcos'altro da dirmi, e indovinai ch'era
una lieta notizia, e ch'egli cercava un'entratura garbata per darmela.
Dopo qualche preambolo, infatti, smettendo a un tratto la serietà
politica, m'annunziò con una gioia visibilissima che forse... fra
qualche mese... se tutto andava bene... la causa socialista avrebbe
avuto un soldato di più. Restava soltanto a sapersi se sarebbe stato
un compagno o una compagna. Mi congratulai. E allora diede la stura a
un'allegrezza infantile. Fatti certi calcoli, egli s'era messo in capo
che dovesse nascere in Aprile, verso la metà, forse il giorno stesso
della nascita di Ferdinando Lassalle: data di buon augurio. In ogni
modo aveva già fissato, se era un maschio, di mettergli i tre nomi:
Ferdinando (Lassalle), Federico (Engels) e Carlo (Marx). E si diede una
fregatina alle mani. Poi tessè l'elogio della sua sposa. Oh, sempre,
sempre più contento. Forte ancora al lavoro, nonostante il suo stato,
buona e amorosa con la mamma di lui, e non punto mutata d'idee, come
tante altre, dopo il matrimonio. Era lei stessa che gli diceva: —
Ernesto, ricordati di non mancare alla riunione della tal sera.... Non
dimenticare di rinnovar l'abbonamento al giornale.... Mettiamo qualche
cosa anche noi per la _Cassa elettorale_.... — E appunto quella mattina
era lei che l'aveva sollecitato a portare i denari d'una piccola
colletta a un compagno disoccupato e malato, che abitava in borgo San
Salvario. Passavano la serata assieme a leggere dei volumi presi alla
biblioteca dell'_Associazione dei lavoratori del libro_; ma preferivano
gli opuscoli di propaganda, che compravano del proprio. Essa si
appassionava in special modo per la storia delle socialiste celebri:
Eleonora Aveling, Annie Besant, Severina. E in questi discorsi duravano
fino a tardi, fin che la mamma s'addormentava con la calza in mano.
Poi, all'improvviso, parendogli d'avermi parlato con troppa familiarità
dei fatti suoi, fece di nuovo il viso serio per domandarmi se credevo
alla voce corsa dello scioglimento prossimo di tutti i circoli
socialisti e di tutte le Camere di lavoro della Liguria; ma, vedendomi
sorridere, e insistendo io perchè mi riparlasse della sua famiglia,
che m'avrebbe fatto molto piacere, m'afferrò il braccio in segno di
gratitudine e ricominciò con maggior effusione. Sì, era felice, gli
era toccata la più buona e brava ragazza che potesse desiderare. Era
una così bella cosa andar d'accordo, essere uniti in quell'idea, avere
quella speranza comune. Qualche volta, quando sentivano insieme una
buona musica, senza bisogno di parlarsi, essi si commovevano tutti
e due fin quasi a piangere, pensando ai compagni degli altri paesi,
all'opera di tutti, all'avvenire, al loro bambino che avrebbe visto
un mondo migliore. Ed io alla mia volta, guardando quel bel giovane,
quel “nemico della famiglia„ così innamorato e felice, pensavo quanto
la famiglia lo nobilitava e gli dava forza, quanto era sano e fecondo
l'amore in lui, in quella prima giovinezza in cui il matrimonio appare
ancora alla più parte dei giovani della borghesia una cosa lontana,
una fine da farsi dopo molti anni d'amori vagabondi, dì seduzioni,
d'adulteri, un buon contratto per arrotondare il patrimonio o una buona
alleanza per affrettar la carriera; e mi confermavo nella fede che
fosse davvero un mutamento sociale benefico e santo quello per cui si
sarebbe diffuso nella gioventù un tale amore, data la famiglia a tutti
in quell'età, che ora non la vuole o non può averla per dure ragioni
d'interesse o per ignobili ragioni di convenienza. Mentre io facevo
queste riflessioni ed egli si disponeva a discendere, lo vidi mettere
