Attraverso il Cinquecento - 24

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E di San Lazer la lebbra gioconda,
Cancheri e malattie universale.
Il tristo luogo
È refugio a le belle cortigiane,
Che in tanto bene e favor furon pria.
Quivi
È tal che avea fattezze alte e divine
Per l’incurabil mal venuta un mostro.
La cortigiana della _Lucerna_ del PONA muore agl’Incurabili, di mal
francese (sera seconda, p. 86).
[452] _Le rime burlesche_, ecc., ediz. cit., p. 396. Se le cortigiane
truffavano, erano, alle volte, anche solennemente truffate. Vedi
tutta la giornata II della parte II dei _Ragionamenti_ dell’ARETINO;
DOMENICHI, _Facetie, motti_, p. 312, ecc.
[453]
Ste vacche se nassue in calessella,
E in calessella le sconvien morir:
Ne no ghe val a dir la tal se bella,
La tal se ricca, la no puol perir,
Chè in manco che non se frize una anguella
Ghe n’ho viste de ricche a falir,
Ghe n’ho visto de grasse e sontuose
Vegnir in puochi dì magre e strazzose.
_Le berte, le truffe_, ecc., già citate, f. 19 v. Dice FRANCESCO
SANSOVINO nella satira _A Giulio Doffi_:
I poeti somiglian le puttane,
Di quegli è il fin andar a lo spedale,
Di queste in capo a un tempo esser ruffiane.
_Sette libri di satire_, Venezia, 1560, f. 169 v.
[454] Invecchiata la cortigiana del Du Bellay, la quale aveva in
giovinezza guadagnato ciò che aveva voluto, campa filando, facendo
il bucato, trafficando stracci, preparando belletti e acque medicate,
vendendo, secondo le occasioni, frutta, erbe, ciambelle, e candeluzze
le feste. Per giunta ella soffre di renella, di gotta, di tosse e
di qualche altro male. Abita in una stanzetta d’osteria, e ha sulle
braccia una figlioletta, bambina ancora. Più d’una cortigiana finì
in una di quelle carriuole da rattrappiti, chiedendo l’elemosina per
l’amor di Dio. La Pierina dei _Germini_, che ci si è condotta, dice:
A gran trionfo il lastrico m’aspetta:
Braccio m’ha fatto far la cassettina
Per pormi poi co’ poveri a l’offerta.
[455] A. CORVISIERI, _Il testamento di Tullia d’Aragona_, in _Fanfulla
della Domenica_, anno VIII (1886), num. 5.
[456] NICCOLÒ FRANCO, _Dialoghi piacevoli_, Venezia, 1541, dialogo IV,
f. 67 r.
[457] Tra le _Poesie da fuoco_ già citate è un _Lamento d’Ellena
Ballarina_: vedi più oltre, appendice A, il _Lamento della Cortigiana
ferrarese_.
[458] E così fece la Tullia, sul cui matrimonio non può ora cader
più dubbio. Ella sposò in Siena, nei 1553, un Silvestro Guicciardi
da Ferrara, di cui non si sa altro. In grazia principalmente di tal
matrimonio, dovette ella, l’anno di poi, esser tolta dal ruolo delle
meretrici. V. BONGI, _Documenti senesi su Tullia d’Aragona_, in
_Rivista critica d. lett. ital._, anno IV (1887), p. 187. Il Brantôme
afferma che in Italia era frequente il caso di uomini che sposavano
cortigiane, e racconta di certa Faustina, della quale s’innamorò la
prima volta che fu in Roma, e che rivide poi maritata _avec un homme
de Justice_ (_Op. cit._, vol. I, pp. 176-7). Di un capitano Concio
che sposò una cortigiana romana per nome Vincenza Capista, narra il
DOMENICHI, _Facetie, motti_, ecc., p. 234. Gian Francesco Ghiringhello,
ricco gentiluomo di Milano, sposò la bellissima Caterina da San
Celso, _virtuosa in sonare e cantare, bella recitatrice con castigata
pronunzia di versi volgari_ (BANDELLO, _Novelle_, parte IV, nov. 9,
dedicatoria). Pietro Aretino scagliò un arrabbiatissimo sonetto contro
il conte Ercole Rangone, ch’era in punto di sposare l’Angiola greca
(TRUCCHI, _Poesie inedite_, ecc., vol. III, p. 212). Nella _Trinozzia_
del CONTILE, due cortigiane ricche, Laide ed Ersilia, sposano due
servitori, ma perchè innamorate, non perchè non possano trovare miglior
partito.
