Attraverso il Cinquecento - 07

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a noi. Ora, una massima mi pare da doversi stabilire anzi tutto: che
nessuno, cioè, debba essere giudicato più malvagio di quello ch’ei
fu tenuto dall’età sua, quando, ben s’intende, l’età sua abbia avuta
di lui giusta ed intera cognizione. Gli è quanto dire che non si vuol
giudicare nessuno coi criterii di una moralità o poco o molto diversa
da quella comunemente accettata nella società cui egli appartenne, e
d’onde solamente potè derivare la norma del suo operare; o se pur si
vuole giudicare con quei criterii, non si deve giudicare lui solo, ma
con lui la intera società di cui fu membro. Il valore esatto di un uomo
non si ha se non quando un tal uomo, si consideri nell’ambiente suo,
in mezzo alla vita varia e complessa di cui egli è, al tempo stesso,
organo e produzione; giacchè ogni valore è necessariamente relativo.
Che direste voi di chi volendo giudicare, poniamo, la figura principale
di un quadro storico, togliesse appunto quella figura dal quadro, e
si facesse a considerarla separatamente dall’altre figure e dalle cose
tutte che il pittore, non senza le sue buone ragioni, gli pose intorno?
Direste ch’egli opera malamente, e che il giudizio suo non può non
riuscire parziale ed erroneo, giacchè la figura principale forma un
tutto con quelle altre figure e con quelle cose ancora, e non la può
intendere chi la consideri disgiuntamente da esse, o chi la ponga in
altro quadro, in relazione con altre figure e con altre cose. Non meno
parziale, non meno erroneo deve riuscire il giudizio di chi toglie
l’Aretino dall’ambiente suo, e vuol giudicarlo secondo i principii
di una morale che non fu quella dei suoi tempi. Fate campeggiare la
figura dell’Aretino, sopra un fondo d’idealità cavalleresca, o di
puritanismo anglicano, e la vedrete staccarsene vigorosamente, e vi
parrà mostruosa: fatela campeggiare sul fondo del Cinquecento, ch’è il
suo, e la vedrete spiccar molto meno, e vi parrà meno brutta d’assai.
I contemporanei conobbero l’Aretino quanto noi, anzi, certo, meglio
di noi; pure non l’ebbero, generalmente parlando, in quell’orrore
in cui noi lo abbiamo. E perchè questo? Perchè i suoi vizii e le sue
ribalderie erano cose comuni di quel tempo, erano il portato di quella
vita, erano una pece di cui, o poco o molto, tutti si mostravano tinti.
Qui ci sarebbe da entrare in un lungo discorso circa la immoralità
del Cinquecento, quella immoralità così intimamente connessa, così
compenetrata colla cultura della Rinascenza, che, se l’una non fosse
stata, nemmeno l’altra sarebbe stata; ma un tale discorso, quando
non si volessero ripetere le cose più note e i giudizii più triti,
quando si volesse entrare un po’ nell’esame del come e del perchè,
del quando e del quanto, ci trascinerebbe così lontano che il povero
Aretino non parrebbe più che un punto perduto in infinito spazio, e
non sarebbe troppo agevole tornare a lui. Contentiamoci dunque di
riaffermare questa nota verità che il Cinquecento è profondamente
immorale, e aggiungiamo che la misura, o se si vuole, la portata della
sua immoralità, è data dallo sconfinato spazio che separa la vita reale
dall’ideale cristiano, che pur allora si mette innanzi come norma, e
come scopo di quella vita. Ogni società che, professando in astratto
una certa dottrina morale (sia poi ottima, o non sia, poco importa),
non solo rimane molto discosto dalla predicata perfezione, ma opera
ancora in piena contraddizione con quella dottrina, è una società
profondamente corrotta. E tale è la società del Cinquecento, la società
descritta dal Machiavelli e dal Guicciardini.
Facciamoci ora a considerare uno per uno i vizii capitali dell’Aretino,
quelli per cui gli si muovono più aspre censure, e vediamo se e come
s’attenuino, paragonati con le condizioni generali dei tempi, e tenuto
il debito conto delle cause che li producono, e talvolta ancora del
fine cui tendono.