alla lesta non so che cosa nella tasca d'un signore che ci stava
ritto davanti. Maravigliato, gli domandai spiegazione dell'atto. Egli
sorrise: era un opuscoletto di sesto minimo, intitolato _I calunniatori
del socialismo_, a cinque centesimi; egli soleva ficcarne così delle
copie nelle tasche dei borghesi, sui tranvai, senza farsi scorgere;
oh, non per convertirli, ci voleva altro; solamente per “chiarire le
loro idee„, per distruggere le leggende assurde che s'andavano formando
intorno al socialismo nella mente di molti, i quali finivano con
crederlo tutt'altra cosa da quello che è. — Arrivati a casa — disse —
leggono per curiosità, e forse si ricredono di qualche pregiudizio: è
sempre quel po' di guadagnato. — E mi raccontò che altri usavano quel
modo, di far entrar l'idea per la via delle tasche non potendo per la
via degli orecchi, e che n'aveva avuto il primo pensiero il falegname
di mia conoscenza, il quale seminava opuscoli in tutti i soprabiti,
senza grande spesa, essendoci su ogni centinaio il ribasso del quaranta
per cento. E accennandomi con una strizzata d'occhio il signore,
soggiunse: — Ne ho già serviti tre questa mattina, — e contento e
trionfante, come se avesse fatto tre conversioni, saltò giù in piazza
San Carlo, dove vidi allontanarsi e perdersi fra la gente la sua bella
testa bionda dorata dal sole.
*
Ed ecco un altro sorriso sulla fronte del mio anno morente, un'altra
pagina lieta per l'ultimo capitolo, un altro uomo felice: il giovane
pittore che mi salta accanto sulla piattaforma, in via Garibaldi,
con una stella di montagna all'occhiello e con un viso rosato, che è
un annunzio di matrimonio in sembianza umana. Prevenni la sua parola
raccontandogli come l'annunzio mi fosse stato dato il mese avanti da
un'ondata di porpora che avevo visto salire alle guance d'una bella
signorina, l'ultimo giorno che c'eravamo incontrati. S'imporporò
un poco anche lui, e gli feci le mie congratulazioni: una creatura
angelica, che avevo mille volte ammirata, pensando sempre che sarebbe
stato fortunato il cittadino d'Italia su cui ella avesse racchiuso
le sue ali. Folgorò dagli occhi; ma si mantenne serio e mi fece un
discorso molto pacato. Si, era tutto fissato per il gennaio. Egli era
contento. Buona indole, carattere sodo, giudizio, istruzione, molto
affezionata a suo padre, un ex colonnello di fanteria, decorato di due
medaglie al valore: sarebbe stata certo un'ottima madre di famiglia
e sarebbero vissuti insieme di buon accordo. Ma io capii che quella
pacatezza di psicologo ragionatore era una delle solite imposture
d'innamorato; sotto a quelle parole compassate sentivo divampar
l'anima, ed ero ben certo che se anche ella non avesse avuto la “buona
indole„ e il “carattere sodo„ e “il padre decorato„ e tutte le belle
doti d'“un'ottima madre di famiglia„ egli l'avrebbe amata furiosamente
ad un modo e chiesta e voluta a tutti i costi. — Sa che è studentessa
di medicina? — mi domandò. Finsi di non saperlo, e gli chiesi celiando
s'egli le avrebbe lasciato continuar gli studi. — Ah, neppur per sogno!
— rispose con slancio, non ricordandosi l'apologia delle studentesse
che m'aveva fatto un giorno; ed io sentii nel suo accento una vampata
di gelosia otelliana, che abbracciava nelle sue spire tutta quanta la
Facoltà medica, e tutta la studentesca insieme, e tutta la clientela
possibile, non esclusi i malati di dentizione. Mi restava la curiosità
di sapere se proprio l'avesse conosciuta sul tranvai, come mi aveva
detto, e gli domandai anche questo. Ne rise di cuore: era stato così,
veramente, sulla linea di Ponte Isabella, gli ultimi giorni di maggio.