[459] _Ragionamento fra il Zoppino_, ecc., p. 448.
[460] A un’altra Imperia, veneziana, fu fatto l’epitafio seguente:
Imperia imperio cum res hominesque tenerem,
Hoc volui juvenis condier in tumulo.
FRANCISCUS SWERTIUS, _Epitaphia joco-seria_, Colonia, 1645, p. 115.
[461] GREGOROVIUS, _Lucrezia Borgia_, 1ª ediz., Stoccarda, 1874-5, vol.
I, p. 89.
[462] CIAN, _Op. cit._, pp. 35-6.
[463] Lo negò, per esempio il CORRADI, _Nuovi documenti per la storia
delle malattie veneree in Italia dalla fine del Quattrocento alla metà
del Cinquecento_, negli _Annali universali di medicina e chirurgia_,
vol. 269 (1884), pp. 319-20.
[464] Sostenne il CANELLO che _l’aumentare delle prostitute, e il
loro affinarsi in signore e cortigiane_ nel Cinquecento, _accenna già
chiaramente al sentito bisogno di rispettare la donna altrui, di salvar
la famiglia_. (Vedi _Storia della letteratura italiana nel secolo
XVI_, Milano, 1880, pp. 23-5). Ma tale bisogno è esso veramente e
comunemente sentito in quel secolo? mi par dubbio assai; mi sembra che
le prove che il Canello credeva di scorgerne siano assai più apparenti
che reali. In nessun secolo si scrissero contro il matrimonio tanti
trattati, tanti discorsi, tanti altri componimenti di varia forma
quanti se ne scrissero nel Cinquecento. A volerne fare il catalogo si
potrebbero riempiere più quaderni agevolmente. Non considerò il Canello
che il cresciuto numero e le cresciute attrattive delle prostitute,
se giovavano, per un verso, alla famiglia, con far minore intorno alle
donne maritate la ressa degli insidiatori, per un altro verso nocevano,
stogliendo dal matrimonio molti più celibi, e porgendo agli ammogliati
molte più occasioni, e più gradite, di mancare alla fede conjugale.
Non considerò inoltre che secondo certi principii, ai quali pur
s’informava in quel secolo il culto della donna, lo stato matrimoniale
appariva a molti quasi macchiato di una nota d’indegnità. Dice Michele
Barozzi nel _Dialogo della dignità delle donne_ dello SPERONI (_Opere_,
edizione cit., vol. I, p. 51), che l’amore è quello che naturalmente
fa le donne signore degli uomini, e che le leggi civili, _creature
del vulgo_, «solamente avendo riguardo a’ figliuoli, che a beneficio
della repubblica le nostre donne ci partoriscono, quei dolci nomi
d’innamorato e d’innamorata derivati da amore, scioccamente in due
strane ed odiose parole, moglie e marito, di convertire deliberarono».
Del resto si tratta di sapere, non quanto la prostituzione elegante del
Cinquecento abbia giovato o nociuto alla famiglia, ma quali furono le
cause che la promossero. Ora, tra queste cause, che io mi sono studiato
d’indicare, confesso che non mi viene fatto di scoprire il _bisogno di
rispettare la donna altrui, di salvar la famiglia_.
[465] Si comprende facilmente a quali strane contraddizioni dovesse
dar luogo la devozione alle prese col meretricio. La già più volte
ricordata Nanna ammonisce a questo modo la figliuola: «Veniamo a le
divozioni utili al corpo ed a l’anima. Io voglio che tu digiuni, non
il sabbato, come le altre puttane, le quali vogliono essere da più del
Testamento Vecchio, ma tutte le vigilie, tutte le Quattro Tempora, e
tutti i venerdì di Marzo; e dà nome che in così sante notti non dormi
con persona. In tanto vendile nascosamente a chi più ne dà, guardando
che i tuoi amanti non ti colghino in frodo». (Aretino, Ragionamenti,
parte II, giornata I, p. 252). Una delle interlocutrici della Puttana
errante in prosa, accingendosi a dar conto di mille turpitudini
alla sua degna amica, avverte: «oggi è sabbato, nel quale dì, per
la riverenza della Madre del Salvadore, non mi lascio abbracciare da
alcuno». Nè si creda perciò che quella devozione non fosse sincera.