Il Doni chiama l’Aretino il tagliaborse dei principi; ma si dimentica
di dire che i principi erano i tagliaborse dei popoli. Ad ogni modo,
una delle più gravi accuse fatte all’Aretino concerne le arti con le
quali egli carpì denari e regali a principi e non principi, e sguazzò
tutto il tempo di vita sua, o almeno la miglior parte della vita sua,
quella del soggiorno in Venezia. Queste arti, tutte riprovevoli, sono
l’adulazione, la diffamazione, la minaccia, lo scherno, la menzogna.
Ma, quando s’è detto ciò, rimangono molt’altre cose da dire. Bisogna
ricordare quale fosse la condizione dei letterati in quel secolo
XVI, preconizzato il secol d’oro delle lettere. Era, in verità, una
condizione assai triste. Ai giorni nostri, chi fa questo benedetto
mestiere di scriver libri, camperà forse magramente, ma vive del giusto
prezzo delle sue fatiche, ma vive libero, e per poco che s’innalzi
sopra il livello comune, almeno in certi paesi, facilmente arricchisce,
scrive come vuole e di ciò che vuole, impone i suoi patti all’editore,
i suoi gusti e le sue idee al pubblico. Ben altrimenti andava la
cosa nel Cinquecento. Nel Cinquecento il libro non aveva, come ha
oggidì, un valor commerciale definito, e la proprietà letteraria era
poco intesa e meno rispettata. Il letterato non viveva del _prezzo_
dell’opera sua, ma del _premio_ che altri potesse benignamente
largirgli, e tal premio riceveva misura assai meno dal proprio merito
di lui che dalla liberalità maggiore o minore, incerta e capricciosa
del largitore. Il letterato supponeva un mecenate e lo cercava;
viveva all’ombra sua e alle sue spese, si faceva mezzo servo e mezzo
parassita. Si vedono subito le conseguenze di un tale stato di cose.
Vivendo della malsicura munificenza del suo protettore, il letterato
doveva continuamente attendere a che la fonte delle largizioni non si
seccasse; doveva esercitar l’ingegno, e spesso logorarlo, in una lotta
sorda e umiliante, piena di pericoli e di sorprese, nella quale egli
si studiava di estorcere quanto più poteva, e il mecenate, di solito
un principe, cercava di dare il meno possibile; doveva fare del libro
uno strumento e un’arme di quella lotta, piegandolo a mille esigenze
estranee al suo pensiero e all’arte sua. Egli diventava necessariamente
cortigiano, adulatore e bugiardo; si chiamava poeta, storico, o
filosofo, ma era soprattutto un accattone travestito. E nessuno mai
potrà dire quanto danno abbia recato alle lettere nel Cinquecento la
parassita mendicità dei letterati.
Che poi quella vita fosse assai triste, assai dura, anzi al tutto
incomportabile agl’ingegni più nobili, si comprende facilmente: tutti
ricordano ciò che ne lasciò scritto l’Ariosto; Torquato Tasso, molto
ajutato dalla natura, gli è vero, ci smarrì la ragione.
Ora si avvicinavano i tempi di un grande mutamento, così in questa,
come in molte altre cose. Era nata l’arte che doveva redimere lettere
e letterati dall’uggioso patronato dei mecenati, e quest’arte era la
stampa. La stampa mutava il significato, l’importanza, i destini del
libro; essa assicurava, insieme con la base sociale, anche la base
economica della letteratura. Ma era questo un grande rivolgimento,
e un difficil lavoro, che non poteva compiersi in un giorno. Anche
qui bisognava procedere per gradi. Fra la letteratura, chiamiamola
così, di servizio, e la letteratura indipendente, ci doveva essere una
letteratura intermedia, partecipe dell’una e dell’altra condizione.
Fra il letterato che chiede la elemosina e il letterato che mette
in vendita il suo libro, ci doveva essere il letterato che impone
l’elemosina; e questo letterato fu Pietro Aretino.
Pietro Aretino non era uomo da acconciarsi alla condizione ordinaria
dei letterati del suo tempo; l’indole sua, i suoi gusti, non glielo
concedevano. Chiamandosi _uomo libero per la grazia di Dio_, egli dava
a conoscere una delle inclinazioni più forti, dirò uno degli istinti
di quella sua rigogliosa e mal disciplinata natura, tutta impastata di
appetiti voraci. Amò veramente sopra ogni altro bene la libertà, e per
amor di lei adorò Venezia, la più libera città d’Italia in quel tempo,
e la più ospitale a chiunque non pretendesse ingerirsi nella politica.