— Non si ricorda — mi disse — del fatto raccontato dai giornali in quei
giorni, d'un carrozzone della Belga che, sboccando sul corso Valentino,
urtò e rovesciò una vettura postale, gettando a terra il cocchiere, che
si ferì gravemente? — Non mi ricordavo. Ebbene, egli s'era trovato con
lei per la prima volta su quel carrozzone, e gli aveva “fatto senso„ il
veder lei, lei sola, mentre le altre signore strillavano o svenivano,
discendere ardita e tranquilla e accorrere in soccorso del caduto e
sollevargli da terra il capo insanguinato e posarselo sulle ginocchia
per asciugargli la ferita col fazzoletto. — Ecco una ragazza di polso
e di cuore! — aveva detto. Ed era rimasto ferito anche lui, ma d'una
ferita per cui il fazzoletto non serviva. Poi... l'aveva rivista. E a
poco a poco.... Ma sorvolò alle prime manifestazioni non corrisposte,
al periodo, che doveva esser stato abbastanza lungo, quando egli
inveiva contro le ragazze torinesi, figlie di Borea, fredde come le
Alpi, calcate tutte l'una sull'altra come figurine di carta, e saltò
subito a dire della conquista immediata, fulminea ch'ella aveva fatto
di suo padre, la prima volta che gliel'aveva indicata in tranvai. —
Già, fu proprio così — concluse — sulla linea di Ponte Isabella, in
un carrozzone chiuso della Società belga, che portava il numero 125.
— E non accorgendosi ch'io ridevo a sentirgli rammentare anche il
numero, tirò fuori il portafogli, e come avrebbe fatto della reliquia
d'un santo, ne cavò fuori con riguardo e mi mostrò lo scontrino bianco
di quella corsa memorabile, ancora intatto, come se fosse del giorno
stesso. — Così — disse col suo sorriso ingenuo — se un giorno mi farà
disperare, io le mostrerò lo scontrino, e le dirò: Ah, come ho speso
male i miei dieci centesimi! — Ma l'amore, la felicità che scintillava
sul suo buon viso di fanciullone erculeo smentivano l'apparente
sincerità di quella supposizione. E ripose accuratamente nel portafogli
il suo biglietto di partenza per il paradiso terrestre. Era felice, sì,
proprio. E me lo confermò lo sguardo e l'accento involontario di pietà
col quale, per cambiar discorso, mi domandò se procedeva il mio lavoro,
come domanderebbe un milionario a un parente povero se è bene avviata
una sua lite per un'eredità di qualche centinaia di lire; felice al
punto che, nel domandarmi ancora se nel mio libro ci sarebbe stato
anche lui, mi lasciò quasi comprendere che non gli sarebbe spiaciuto di
entrarci. Ma quando discesi mi salutò con un sorriso che mostrava già
il pensiero assai lontano da me: il _buona sera_ era per me; il sorriso
era già per la signorina del numero 125. Ma io avevo un mezzo permesso
di incastrare il suo romanzetto nella mia _Carrozza_, e me n'andai
soddisfatto della mia corsa.
*
Un altro felice; ma non con soddisfazione mia; anzi un brutto momento
per me in un carrozzone caratteristico della vigilia di Natale, partito
da Porta Palazzo, pieno stipato di signore e di ragazzi carichi di
presepi, di Gesù bambini, di pastori, d'asini e di bovi, mezzo nascosti
fra i rami di mirto e di lauro, con giocattoli fra le braccia, scatole
di fichi sulle ginocchia e arance e melagrane nelle tasche e fra
le mani: un misto d'Arca di Noè, di boschetto e di dispensa, da cui
usciva un fremito e un trillìo confuso d'anime in festa. Davanti a
me, sulla piattaforma posteriore, c'eran due carabinieri, che davan
le spalle all'uscio; alla mia sinistra un gruppo di persone attempate
e gravi, che discorrevano amichevolmente del voto dato dalla Camera
alla lotteria per le Opere pie di Torino. Dopo aver ascoltato per
un po' i loro discorsi, tornando a guardare dentro al carrozzone,
incontrai lo sguardo di Guyot, seduto fra due presepi. Subito egli
voltò gli occhiali e il pizzo da un'altra parte, corrugando la fronte,
con l'espressione di chi torce lo sguardo da un serpente boa. Barbaro
Guyot! Non era pago della vendetta atroce di due mesi avanti; m'odiava
dunque a morte veramente; era proprio un nemico implacabile! E aspettai
che il suo sguardo si fissasse un'altra volta nel mio, risospinto
dall'odio stesso che glie lo faceva fuggire, per fargli comprendere con
uno sguardo che non m'eran rimaste nelle carni, com'egli forse credeva,
le sue frecce avvelenate, che godevo d'una buona salute ed ero ancora
in grado di far del male alla società. Ma invano. Non si voltò più.