Beatrice da Ferrara, saputo che Lorenzo de’ Medici, duca d’Urbino, era
ferito in Ancona, gli scrisse una lettera, dove, con alternazione delle
più strane e, diciam pure, delle più comiche, con la più curiosa delle
promiscuità, parla di ogni sorta di sudicieria, e in pari tempo della
Settimana Santa, della sua confessione, delle preghiere fatte da lei a
Dio per la salute dell’ill.mo Signor Duca, del voto fatto di andare in
pellegrinaggio a Loreto, quando l’ill.mo Signor Duca fosse pienamente
guarito. (_Lettere di cortigiane del secolo XVI_, lettera XXXIV, pp.
81-5). Nella commedia del CONTILE intitolata _La Pescara_ (Milano,
1550), dice la Martinella cortigiana a Marcello servo (atto I, sc. 5):
«sai pur che non sono di quelle sfacciate. Odo la messa una volta il
mese, dico la corona, e perchè sono anch’io di buon sangue voglio diece
scudi di chi si vuol meco impacciare».
[466] FORTINI, _Novelle_, 2. Della Bice da Prato si dice nei _Germini_:
è d’ogni peccato netta e monda
Sempre il suo ufiziuol la porta allato.
[467] Vedi la già citata lettera di Beatrice da Ferrara a Lorenzo
de’ Medici, duca di Urbino, _Lettere di cortigiane_, ecc., p. 81. Di
una di tali monache novelle narra un lepido casetto il BRANTÔME, _Op.
cit._, vol. II, p. 190. A una signora Imperia scriveva il CALMO per
dissuaderla dal farsi monaca (_Le lettere_, l. IV, lett. 28, p. 314).
La cortigiana Lucrezia lascia la mala vita in uno dei Colloquii di
ERASMO DA ROTTERDAM (_Colloquium adolescenti et scorti_). Spesso la
conversione era solo apparente: vedi GIRALDI CINZIO, _Ecatommiti_,
nov. 1 dell’Introduzione. Nella _Tariffa_ è ricordata una certa
Filomena, che fattasi monaca, tornò poi a fare la cortigiana. La Nanna
dei _Ragionamenti_ dell’Aretino era stata monaca, e di una Paolina,
_monaca smantata_, è ricordo nel citato _Trionfo della lussuria_. Il
dare ad intendere di volersi far monaca, e l’assoggettarsi ad alcuna
pratica devota erano, alle volte, astuzie e spedienti del mestiere. La
cortigiana del Du Bellay dice, parlando degli amanti suoi:
Conclusion, j’avois mille receptes,
Pour leur tirer les quatrins de la main:
Ores faignant de me faire nonnain,
_Etc._
Anzi, un bel giorno, presa da subito pentimento, entrò nelle
Convertite; ma di lì a poco, pentita d’essersi pentita, tornò alla
usanza di prima. Il poeta francese Gillebert compose due carmi latini,
l’uno in nome di una cortigiana romana che lasciava il vizio e si
faceva monaca, l’altro in nome della stessa cortigiana, che disertava
il chiostro e tornava all’antica vita. La Nanna dell’Aretino, per
meglio pelare i suoi amici, diede voce d’essersi convertita, e si fece
murare in camposanto, e così pure adoperò l’Ordega, spagnuola (ARETINO,
_Cortegiana_, atto IV, sc. 2).
