Attraverso il Cinquecento - 09

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di attitudini, di maestrie, buone, non a procacciare il paradiso, ma
credito e riputazione nel mondo. Perciò l’avvenenza, la grazia, gli
amabili portamenti, un ingegno pronto e vivace, una varia dottrina, la
destrezza ne’ maneggi, ecc., saranno tutte parti dell’uomo virtuoso. E
virtuoso sarà chi riesce eccellente nell’esercizio di alcuna arte, come
poesia, pittura, scoltura, architettura, musica. Benvenuto Cellini è un
virtuoso. In una lettera a monsignor Guidiccione l’Aretino parla della
_innata bontà e virtù_ del Molza. Virtuosi si chiamano anche oggigiorno
i cantanti. Come mai non avrebbe dovuto essere un virtuoso l’Aretino?
O quanto io son venuto dicendo sin qui manca affatto di ragionevolezza,
o l’Aretino non è quel pessimo scellerato che di lui si vuol fare. Ma
poniamo che sia, e vediamo a quale conseguenza si giunga. Il Berni,
nel suo sonetto, dice l’Aretino venuto in odio a tutti; ma non dice
il vero, perchè l’Aretino ebbe, finchè visse, innumerevoli amici, e
tra gl’innumerevoli moltissimi che furono e sono onore d’Italia. Ora
bisognerebbe dire che tutti costoro fossero una mala gente, dacchè
amavano, accarezzavano, lodavano un così tristo uomo; e cialtroni
a dirittura coloro, e non eran pochi, che, come Sperone Speroni,
insuperbivano di essere amati da lui; e poco men che sgualdrine le
donne, spesso d’alto lignaggio, che lo ringraziavano degli sconci libri
da lui ricevuti; e peggio che sgualdrina Veronica Gambara che chiamava
avventurosa Angela Serena perchè da lui _novellamente amata_. E venendo
ai protettori, con qual nome bisognerebbe chiamare quei cardinali di
Santa Chiesa che lo favorivano e lo raccomandavano al papa? E come si
dovrebbe giudicare Clemente VII che, poco dopo il fatto dei sonetti
lussuriosi, lo creava cavalier di Rodi? Come Giulio III, che lo baciava
in fronte e lo faceva cavalier di San Pietro? Come il duca di Parma,
il troppo noto Pier Luigi Farnese, il quale, dopo essere stato da lui
vituperato, si adoperava perchè gli dessero il cappello di cardinale?
Come Paolo III, padre di esso duca e pontefice, che, per quanto si sa,
non fu troppo alieno dal darglielo? Come Carlo V, che se lo faceva
cavalcare a fianco, altamente onorandolo? Come la sua città natale,
che gli conferiva la nobiltà e il gonfalonierato? Come, in fine, quei
principi tutti che lo blandivano, lo adulavano, lo regalavano, se lo
strappavano l’uno all’altro, e così facendo nutrivano la tracotanza
e la malvagità sua? Non si vede che l’infamia dell’Aretino è infamia
di tutti costoro? Ben lo comprese il Franco, che con impareggiabile
violenza ingiuria i principi tutti che davano al suo nemico, e sopra
tutti ingiuria l’imperatore.
Che pena merteria giusta e spedita
Quel principe gaglioffo che con doni
Contra le leggi gli mantien la vita?
grida egli in uno de’ suoi sonetti. E in un altro:
Se tra voi chi è il più goffo è il più divino,
E se nell’ignoranza fate i calli,
Che gran cosa se date all’Aretino?
I protettori son degni in tutto del protetto. E in verità, di chi s’ha
a stimare più vergognoso il procedere, dell’Aretino, che, dopo averlo
vituperato, chiedeva scusa a Clemente VII, o di Clemente VII che,
dopo quei vituperii, mandava all’Aretino un onorifico breve? E chi più
tristo, l’Aretino che vendeva i servigi e le lodi al duca di Mantova, o
il duca di Mantova, che impermalito di non so che, minacciava l’Aretino
di farlo ammazzare? Ha ragione dunque il Franco quando, in un terzo
sonetto, uscendo dai gangheri, esclama:
O sacre maestà, ch’oggi tenete
Il mondo in mano, o principi preclari,
O becchi svergognati quanti sete!
Di questo dilemma non s’esce: o l’Aretino è migliore della sua fama,
o della sua infamia sono partecipi infiniti; e in tal caso non c’è
ragione di tirar lui solo fuori del mazzo.

V.
Abbiamo considerato l’Aretino sotto l’aspetto morale; consideriamolo
ora sotto l’aspetto letterario. Cerchiamo in lui lo scrittore, vediamo
qual sia, e che giudizio si meriti.