La mia vista, pensai, è davvero per lui un supplizio insopportabile,
quando non mi debba guardare per torturarmi! E pazienza. Intanto salì
sulla piattaforma altra gente, forzando a cambiar di posto quelli che
già c'erano, e tutti insieme si rimescolarono, urtandosi e pigiandosi,
cercando ciascuno la posizione meno incomoda per tirare il respiro e
per resistere ai trabalzi. Cessato appena il serra serra, parecchi
discesero, fu un'altra volta visibile dalla piattaforma l'interno,
e quale non fu la mia maraviglia, riguardando dentro, al veder gli
occhi del mio nemico vaganti sulla mia persona con un leggero sorriso
che pareva di benevolenza! Doveva esser seguito un miracolo. Pensai
che, dopo il primo moto invincibile di repugnanza destatogli dal mio
aspetto, ripensando alla vendetta passata, egli avesse avuto un senso
di resipiscenza, un pentimento d'aver passato il segno, d'avermi
offeso troppo nel vivo, e volesse farmi capire che, se non pentito,
era appagato della rivalsa che s'era presa, e intendeva di desistere,
cominciando da quel giorno, dalle ostilità. Eppure, il suo sorriso
non diceva questo ben chiaro, era un sorriso ambiguo, c'era sotto un
barlume di compiacenza maligna. E, fissandolo, m'accorsi che il suo
sguardo sorridente oscillava su di me come un pendolo, oltrepassando
di qua e di là la mia persona. Che cos'era mai? Mi guardai a destra e a
sinistra.... Abbominevole furfante! Era seguito,
come suole avvenir per alcun caso,
che i due carabinieri, separati dal rimescolio dei passeggieri salenti
e scendenti, avevan dovuto spostarsi, e dopo vari giri sopra sè stessi
s'eran ritrovati l'uno alla mia sinistra, l'altro alla mia destra, ed
io stavo in mezzo a loro come un arrestato. L'iniquo Guyot si deliziava
della vista di quel quadro. Il quadro gli rappresentava l'adempimento
d'un suo desiderio, l'attuazione d'una profezia, la mia fine meritata
e inevitabile, il vero posto che spettava a me nella società. Ed io
che m'ero illuso.... Ma quello che più mi irritò non fu la sua gioia
di quel momento: fu il pensare che avrebbe portata quella gioia a casa,
descritto il quadro in famiglia, esilarato gli amici al caffè; che quel
mio ammanettamento ideale sarebbe servito in gran parte — oh, senza
dubbio! — ad abbellirgli le feste di Natale. Fui tentato di scender
subito; ma mi rattenne un altro poco il pensiero ch'egli avrebbe goduto
anche di quella fuga, dicendo: — Eh, già, si capisce, si sentiva a
disagio... — Ma poi non ci potei più reggere, tirai il campanello e
lacerai il quadro saltando giù, dopo avergli lanciato un'occhiataccia,
che deve avergli fatto dire: — Che sguardo! Ha rivelato la sua vera
natura. E adesso? Chi sa? Quella gente lì è capace di tutto....
*
Ma fu questa la sola brutta avventura ch'io ebbi in quell'ultimo mese.