Non era nato per commisurar la sua vita ai piaceri, o peggio, agli
ordini di un padrone; non poteva soffrire d’avere sopra e d’intorno chi
gli desse soggezione o fastidio. In quel suo amore di libertà, come
in più altre cose sue, c’è molto dell’uomo moderno. Odiava le corti
di odio mortale, e mai non si lasciò sfuggire l’occasione di dirne il
maggior male che seppe. E che quest’odio non fosse ingiusto provano
le infinite voci che d’ogni parte si levano contro di esse. Gabriello
Simeoni chiama la corte
Sepoltura e prigion dell’uomo vivo;
e soggiunge:
Proprio è la corte come una puttana,
Che par bella di fuora, e poscia drento
Parte non ha che si ritrovi sana[135].
Cominciando un suo capitolo intitolato appunto dalla corte, Cesare
Caporali dice che in essa
la vita
È registrata al libro della morte[136].
Un altro perugino, Vinciolo Vincioli, prelato e protonotario
apostolico, piantata, sul finire del secolo, la Corte di Roma, scrive,
pieno l’animo di fastidio e di stizza:
Parmi che in Corte il vivere e il morire
La stessa cosa sia, ed è tutt’una
Il diventar poeta e l’impazzire.
. . . . . . . . . . . . . . . .
Io rassomiglio gentiluomo in Corte
A gentildonna che vive in bordello[137].
Alessandro Allegri, in un capitolo dove sfoga que’ medesimi sentimenti,
grida:
Lo star in corte e l’esser ammalato,
Mi pajon come dir frate’ carnali.
Tanto s’agguaglia l’un all’altro stato.
Cento fra prosatori e poeti descrivono la corte come una sentina
di vizii, una cloaca d’obbrobrii, un ergastolo di miserie, dove,
dice il Garzoni, «i semplici sono beffati, i giusti perseguitati, i
presontuosi e gli sfacciati sono favoriti»; dove «van prosperando gli
adulatori, i mormoratori, le spie, i referendarii, gli accusatori, i
calunniatori, i gaglioffi, i malvagi, le male lingue, i truffatori,
gl’inventori de’ mali, i seminatori di zizania, e altra generazione
di ribaldi»; dove «gli stupri, i rapimenti, gli adulterii, le
fornicazioni, i puttanesimi, le ruffianerie, sono i giuochi e piaceri
de’ cortigiani»[138]. Al Sardo, diventato cortigiano, fa dire Lodovico
Domenichi in uno de’ suoi dialoghi: «E così Dio mi salvi, che ogni
volta che io mi ricordo della mia condizione, non mi par più d’essere
nè libero nè uomo, ma della più misera sorte di schiavi che sia al
mondo»[139]. Ed era in vero, se non sempre, nella più parte dei casi,
una misera condizione e un vile esercizio. Aspettare in anticamera le
mezze giornate che il signore si degnasse di far conoscere il voler
suo; accompagnare il signore di giorno e di notte, a piedi o a cavallo,
dovunque gli piacesse d’andare; correre a staffetta in missione ad ogni
minimo cenno di lui; ajutarlo in mille negozii e in mille intrugli;
non mangiare se quegli non aveva mangiato, non coricarsi se quegli
non s’era coricato; misurare e pesare ogni parola, non dir troppo,
nè troppo poco; camminare, starsi, sedere, ridere, gestire, sempre
con certa osservanza e certo proposito; schermirsi da mille offese
manifeste ed occulte; opporre insidie ad insidie e calunnie a calunnie;
non avere un’ora mai di sicurezza e di pace, e, in premio delle molte
fatiche sostenute per lui, toccar dal signore canate furiose, cadere
subitamente in disgrazia, e vedere dissipate in un giorno le speranze
di molti anni; questi erano, con qualche varietà nella misura e nel
modo, a seconda dei casi, questi erano gli offici, queste le venture
dei miseri cortigiani. Quanti ebbero a trovarsi da ultimo nella
condizione di quegli incauti ed improvvidi, de’ quali dice Vittoria
Colonna che
ne le gran corti consumando
Il più bel fior de’ lor giovenil anni,
Mentre utile ed onor van ricercando,
Sol ritrovano insidie, oltraggi e danni![140].