Non ho bisogno di dire che anche per questa parte abbondano i dispregi
e i biasimi dei critici, e che scarso è il numero di quelli a cui
gli scritti dell’Aretino non pajano a dirittura una vergogna della
letteratura italiana, e ciò indipendentemente dalla disonestà e
perversità loro. Non ci curiamo di questi giudizii, che troppo tempo
vorrebbero ad essere ricordati ed esaminati, e procuriamo di formarci
in materia un concetto proprio, e, se possibile, giusto.
Chiameremo noi, col Sinigalia, Pietro Aretino un grande uomo? Sarebbe
invero abusar troppo delle parole. Supposto pure che le facoltà del
grand’uomo le avesse, egli era talmente inviluppato in interessi e
maneggi di bassa lega, che male avrebbero quelle potuto operare e
recar frutto. E poi, queste facoltà superlative, egli non le aveva, e,
checchè paja dire in contrario egli stesso, sapeva di non averle. Il
suo ingegno era un ingegno pronto ed accorto, ma mancava di elevatezza.
Non era in lui quella veduta larga dello spirito che abbraccia nella
loro interezza le cose, nè quella fruttifera curiosità che spinge
alla speculazione o all’indagine. Dice egli stesso che non cercava di
conoscere ciò che è occulto o troppo alto[204]; e in più lettere sue si
ride di coloro che logorano il cervello dietro al perchè delle cose.
Odiava i pensieri che affaticano e turbano, e però accettava la fede
comune e tradizionale, il confessore e le pratiche d’uso, protestando
di non volersi immischiare in certe dispute arruffate, riparandosi
dietro il nome di Cristo, non come un fervido credente, ma come uno
che voglia togliersi d’imbarazzo, e non avere a rispondere di nulla,
dicendo a chi gli dà noja: ecco qua il padrone e il maestro, vedetevela
con lui. I riformatori e gli eretici gli davano ombra al par dei
filosofi: odiava dello stess’odio Platone e Lutero.
A questo proposito mi sembra opportuna una osservazione. L’Aretino fu
reputato, non solo eretico, ma anche ateo, e la prova del suo ateismo
fu cercata principalmente nei suoi costumi e nelle sue azioni. Ma
se in nessun tempo la vita prova a rigore le dottrine, meno che in
ogni altro tempo le prova nel Cinquecento. In quel secolo si poteva
credere, non dirò ferventemente, ma sinceramente, e vivere del resto
come quel _porcus de grege Epicuri_ di cui parla Orazio. La famosa
dottrina immaginata dai gesuiti per conciliare con la devozione la vita
mondana, dottrina che procacciò loro tanto favore e tanta potenza, si
trova applicata di fatto nell’Italia del Cinquecento assai prima che i
gesuiti se ne facessero campioni e maestri.
Poco atto agli alti voli, chiuso alle idee trascendenti ed astruse,
l’ingegno dell’Aretino, ingegno essenzialmente pratico, si trova a suo
agio nel mondo della realtà immediata, fra le cose e gli uomini che gli
sono cogniti e famigliari. Quivi esso si muove con mirabile agevolezza
e si mostra dotato di grande perspicacità. L’Aretino conosce a fondo il
suo tempo, e questa conoscenza spiega in gran parte i suoi successi.
Indicata la qualità dell’ingegno, vediamo ora alcune idee che l’Aretino
aveva in fatto di letteratura, e propugnava con calore; poi daremo una
rapida occhiata alle opere.
L’Aretino aveva, com’è noto, pochissimi studii, e l’accusa d’ignoranza
non fu certo una di quelle ch’egli udì farsi meno frequentemente. Ma
lungi dal vergognarsene, se ne teneva, cercando anche in ciò una prova
della felicità del suo ingegno.