La mattina di Natale, rallegrata dal sole, i tranvai riboccavano
di signore impellicciate, di bimbe con grosse bambole dai riccioli
biondi strette contro al petto, di signori che portavano a casa la
ghiottoneria supplementare per il pranzo, di bottegaie in gala e
d'operai con la barba fatta; tutte faccie serene e vivaci; con le
quali non contrastavano che quelle rannuvolate dei cocchieri e dei
fattorini, tristi o stizziti della rude giornata di lavoro che si
vedevan davanti, incominciata per loro al lume delle stelle e destinata
a finire fra chiassi e prepotenze d'ubbriachi, dopo quattro bocconi
ingozzati alla disperata. Ah, le feste solenni, per quanta gente sono
terribili! Salito in piazza Carlo Felice per andare in piazza Statuto,
mi parve di ritrovarmi sullo stesso carrozzone in cui avevo fatto
la stessa corsa il primo giorno dell'anno: era un continuo salire
e discendere di signori e di signore, uno scambio di scappellate e
d'inchini, un baratto di sorrisi e di cerimonie, come in una sala di
ricevimento. Per un tratto, da piazza San Carlo a piazza Castello,
il tranvai fu tutto signorile: tutto penne di struzzo, manicotti
di martora, luccichìo di braccialetti e di spille, di libretti da
messa e di borse di confetti, tutto eleganza, complimenti e profumi.
Quanti eran là dentro che pensavano al “fanciul celeste„ nato fra
un asino e un bue mille e ottocento novantasei anni avanti, e alle
parole ch'egli aveva dette al mondo: _quod superest date pauperibus?_
Ahimè! Il bambino voleva dir per l'uno il principio del carnevale, per
l'altro l'apertura del Teatro Regio, per questo una festa chiassosa
in famiglia, per quello una strenna splendida; e i soli altari su cui
molti altri l'adorassero erano le lucide vetrine di bottega dinanzi
a cui correva il tranvai rapidamente, piene di capponi, d'aragoste
e di gelatine. In non uno forse di quei mille battezzati che vedevo
passare si formava il proposito di mutare, cominciando da quel giorno,
pensieri e consuetudini dell'animo, di esser buono, giusto, sincero,
umile, di amar tutti e di perdonar sempre come il maestro sublime di
cui ricorreva il dì natalizio. E studiavo appunto a uno a uno tutti
quei visi che non spiravano altro che compiacenza del lusso, vaghezza
di attirar gli sguardi e desiderio e aspettazione di piaceri mondani,
quando, in piazza Castello, salì una coppia coniugale, che, non
trovando più posto dentro, si piantò in faccia a me sulla piattaforma.
Era la supposta moglie dell'impiegato postale, la _nostra capitanessa_,
come dice il Ferravilla nel _Calzolar di donn_, stretta al braccio
d'un placido ometto di quarant'anni, suo marito senz'alcun dubbio,
che sorrideva vagamente con gli occhi socchiusi, come compiacendosi
dell'abbandono di ragazza innamorata con cui gli si lasciava andare
addosso la sua graziosa donnina. Il capitano era dimenticato! E se
quella dolcezza amorosa di lei non derivava dalla successione d'un
tenente, significava un ritorno del cuore pentito e spoetizzato della
colpa al sano affetto matrimoniale, alla modesta ma salda felicità
circoscritta dallo sportello delle lettere raccomandate. E me ne
rallegrai, anche perchè potevo così chiudere in forma edificante nel
mio libro la storia della sua avventura. Un momento essa mi guardò,