I più cauti, o i più alteri, o i men bisognosi, talvolta anche coloro
che già erano stati scottati, sapevano starne lontani, e qualcuno vi fu
che del suo starne lontano assegnò le ragioni. Invitato ad andarsene
in corte di Roma, Gerolamo Fenaruolo rispondeva in un suo capitolo a
Vettor Ragazzoni: Che ci farei io, e come potrei durar quella vita?
Io parlo sempre come qui si parla,
E dico pane al pane, e vino al vino,
Senza molto pensier di profumarla.
. . . . . . . . . . . . . . . .
Quando ch’io sudo, voglio dir ch’io sudo,
Quando ch’io tremo, voglio dir ch’io tremo,
E vo’ dir cotto al cotto, e crudo al crudo[141].
Domandato perchè s’ostinasse a rimanere in Provenza e fuggisse le
corti, Luigi Alamanni rispondeva nella satira a Tommaso Sertini,
ricordando le infinite miserie dei cortigiani, confessando di non saper
l’arte che si richiede a salir l’altrui scale, affermando di preferire
la pace a quanti onori e agi si possono avere in corte[142].
Nè questi agi erano poi tali e tanti che potessero compensare e
consolare della miseria morale, della viltà di quella vita; anzi erano
assai scarsi ed incerti. Di regola, i signori, quanto più spendevano e
spandevano in pompe, in sollazzi, e nei mille sfoggi con cui cercavano
di accrescere a sè medesimi lustro e nominanza, tanto più parsimoniosi
e più stretti si mostravano in provvedere ai bisogni di chi li serviva;
e se non lesinavano essi, lesinavano per proprio conto e in proprio
beneficio i ministri. Certo, come non tutti i signori erano eguali,
così non erano eguali tutte le corti; ma se nelle grandi si stava il
più delle volte, anche per questo rispetto, assai male, figuriamoci
come si dovesse star nelle piccole. Giacchè non è in quel secolo così
smilzo signore, non così indebitato cardinale in Roma, che non voglia
avere, come allora si dice, la sua famiglia, e se non una corte intera,
una mezza corte.
Ogni signor di trenta contadini,
E d’una bicoccuzza usurpar vuole
Le cerimonie dei culti divini,
diceva messer Pietro in un capitolo al re di Francia. I cardinali,
per acquistar credito e seguaci, abbisognavano di molti quattrini, e
per metterli insieme, lesinavano sul vitto e sull’altre spese. Onde
l’Ariosto:
Perciò gli avanzi e le miserie estreme
Fansi, di che la misera famiglia
Vive affamata e grida indarno e freme.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Dalle otto oncie per bocca, a mezza libra
Si vien di carne, e al pan di cui la veccia,
Nata con lui, nè il loglio fuor si cribra.
Come la carne e il pan, così la feccia
Del vin si dà, c’ha seco una puntura
Che più mortal non l’ha spiedo nè freccia[143].
Messer Pietro fa dire il resto a Flaminio nella sua _Cortegiana_[144],
e se pur qualcosa vi manca, Cesare Caporali, che in Roma appunto
ebbe a servir cardinali, la supplisce; mentre altri dà ragguaglio di
come si mangiava e si vestiva e si alloggiava nelle corti di assai
principi, che avevano più reputazione che denari, o più boria che
umanità. Ed ecco venir fuori le descrizioni e le dipinture dei non
mai abbastanza detestati e maledetti tinelli, dove, tra povere e lorde
pareti, intorno a rozzi deschi coperti di tovaglie ricamate d’untume,
sedeva promiscuamente una turba affamata, e l’uom di lettere aveva non
di rado commensali gli staffieri e i buffoni; dove, quando non fosse
già incerconito, si annacquava il vino, si misurava il pan raffermo,
la broda di turpi minestre faceva venire il rancico in gola, la vacca
tigliosa disarticolava le mandibole e strappava i denti, e le frittate
erano di così stremenzita complessione che il vento se le portava a
volo. Antonio Cammelli, che d’ogni cosa faceva sonetti, raccontava a un
amico gli orrori del tinello:
Cenando, Fedel mio, jersera in corte.
M’apparecchiar Serafino e Galasso
Una tovaglia lavata col grasso
Che mostrava la mensa per le porte.
Poi le vivande che mi furon porte,
Fu l’insalata mal condita, ahi lasso!
Il pan peloso, più duro che sasso;
Filava il vin, per la paura, forte.
La madre di Buezio avvolta a un osso
Mi dieder prima, che del brodo puro
Aveva ancor la cimatura addosso.