[468] Un _Avviso_ di Roma, spedito ai 28 di marzo del 1556, anno
secondo del pontificato di Paolo IV, contiene la seguente curiosa
notizia: «Predica a S. Apostolo maestro Franceschino da Ferrara, il
quale ha una grandissima audienza, e giovedì, correndo l’Evangelio che
correva, furono comandate tutte le cortigiane a voler andare a udir
la predica, nella quale per il mezo suo il Sig. Dio operò tanto che
82, parte volontariamente e con molte lagrime, e parte per esortazione
si presentarono dopo la predica al predicatore, e si feciono scrivere
per pentite della vita loro, e di voler andare chi in un monastero,
e chi voler maritarsi e viver da donne da bene. E fu bel vedere la
carità delle gentildonne Romane in riceverle in chiesa presso di loro,
accarezzarle, persuaderle, condurle dal predicatore, e menarsele a
casa per levarle dall’occasione del male. Il Sig. Dio doni lor grazia
di perseverare e confirmarsi in così buono proposito. Un altro giorno
se ne convertirono altrettante». (Pubblicato nel _Zibaldone: Notizie,
aneddoti, curiosità e documenti inediti o rari_, anno I, 1888, num.
1, pp. 4-5). Ma le signore cortigiane non sempre si mostrarono così
docili. In un altro Avviso di Roma, del 30 novembre 1566, si legge:
«Domenica passata furono intimate tutte le cortigiane che alle 20 ore
andassero alla predica in Santo Ambrogio. Lì predicò un trentino, che
salito in pulpito, cominciorono a romeggiare (_romoreggiare_?) fra
loro, ed a far ridere, di modo che ’l buon padre rise anch’egli un
pezzo: pur alla fine disse la buona mente di Sua Santità, solicitò
alla salute delle anime loro, e le esortava a lasciar il pecato, e se
si volevano maritare, e quelle non avevano il modo, le averia agiutate
a darli la dote. Li birri stetero alla porta della chiesa, acciò non
entrassero alcuno omo, ma ve n’erano da fuori da due mila». Il 15 marzo
1567, accennando ad altra predica, Giacomo Frangipane scriveva al Duca
di Mantova: «Mentre il predicatore che predicò in sant’Ambrogio alle
cortigiane, riprendeva la vita loro e le esortava al ben fare, una,
chiamata Nina da Prato, levatasi in piedi, cominciò a ribuffarlo, con
dire che l’uffizio suo era di declarare lo evangelio, e non biasimar
la vita loro: onde subito fu presa, e questa mattina è stata frustata».
(BERTOLOTTI, _Art. cit_., p. 513, docum. IX e X).
[469] FRANCO, _Le pístole vulgari_, Venezia, 1542, ff. 187 v. a 188 r.;
LANDO, _Sette libri de cataloghi_, ecc., Venezia, 1552, p. 23.
[470] _Commentario delle più notabili e mostruose cose d’Italia e di
altri luoghi_, Venezia, 1550, f. 76 r. Nel _Trionfo della lussuria_
maestro Andrea dice all’autore, additandogli una schiera di cortigiane:
Vedi quelle che fur dette signore,
Tanto superbe in la romana corte
Che a pena a Dio se dava tanto onore.
[471] RAINALDI, _Annales ecclesiastici_, t. XXX, p. 152. L’usanza non
ebbe a cessar così presto, e non doveva essere molto lungi dal vero
AGRIPPA DI NETTESHEIM, quando affermava che i prelati in Roma avevano
tra gli altri benefizii, anche i redditi che traevano dai postriboli
(_De incert. et van. omn. scient._, cap. LXIV).
[472] Ap. ECCARD, _Corpus historicorum medii aevi_, t. II, p. 1997.
[473] Si trova nelle varie stampe del _Terzo libro dell’opere burlesche
di_ M. FRANCESCO BERNI _e di altri_. Sembra che le cortigiane di Roma
non lasciassero di far gazzarra nemmeno negli anni santi. Ai 7 di
febbrajo del 1525, anno di Giubileo, Francesco Gonzaga, ambasciatore
del Duca di Mantova a Roma, scriveva a Jacopo Calandra, segretario del
medesimo Duca: «Noi stemo qui menando vita veramente religiosa, però
che par un convento di frati, che vivesi in un’osservanzia mirabile;
eccetto che le cortigiane non mancano de l’officio loro, ancor che parà
che mal si convenga in questo anno santo; ma tanto seria possibile a
dar rimedio a questo, quanto ad levar la proprietà a le cose produtte
da la natura; sicchè è forza che il mondo vaddi in questa parte secondo
il solito». (A. BASCHET, _Documenti inediti su Pietro Aretino_, in
_Arch. stor. ital_., serie III, t. III, parte 2ª, p. 121). Se dunque
mancavano alla corte di Roma le nobili e colte dame, come lamentava
il BIBBIENA in una sua lettera a Giuliano de’ Medici (_Lettere di
principi_, Venezia, 1581, lib. I, f. 16 v.) tale mancamento non era in
tutto senza compenso.