e parve che mi riconoscesse, ricordandosi forse del giorno che lei e
l'altro mi volevan mettere fuori del carrozzone. Vidi passare un'ombra
sul suo viso.... Ma che aveva a temere? Ch'io le preparassi il tiro che
le faccio per le stampe non se lo poteva sognare. Infatti, si rinfrancò
subito e si strinse più forte al marito, che questa volta chiuse gli
occhi affatto, con un sorriso più soave. _Dormi, fanciul celeste._
*
Dopo il Natale passarono alcuni giorni senza ch'io vedessi più
alcuno. Pareva che i miei personaggi m'avessero già tutti abbandonato
e fossero scomparsi nella nebbia che tornava ad avvolgere la città,
umida e densa, nascondendo ogni cosa. Solo il terzultimo giorno ne
ritrovai due nel carrozzone del Martinetto, in via Garibaldi, sotto un
raggio fuggitivo di sole. Stando sulla piattaforma, un po' a sinistra
dell'uscio, vidi dentro, di profilo, la sposa del borgo San Donato, col
capo inclinato dalla parte opposta alla mia, nell'atto della Madonna
della Seggiola. Mi passò un'idea. Sporsi il capo.... Ebbene, non
credevo d'aver messo tanto affetto a quei due poveri esseri. Fu una
vera gioia quella che sentii. Essa teneva sur un braccio un bambino
in fasce. Alla sua destra, in fondo, sedeva suo marito. Ma era lei
veramente? Aveva nell'atteggiamento del capo e del busto tutta la
grazia che può dare la maternità a un corpo infelice; nel viso una
luce nuova, come la coscienza altera e forte d'essere una creatura
necessaria e sacra a un'altra creatura, e gli occhi più grandi e più
dolci, con l'intensità di sguardo di chi fissa un orizzonte, come se
in quegli altri due piccoli occhi in cui fissava i suoi ella vedesse
come per due spiragli un mondo misterioso e lontano. Era venuto dunque
l'aspettato, la grande consolazione dell'iniquità della natura e della
sorte, la cara speranza di tutti i giorni e di tutte le ore, quello
che la poneva in alto come una regina e le ingrandiva la vita come il
concetto d'un'impresa eroica! E proprio in quel punto parve ch'egli
rispondesse: — Sì, son venuto! — con una voce acuta e imperiosa, che
era segno d'un corpicino sano e gagliardo. Essa sorrise, si guardò
intorno con aria timida, interrogò con lo sguardo suo marito, e con
una mano in cui si vedeva la titubanza, arrossendo leggermente, fece
sguisciar due bottoni dagli occhielli del petto; poi, con un atto
risoluto e pudico insieme, che porgeva e nascondeva ad un tempo, appagò
la boccuccia avida, che subito tacque, per bere la vita. Allora essa
rialzò il viso rosato e trionfante. Ah santa maternità! In parola
d'onore, era bella. E il povero giovane guardava quel visetto enfiato
dallo sforzo del succhiare con un occhio fisso e amoroso, che pareva
dirgli: — Bevi, bambino; piglia da lei col latte l'anima bella, l'amor
del lavoro, la rassegnazione alla povertà, il coraggio, la dolcezza, la
forza; succhia la vita della mia sposa, e sarai buono e onesto; bevi
l'anima di tua madre, e sarai la nostra ricchezza e la nostra gloria!
— E in quell'atto li lasciai, mandando un buon augurio a tutti e due,
e uno al nuovo personaggio, che avevo amato io pure, di cui ero stato
padrino in cuor mio prima che nascesse, e che sarebbe stato un ricordo
gentile di tutta la mia vita.