Diedi de’ denti su quel cuojo duro,
(L’un era affaticato e l’altro scosso).
Col culo al scanno e con li piedi al muro.
Allor dissi: — Io non curo
Di questa imbandigion mangiarne troppa.
Ch’io non son uso a pettinare stoppa. —
E poi volsi la groppa
E dissi che chi in corte è destinato;
Se non muor santo si muor disperato[145].
Ora, Pietro Aretino non voleva nè morir santo, nè morir disperato. Non
voleva essere uno di quei letterati morti d’inedia, di cui fa ricordo
Pierio Valeriano, e nemmeno uno di quei _cortigianetti spelatini_ di
cui parla in certa lettera a Gerolamo Agnelli[146]: voleva vivere a
modo suo, parlare a suo senno, mangiare a sua posta, scialarla il più
possibile, e a monsignor Guidiccione, che l’esortava ad andarsene a
Roma, scriveva: «Vorrei piuttosto essere confinato in prigione per
dieci anni, che stare in palazzo»[147]. Ricordava certo predicatore
che «per non si affaticare in disegnar la Corte, mostrò al popolo
l’inferno dipinto»[148]. E chi voglia meglio conoscere l’animo di lui
in proposito legga la sua _Cortegiana_ e il suo _Ragionamento delle
corti_.
Questo è l’inferno da cui l’Aretino volle redimere anzi tutto sè
stesso, e da cui pensò forse di redimere a dirittura le lettere col suo
esempio. Egli si vanta di aver trovato il segreto per rendere i signori
generosi e graziosi, e di avere _con le sue braccia_ aperta ai dotti
una strada, per la quale camminando, possono _farsi beffe degl’intrighi
e delle insidie signorili_. «Io ho scritto ciò che ho scritto», dice in
una lettera dei 3 d’aprile del 1537 a messer Giannantonio di Foligno,
«per grado della virtù la cui gloria era occupata dalle tenebre
dell’avarizia dei signori; ed innanzi ch’io cominciassi a lacerargli
il nome, i virtuosi mendicavano le oneste comodità della vita, e se
alcun pur si riparava dalle molestie della necessità, otteneva ciò
come buffone e non come persona di merito; onde la mia penna armata
dei suoi terrori ha fatto sì che essi riconoscendosi hanno raccolti
i belli intelletti con isforzata cortesia, la quale odiano più che i
disagi»[149].
Ma l’Aretino, non solo amava la libertà, amava anche molto, e forse
troppo, quelle _oneste comodità della vita_ di cui ragiona nella
lettera testè citata, e le quali poi non sempre erano oneste. Madre
natura, bisogna dirlo, l’aveva formato per la vita godereccia,
moltiplicando in lui gli appetiti, dandogli una salute di ferro, uno
stomaco di struzzo, una giocondità imperturbabile, un gusto accorto, un
certo senno alla casalinga, e conservandogli intere negli anni più che
maturi tutte le vigorie della giovinezza. Dobbiamo confessare che con
una complessione fisica e morale come la sua le difficoltà inseparabili
dall’esercizio della virtù si accrescono di molto.
E poi non era egli figliuolo del suo secolo? di quel secolo festaiuolo
e gaudente che, come un dissoluto, si logorò nei piaceri? di
quel secolo inventore di tutte le squisitezze e fastosità? Egli è
l’immagine del secol suo, egli ne raccoglie, ne condensa in sè tutte
le inclinazioni e tutti i bisogni: e se godere il più che si può era
stato sommo ideale di un pontefice come Leone X, qual meraviglia che
fosse di un Pietro Aretino? Nato povero e di vile condizione, egli
è tutto pieno degl’istinti della grandezza, e loda coloro, che, pur
non essendo principi, vivevano come Gerolamo Rovero, «magnificando
la pompa del vestire e la splendidezza del mangiare con nuovi modi
di nobiltà»[150], e dice che «l’uomo tanto si prolunga la vita
quanto adempisce i suoi desiderii»[151]. Perciò buona tavola, casa
signorile, belle donne, conversazione piacevole, ricchi panni, sontuose
suppellettili, quanto il lusso richiede, quanto san procacciare le
arti, erano cose necessarie al suo vivere. E odiava la povertà, non
solo per le privazioni che arreca seco, ma ancora per le angustie
che pone intorno all’animo, per quella necessità che ne porta seco di
misurare ogni atto e ogni pensiero, e di fare dell’aritmetica minuta la
legge e la direttrice della vita; necessità così incresciosa a chiunque
sia di spiriti un po’ rigogliosi, così grave a lui, che si faceva beffe
di coloro «che dan conto a sè stessi di sè»[152]. Noi potremo biasimare
l’Aretino per questo suo modo d’essere, ma dovremo riconoscere in lui
l’uomo del Rinascimento.