[474] La Via dei Banchi era allora la principale di Roma, e perciò
la più frequentata dalle cortigiane. Delle cortigiane più famose che
vissero in Roma nella prima e nella seconda metà del Cinquecento,
si han notizie parecchie, e si potrebbe, volendo, farne l’elenco.
Di quelle che fiorirono ai tempi di Leone X reca i nomi il già
citato _Censimento_. Per gli anni che seguono ne ricordano molte il
_Ragionamento fra il Zoppino fatto frate_, ecc., il _Trionfo della
lussuria di maestro Pasquino_, dove assai terzine sono spese in farne
la enumerazione; l’introvabile libro intitolato _Angitia cortigiana,
De la natura del cortigiano_, Roma, 1540. (Alcuni estratti in _Œuvres
choisies de_ P. ARÉTIN, _traduites de l’italien pour la première fois
avec des notes par_ P. L. JACOB _bibliophile_, Parigi, 1845). Per la
seconda metà del secolo si hanno alcuni nomi in una lettera del CALMO,
_Alla Signora Romana, Le lettere_, I, IV, lett. 13, p. 279.
[475] _Diarii_, t. VIII, col. 414.
[476] _Pasquillorum tomi duo_, Basilea, 1544, t. I, p. 23. Più altri
tolsero da quei due nomi di Venezia e di Venere occasione di bisticcio.
Delle donne veneziane disse il francese GERMANO AUDEBERT, nel suo poema
_Venetiae_, l. I (ediz. di Venezia, 1583, p. 15):
Veneres discrimine parvo
Et Venetae distant.
Un altro francese, STEFANO PASQUIER, dice nel l. II delle sue _Icones_,
parlando _De Venetiarum urbe_:
Hanc Venus at lepidam se transformavit in urbem;
Viveret ut mediis fluctibus, orta salo.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Hinc Venus est omnem late diffusa per urbem,
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Sic Veneres Venetas licet appellare puellas.
Dello strabocchevole numero delle cortigiane veneziane molti fanno
ricordo. Parlando di Venezia appunto, dice il Gentiluomo nella Tariffa,
Che quante rane ha in sè palustre fondo
E la terra formiche, o fiori i prati,
Quando l’Aprile è più vago e giocondo,
Tante sono puttane in tutti i lati,
De quai veggiam talor più folta schiera,
Che di vacche e di buoi per li mercati.
Ciò che conferma il BANDELLO, dicendo essere in Venezia _un infinito
numero di puttane_ (_Novelle_, parte III, nov. 31), e conferma il
GIRALDI CINZIO, notando Venezia essere _abbondevole di quella sorte
di donne che cortigiane son dette_ (_Ecatommiti_, deca VI, nov. 7).
Le carampane erano case abitate da meretrici di bassa mano, a Rialto.
Per l’ordinamento che ci si osservava vedi GIROLAMO BARDI, _Delle
cose notabili di Venetia, libri II_, Venezia, 1587, p. 24. Vedi anche
GALLICCIOLLI, _Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche_,
Venezia, 1795, vol. VI, pp. 148-50; TASSINI, _Curiosità veneziane_, 4ª
edizione, Venezia, 1887, pp. 145-6, e _Cenni storici e leggi circa il
libertinaggio in Venezia, Venezia_, 1886, pp. 15-6, 25-8. Le cortigiane
si mantennero assai numerose nella città delle lagune anche nel secolo
XVII. In sul principio di esso il viaggiatore inglese Tommaso Coryate
riferiva una voce che faceva ascendere a 30000 il numero di quelle che
dimoravano nella città e luoghi circonvicini, e diceva che da tutte
le parti della cristianità accorrevano i forestieri desiderosi di
vederle e di praticarle. Senza dubbio in quel numero, dato pure che
non sia esagerato, erano comprese tutte le meretrici, d’ogni grado e
condizione. Sul finire del secolo, il francese Alessandro Toussaint
Limojon de Sainct-Didier affermava nessuna città poter gareggiare con
Venezia quanto a cortigiane. A mezzo il secolo XVIII Carlo De Brosses
trovava ancora in Venezia due volte più cortigiane che in Parigi, e
notava espressamente: _elles sont fori employées_.