*
Ed eccoci all'ultimo giorno, che per me fu solenne. Uscito verso
sera dalla direzione della Società Torinese e attraversata la piazza
solitaria della barriera di Nizza, salii sul carrozzone della linea di
piazza Castello, qualche minuto avanti che partisse. I lampioni della
barriera rompevano appena la nebbia fittissima, in cui si movevano
come larve fattorini, cocchieri e guardie daziarie, espandendo in risa
e in facezie l'allegria bevuta dai liquoristi vicini per festeggiare
la fin dell'anno. Mi parve di riconoscere tra quelle voci i grugniti
di Tempesta; ma li coperse subito il canto squarciato d'una brigata
di beoni, uscenti da un'osteria della piazza, di cui non appariva
che la lanterna vermiglia. Quando il carrozzone partì, io ero solo
dentro, in un angolo. Era l'ora in cui sono affollati tutti i tranvai
che vanno ai sobborghi e quasi vuoti affatto quelli che vanno dalla
cinta al centro di Torino. Avrei potuto allungarmi sui cuscini della
_Torinese_ e dormire tranquillamente; ma nonostante la stanchezza che
m'aveva lasciata una notte insonne e una giornata di corse, non mi
riuscì nemmeno d'assopirmi un po': mi distraeva la vista della strada
nebbiosa, dove la fuga dei caffè sconosciuti e delle imboccature di
strade che non riconoscevo e i larghi vani oscuri delle interruzioni
del fabbricato, nei quali indovinavo la campagna dai lumi lontani, mi
davano l'illusione d'entrare in una grande città straniera. Era quella
l'ultima mia corsa dell'anno. Al pensarci, seguiva nella mia mente, per
effetto dell'intento unico che in tutto quell'anno m'aveva guidato,
una confusione di immagini singolarissima: si legavano i ricordi di
tutte le corse, come se queste non fossero state interrotte dalle altre
mille occupazioni della mia vita, e mi pareva d'aver fatto un viaggio
continuo, a traverso alle quattro stagioni, di giorno e di notte,
scendendo da un carrozzone per salire in un altro, andando avanti e
indietro senza posa per tutte le vie, come se non avessi avuto altro
domicilio che la carrozza di tutti. E tutte le persone, le scene,
gl'incontri, gli accidenti che m'erano occorsi su quelle tavole mobili
mi si affollavano alla memoria, distinti dagli altri avvenimenti della
mia esistenza, come se questi avessero riguardato un altro me stesso,
come se per un anno fosse stata separata nella mia esistenza e nei miei
interessi l'umanità corrente sulle rotaie da quella che avevo visto e
praticato fuori delle linee dei tranvai.
Ma, forse a cagione della solitudine e della stanchezza, e anche
del tempo uggioso, erano le persone e le scene più tristi quelle che
m'apparivano più vive. Lontano, come dentro alla nebbia, passavano
le coppie amoreggianti sulle giardiniere domenicali, gli erotici
appiccicati alle signore, le maschere del martedì grasso, le brigate
brille, le teste tinte, le passeggiere saltatrici, una confusione
bizzarra di monache e d'avventuriere, di contesse e d'erbivendole,
di balione fiorenti e di zitellone malinconiche, di magistrati, di
carabinieri e di “sovvertitori„; passavano e svanivano. Ma vicino,
immobili, e come sotto il lume del carrozzone, vedevo l'angoscia
della vecchia madre singhiozzante alla visione di Abba-Garima, la
disperazione cupa di Taddeo e Veneranda fulminati dalla morte della
loro creatura, il carro funebre del buon veterano che attraversava la
strada al tranvai, e il cadaverino sanguinoso del bimbo schiacciato,
e il finto sonno miserando della vecchia meretrice trafitta dagli
sguardi dell'innocenza coronata di fiori. Quanti dolori, quante miserie
anche in quelle poche gabbie volanti, dove pure i dolori e le miserie
maggiori non salgono! Ruppero un momento quella tristezza, passando a
braccetto, il pittore e la “vergine morta„, il tipografo biondo e la
sua compagna, e gli sposi di borgo San Donato, felici. E poi un'altra
ondata di gente dolorosa mi passò davanti: la povera donna sformata dal
cancro, la tisica schiantata dalla tosse, la mamma angosciata della
corona mortuaria troppo povera, e il fattorino percosso a sangue, e
tutti i suoi compagni intirizziti, fradici, rotti dalla stanchezza, che
mostravan negli occhi velati il tormento del sonno e il terrore della
multa, e in mezzo a loro il mio buon camerata della Scuola di Modena,
nella sua uniforme di controllore, che mi faceva un cenno triste di
saluto....
Mi ruppe il corso di questi pensieri una brusca fermata. Dov'eravamo?
Riconobbi vagamente piazza Nizza a traverso al velo della nebbia.
Alcune persone salirono. Il tranvai si rimise in moto e io mi rituffai
nei ricordi.
Miserie, sventure, dolori. Ed anche quante tristizie, quante viltà,
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