Rifiutando di vivere in corte, l’Aretino non poteva vivere senza le
corti, cioè senza i principi; e muovere i principi a dare non era la
più facile cosa del mondo. Io sono ben lungi dal voler giustificare
le arti adoperate dall’Aretino per conseguire i suoi fini; ma dico, e
parmi sia da tenerne conto, che tali arti parevano allora assai meno
riprovevoli di quello pajano ora. L’adulazione era allora in tutte
le bocche, tanto più gradita quanto più smaccata, e andava non solo
da inferiore a superiore, ma ancora da eguale ad eguale. I più onesti
nemmen essi sapevano, o potevano tenersene immuni, e basti ricordare,
lasciando ogni altro esempio, le lodi che da un Baldassar Castiglione
e da un Lodovico Ariosto ebbe il pessimo cardinale Ippolito d’Este. La
ciarlataneria dell’Aretino fu grande certo; ma se c’è un secolo, che a
rispetto d’altri, meriti d’essere chiamato il secolo dei ciarlatani,
il Cinquecento è quello. Un sentimento esagerato del proprio valore,
altro portato, come si sa, di quello spirito della Rinascenza, n’è
senza dubbio la prima cagione; ma poi ci si aggiungono il bisogno e la
concorrenza che fanno il resto. Ed è concorrenza rabbiosa, giacchè i
letterati sono molti e non c’è pane per tutti. Chi non si tira innanzi,
chi non grida e non magnifica la sua merce, chi non promette più di
quanto possa attenere, corre rischio di morirsi di fame. Il Cinquecento
è pieno di queste strane figure d’uomini, che, o si vantano di dare
altrui la immortalità coi versi, od ostentano una scienza ignota e
trascendentale, o propongono certi loro incomprensibili trovati per
acquistare con somma facilità ogni dottrina, o vogliono a dirittura
riformare il mondo. Di tutto e in tutti i modi si batteva moneta. Luca
Gaurico, che l’Aretino chiama profeta dopo il fatto, si buscava, è
vero, per le sue predizioni astrologiche, cinque tratti di corda da
Giovanni Bentivoglio; ma, in compenso, da papa Paolo III il vescovado
di Civitate, con 300 ducati d’oro di rendita, più una buona pensione
e non so che altro. L’Aretino si trovava in buona compagnia, e non mi
pare che fosse il primo della brigata, egli, che spesso confessò di non
sapere le cose che veramente non sapeva, ed erano più che parecchie.
Fausto da Longiano, per esempio, e Giulio Camillo Delminio e Ortensio
Lando, per non citarne altri, mi pajono assai più ciarlatani di lui.
Vero è che Pietro Aretino ebbe come un presentimento di quella più
perfetta ciarlataneria moderna, che, con nome fortunatamente non
nostro, si chiama _réclame_. Notabile a tale proposito una lettera da
lui scritta al saltimbanco Modenese, dove lo prega di volere, con la
naturale eloquenza largitagli dalla natura, «scampanare del suo nome
ben bene»[153].
Si fa un gran carico all’Aretino d’avere usato coi principi, quando
l’adulazione non giovava, la maldicenza, e di avere estorto pensioni
e regali a parecchi, minacciando i furori della sua lingua e della
sua penna. Che egli abbia adoperato così, non si può negare; che così
abbia ottenuto gran parte della sua reputazione, è certissimo; ma non
è il caso di troppo turbarsene, perchè, a dir vero, il giuoco andava
da galeotto a marinaro. I costumi e le usanze dei più di quei principi
si conoscono anche troppo, e il fare stentare chi li serviva, e il
non attenere mai le promesse, non erano certo i loro maggiori difetti.
In verità che l’Aretino fece bene a taglieggiarli, e che facesse bene
parve allora a moltissimi, e moltissimi il dissero, e fra gli altri il
Dolce, che acerbamente lagnandosi, in certo suo capitolo, dell’avarizia
dei principi, esclama:
O Aretino, benedetto voi,
Che vendete li principi al quattrino,
E gli stimate men d’asini e buoi[154].