[477] _Il Candelajo_, atto V, sc. 18. Non era così altrove. In Firenze,
per esempio, dovevano pagar la tassa ogni mese, puntualmente (CECCHI,
_Il Martello_, atto II, sc. 2). Nè in Venezia stessa andarono sempre
immuni da tasse. Nel 1514 fu loro imposto un balzello per riparare
all’interramento dell’Arsenale, e se ne ricavò grande quantità di
denari.
[478] CALMO, _Le lettere_, l. IV, lett. 13, p. 278.
[479] _La Ruffiana_, Venezia, 1568 (la prima stampa è del 1542), atto
I, scena 1.
[480] _Le lettere_, l. IV, lett. 13, p. 279.
[481] Fu vietato l’abuso il 14 luglio 1578, poi di nuovo il 16 marzo
1582 (_Leggi e memorie venete_, ecc., pp. 121-2, 125).
[482] _Novelle_, parte III, nov. 31. Un’usanza simile pare, per altro,
non fosse sconosciuta a Roma, secondo si ha da un luogo della _Vieille
courtisane_ del DU BELLAY.
[483] _Op. cit._, vol. II, pag. 31.
[484] _Leggi e memorie venete_, ecc., 268. Non mi fu possibile aver
notizia di un libro di N. GUTTERY, intitolato _La Priapeja, al magn.
sig. L. D. M. M. D. C._, s. l., ma probabilmente Parigi, 1586. Il
BRUNET, che lo registra (_Manuel du libraire_, ed. 5ª, vol. II,
col. 1832), dice che esso contiene _une conversation entre quatre
courtisanes vénitiennes, dans le goût des_ Ragionamenti _de l’Arétin_.
Ci si dovrebbero trovare notizie curiose e importanti sulla vita delle
cortigiane in Venezia. Dice AGRIPPA DI NETTHESHEIM nel già citato suo
libro _De incert. et vanit. omn. scient._, c. LXIII: «Vidi ego nuper
atque legi sub titulo _Cortesanae_ italica lingua editum et Venetiis
typis excusum de arte meretricia dialogum utriusque Veneris omnium
flagitiosissimum dignissimumque qui ipse cum autore ardeat». Non so a
quale composizione egli possa alludere, essendo stato stampato il suo
libro nel 1530.
[485] Parte I, nov. 4.
[486] Notizie copiose della Veronica diedero: il CICOGNA nei vol. V
e VI delle _Inscrizioni veneziane_, Venezia, 1824-53, e G. TASSINI,_
Veronica Franco celebre poetessa e cortigiana del secolo XVI_,
Venezia, 2ª edizione, 1888. Il Tassini corresse parecchi errori in
cui erano incorsi i biografi prima di lui; ma il suo lavoro è, per
altri rispetti, assai manchevole. Nè dalle pagine sue, del resto, nè
da quelle del Cicogna, si vede venir fuori la figura della cortigiana
letterata. Parlarono inoltre della Franco, ma assai fugacemente ed
inesattamente, il DELLA CHIESA, nel _Teatro delle donne letterate_;
GIOVANNI DEGLI AGOSTINI, nelle _Notizie istorico-critiche intorno la
vita e le opere degli scrittori viniziani_; il GAMBA, nei _Ritratti
di dodici illustri donne veneziane_; ENRICO LEVI CATTELANI, in uno
scritto intitolato _Venezia e le sue letterate nei secoli XV e XVI_,
Rivista europea, nuova serie, volume XV, e alcun altro che non giova
ricordare. Non ha valore di sorta un articoletto dal titolo _Véronique
Franco, Henri III et Montaigne_, nel _Bulletin du bibliophile et du
bibliothécaire_, 1886.
[487] Scudo con figurate in una fascia quattro stelle e tre monticelli
sotto.
[488] Vedi questo primo testamento della Veronica pubblicato dal
TASSINI, _Op. cit._, pp. 66-71.
[489] _Lettere familiari a diversi della S_. VERONICA FRANCA, senza
alcuna nota tipografica, lett. XXIX, pag. 58. Il padre è menzionato
anche in un secondo testamento, del 1570, pubblicato pure dal TASSINI,
_Op. cit._, pp. 72-80.
[490] Dal secondo testamento si ha che la madre era già morta nel 1570;
perciò è da porre prima di quell’anno la compilazione del _Catalogo_.
[491] Lettera VII, p. 12.
[492] Questo ritratto fu riprodotto dal GAMBA in _Alcuni ritratti di
donne illustri delle provincie veneziane_, dal MUTINELLI negli _Annali
urbani di Venezia nel secolo XVI_, e ultimamente dal TASSINI, _Op.
cit._
[493] _Terze rime di_ VERONICA FRANCA, s. l. ed a., ma in Venezia,
circa il 1575, come si rileva dall’epistola dedicatoria, di cui avrò a
dire più là. Capitolo XVI.
[494] Capitolo VII.
[495] Capitolo I.
[496] Capitolo VII.
[497] Lettera XLVIII, pp. 83-4.
[498] Capitolo XVI.
[499] Lettera XIII, p. 21; XIV, p. 21.
[500] Lettera XLIX, pp. 84-5.
[501] Capitolo XX.
[502] BALDESSAR CASTIGLIONE, _Il Cortegiano_, l. I, ediz. di Firenze,
1854, p. 64.
[503] Lo scritto di PIETRO SELVATICO, _Veronica Franco e il
Tintoretto_, nel volume _L’arte nella vita degli artisti_, Firenze,
1870, è tutto un romanzetto assai scipito.
[504] _Capitolo alla Franca_, nel cod. Marc. Ital. IX, 173, già citato,
f. 410 r.
[505] Capitolo XX.
[506] Lettera VII, p. 11.
[507] Lettere XXXV, pp. 63-4; XLVII, pp. 80-1; LI, pp. 86-7.
[508] Ultimamente il signor A. BORZELLI in un articoletto intitolato
_Per Veronica Franco_, e inserito nella _Polemica_ di Napoli, anno
I, numero 4, sostenne che la Veronica Franco del Catalogo non può
essere quella stessa delle terze rime e delle lettere; ma in sostener
ciò prese alcuni solennissimi granchi. Egli continua ad assegnare la
nascita della Veronica all’anno 1553 o 1554, mentre son degli anni
parecchi che fa dal Tassini provato che la Veronica nacque nel 1546.
Confondendo il _Catalogo_ con la _Tariffa_ in versi, egli assegna
a quello la data del 1535, che è la data della prima stampa di
questa. Trovando nel _Catalogo_ scritto Veronica Franca e non Franco,
insiste su questa diversità, mostrando di non sapere che si usava nel
Cinquecento dar desinenza femminile ai cognomi quando si parlava di
donna, dicendosi la Trivulzia, la Orsina, ecc. Finalmente egli sostiene
che cortigiane come Veronica Franco e Tullia d’Aragona _non venivano
messe in lista con la relativa tariffa per certi favori_: ora, a farlo
apposta, la Tullia è messa in lista nella _Tariffa_ col prezzo di scudi
sette. Del resto, prima del signor Borzelli altri cadde, in parte,
nei medesimi errori, e per ciò vedi ROSSI, _Le lettere del Calmo_,
Introduzione, p. CVI.
[509] Nel già citato codice Marciano si leggono (ff. 253 v. a 254
r.) una nota e un sonetto che possono forse avvalorare la congettura
di un disgusto sopravvenuto tra il Veniero e la Veronica, senza però
lasciarne intendere le ragioni. Trascrivo. _Sonetto dicesi del Venier.