Da altra banda, dove noi non vediamo se non male, i contemporanei
dell’Aretino spesse volte non videro se non bene. Leggasi, di grazia,
questo passo del _Dialogo della rettorica_ di Sperone Speroni, dove con
altri interlocutori è introdotto il Brocardo, prima che s’inimicasse
l’Aretino[155]:
BROCARDO. Sia al mondo un buono uomo pien d’eloquenza e d’ingegno;
il quale uscito dalla sua patria solo e nudo, quasi un altro
Biante, venga a starsi in Bologna: che farà egli dell’arte sua? Se
egli accusa o difende; ecco un vile avvocato che vende al vulgo le
sue parole: se delibera; non sendo parte della repubblica, i suoi
consigli non sono uditi. Tacerà egli, e fia sua vita oziosa? non
veramente: ma di continuo con la sua penna nella causa dimostrativa
biasimando e lodando, la sua eloquenzia eserciterà. La qual cosa
non per odio o per premio, ma per ver dire facendo, in poco tempo
non solamente da’ pari suoi, ma da’ signori e da’ regi sarà temuto
e stimato.
SORANZO. Questo vostro eloquente (se non m’inganna la simiglianza)
è il ritratto dell’Aretino.
BROCARDO. Io non nomino alcuno; ma chiunque si è, ei non può esser
se non grand’uomo.
Un predicatore, fratello del famoso Fausto da Longiano, giungeva
sino a dire «che a voler riformare la nazione umana, la natura e Dio
non potrebbe ritrovare mezzo migliore, quanto produrre molti Pietri
Aretini».
Del resto bisogna considerare la cosa un po’ più dall’alto, perchè, o
io m’inganno, o di ben altro si tratta che della particolare tristizia
di messer Pietro. I contemporanei non seppero intendere perchè i
principi si mostrassero così benevoli a un uomo che si gloriava di
chiamarsi loro flagello, e si facessero suoi tributarii: l’Aretino
stesso, probabilmente, non riuscì a darsi pieno conto del fatto; ma
noi possiamo intenderlo meglio di loro e di lui. Non vi accorgete che
una nuova cosa era nata nel mondo? Francesco I che lo sollecita ad
andarsene a stare con lui, Carlo V che se lo fa cavalcare a fianco,
Giulio III che lo bacia in viso, gli altri tutti che lo colmano di
onori e di doni, non s’inchinano propriamente all’Aretino, ma a quella
tal cosa, che ancora non ha nome, e che già fa sentir la sua forza. E
qual è questa cosa? Non altro che la libera parola, la quale fissata
e moltiplicata mediante la stampa, corre traverso il mondo, sparge
novelle e giudizii e crea la pubblicità, punge cuori e intelletti e
crea la pubblica opinione, si fa insegna, si fa dottrina, provoca le
fruttifere discussioni, inizia i rinnovamenti. I principi sentono
in confuso che è sorta di mezzo agli uomini una nuova potenza che
può travolgere i troni e spezzare gli scettri, e vengono a patti
con lei, e cercano di farsela amica. Nell’Aretino essi riconoscono
il suo rappresentante; tristo rappresentante, non nego, ma primo.
Valga un esempio. Nel 1536 Francesco I tratta di allearsi col Turco
per andare addosso a Carlo V. Che fa messer Pietro, allora molto
in grazia dell’imperatore? Scrive al re cristianissimo una lunga e
impetuosa lettera, in cui, senza tante cerimonie, gli nega il nome di
cristianissimo e di re, gli rinfaccia di chiamare in proprio ajuto
barbari ribelli a Dio, lo accusa di aver _tirato nel core della
Cristianità lo coltello ottomanico_, lo avverte che non ci sarà
principe cristiano il quale, o per zelo di religione, o per timore
dell’armi turchesche, _non s’armi almen col core_ contro di lui. Tal
lettera non andava al solo re Francesco, andava a tutti i principi,
era divulgata per tutto. E quale effetto doveva recare in un tempo in
cui era vivo negli animi il sospetto e minacciosa la vicinanza degli
infedeli? Questo, di creare una opinione favorevole all’imperatore,
ostile al re. Così appunto il re e l’imperatore la intesero; e questi,
senza dubbio, largheggiò più che mai col Divino; quegli gli fè donare e
promettere perchè non isparlasse di lui[156].
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