Sopra el retratto e l’impresa de Veronica Franca, fatto l’anno del
giubileo in Roma. Vi era il ritratto in stampa di rame, e la sua
impresa che era una favella accesa col motto_: AGITATAQUE CRESCIT; _e
intorno al retratto vi era scritto_: ANNO AETATIS SUAE XXV.
SONETTO.
El retratto e la impresa è bona e bella:
L’un perchè el le somegia in quanto brutto;
L’altro che in le puttane Amor fa lutto
Per Amor, e fa fuogo in la facella;
Che l’arde solamente quanto ch’ella
Dal moto e dal scorlar riceve agiuto;
Così chi vuol da vaca aver construtto
Diè strapazzarla in questa parte e in quella.
Mi trovo in tel retratto un sol error,
Ch’è de importanza assae, tanto pi quanto
Non puol gnianche conzar el depentor.
Ch’el tempo è, se no pi, do volte tanto:
Pur ghe è via de salvarlo, e con so onor,
De dir che l’è stampà l’altro anno santo.
La nota non dice per altro che quel Veniero fosse Marco, e se a
Domenico non è da pensare, potrebbe anche essere stato quel Maffeo
ch’ebbe a padre Lorenzo, autore della _Zaffetta_, e che fu poi vescovo
di Corfù. Molte poesie di lui, o a lui attribuite, contiene il codice
in discorso. L’ultima parte del sonetto ha qualche parte di vero
insieme con molta e maligna esagerazione. Nel 1575, anno di giubileo,
la Veronica non aveva più venticinque anni, ma non aveva ancora
oltrepassati i trenta. Il ritratto di cui qui si parla non può essere
tutt’uno con quello di cui dà una breve descrizione il DEGLI AGOSTINI
(_Op. cit._, vol. II, p. 616), e che recava, insieme con la fiaccola e
il motto, la scritta: VERONICA FRANCO ANN. XXIII. MDLXXVI; o se pure è
tutt’uno con esso, e se la diversità, solo apparente, nasce da errore
in quella indicazione di numeri, tale errore non può essere che dello
storico, mentre l’accenno al giubileo toglie che si possa imputare al
poeta. Del resto, nella nota che accompagna il sonetto, non s’intende
bene se quelle parole _fatto l’anno del giubileo in Roma_ vogliano dire
che il ritratto fu fatto in quell’anno in Roma, o che in Roma fu fatto
il sonetto, o che il ritratto o il sonetto fu fatto nell’anno che in
Roma si festeggiava il giubileo.
[510] Capitolo II.
[511] Capitolo VIII.
[512] Capitolo XV.
[513] Capitolo XX.
[514] Capitoli XXI e XXII.
[515] Capitolo XIX.
[516] Lettera XIX, pp. 35-6.
[517] Capitolo VIII.
[518] Lettera XX, pp. 37-8.
[519] Capitoli IX, X, XI, XII.
[520] Lettera XXXVI, p. 67.
[521] Capitolo XVII.
[522] Lettera XLIX, pp. 84-5.
[523] Capitoli XIII e XIV.
[524] Nel testamento del 1564 la Veronica diceva ingenuamente: «Lasso a
m. Jac.mo de’ Baballi el figliuolo, over figliuola che nasceranno de mi
come a suo padre; sia o non sia, Signor Dio scià il tutto». Nel secondo
testamento, fatto, come s’è veduto, sei anni dopo, il 1º novembre
1570, ella dice: «Achille mio fiol e di m. Jacomo Baballi Raguseo,
il qual, quanto a me, credo sii suo fiolo». Il dubbio ch’ella aveva
potevano avere anche altri, e in esso forse è da cercare la ragione di
certe disposizioni contenute nel testamento che nell’aprile di quel
medesimo anno aveva dettato Lodovico Ramberti, famoso nelle storie
veneziane per aver sottratto a morte atroce e infamante il proprio
fratello mediante un veleno somministratogli in carcere. Costui legava
ad Achilletto, _fio de mª Veronica Franco_ (senz’altro) parte della
sua sostanza, lasciandone usufruttuaria la madre sino a che il figlio
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