Vivendo in un secolo in cui si pretendeva supplir con lo studio a ogni
mancamento di natura, e in cui poeti formati sui libri credevano poter
emulare Omero ed Orazio solo perchè avevano Orazio ed Omero a mente,
egli si mostrò sempre avverso allo studio insistente, pedantesco,
che toglie altrui il senso vivo e diretto delle cose, e crea nello
studioso una coscienza tutta artificiale, ed estranea al mondo cui
quegli appartiene. «Il soverchio de lo studio», scriveva all’amicissimo
suo Agostino Ricchi, «procrea errore, confusione, maninconia, colera
e sazietà», e raccomandava gli ozii opportuni, dicendo: «Non si sa
egli, che le vacazioni sono il giardino in cui si ricrea il vigore de
lo intelletto?»[205]. Dava alla natura assai più importanza che non
allo studio, giacchè, diceva, «dalla culla e non dalla scola deriva
l’eccellenza di qualunque ingegno mai fusse»[206]. Sentiva che nel
genio c’è qualche cosa di spontaneo e d’inconsapevole, di dato e non
fatto, che appunto è uno dei caratteri suoi più notabili. Diceva che
i _poeti da senno_ «si ragguagliano a i fonti, i quali scaturiscono
l’acque vive, limpide e dolci, non sapendo perchè, nè in che
modo»[207]. Ottima sentenza, ma assai dura a quei poeti senza numero
che vivevano truffando i mezzi versi, e i versi interi, ai classici, o
al Petrarca. Affermava inoltre l’artificio vero esser quello «che nasce
dal naturalmente vivace in la penna, e non quello che si ritrae dallo
studio ne i libri»[208]. Non già che alla natura dèsse tutto il merito,
e nulla stimasse lo studio e l’esercizio. Nelle sue lettere lodava
spesso chi attendeva a studiar con impegno, e ad un giovane, Antonio
Gallo, scriveva: «Sappiate pure che la natura senza la esercitazione
è un seme chiuso nel cartoccio, e l’arte senza lei è niente»[209]. Ad
ogni modo val più assai un buon ingegno naturale, cui manchi lo studio,
che non un povero ingegno infarcito di dottrina, giacchè _il giudicio
è figliuolo de la natura e padre de l’arte_, «e il litterato, che ne
è privo, può simigliarsi a un armario pien di libri»[210]. Certo, così
dicendo, l’Aretino faceva un po’ il _Cicero pro domo sua_, ma non è men
vero che diceva bene, e che non sarebbe agevole trovare in quel secolo
chi dica altrettanto in modo così chiaro e reciso.
Ponendo l’ingegno sopra lo studio, la natura sopra l’arte, l’Aretino
implicitamente condannava la imitazione, altra piaga del suo tempo; ma
non lasciò di condannarla anche esplicitamente, e sempre con grande
vivacità di parole. Innumerevoli sono le lettere dove egli biasima
e svergogna la frega di coloro che volevano rifare ciò che altri
avevan già fatto, o mutar sè in altri, impresa sciocca e disperata. I
petrarchisti non ebbero avversario più risoluto di lui, e s’egli pur
ne loda qualcuno, il fa, pur troppo, per ragioni in tutto estranee
al suo convincimento. Alcuna volta distingue gl’_imitatori_ dai
_rubatori_[211]; ma ciò solo per una caritatevole concessione fatta
all’amicizia. Raccomandava a tutti di seguitar la natura, dicendo
che i precetti di lei avanzano quelli di qualsiasi Orazio[212], e di
seguitarla si gloriava assai egli stesso. Al Doni scriveva: «andate
pure per le vie che a voi mostra la natura se volete che gli scritti
vostri faccian stupire le carte dove son notati»[213]; e a Vincenzo
Fedeli, oratore della Repubblica in Milano: «chi ha qualche spirito
di natura non tiene uopo de la stitichezza, che lambicca a gocciola
a gocciola alcune paroline sì magre, che non solo vituperano i
concettuzzi, che pur vorrebbero esprimere, ma intrigano altrui di
sorte, che chi legge i sogni loro sognano nella maniera che sognano
essi»[214]. Ed egli otteneva lode da parecchi, tra gli altri da Paolo
Manuzio, per essersi scostato dal _comune sentiero_, per aver lasciate
le vestigia dei maestri, cosa che sgomentava ancora, tanti anni dopo,
l’ortodossia letteraria del povero Mazzuchelli[215].
Da tutto ciò si ricava che l’Aretino sentiva il bisogno di un’arte,
più particolarmente di una poesia, meno artificiale, meno accademica,
più intimamente connessa con la vita, e che dalla vita, direttamente,
traesse l’inspirazione e gli spiriti. Il poeta, secondo lui, deve aver
l’occhio alla natura, non ai modelli; vivere con la natura in comunione
vitale e continua, imparare da lei l’arte sua. Ardito pensiero in un
tempo in cui si aveva per ogni maniera di componimento una ricetta
bella e fatta, e l’_arti poetiche_, composte dietro gli esempii di
Aristotele e di Orazio, insegnavano a fabbricar poemi epici, commedie,
tragedie di perfetta fattura, e ora, a noi, d’insopportabile lettura;
in un tempo in cui, dovendosi parlare di pubblici eventi e di pubbliche
occorrenze, non si guardava tanto a ciò che il caso richiedeva, quanto
a ciò che aveva detto Cicerone quindici secoli prima. L’Aretino ebbe
tale un sentimento della originalità quale non si trova in nessuno de’
suoi contemporanei, e primo in Europa levò il grido di ribellione che
poi il Francese raccolse nel verso famoso:
Qui nous délivrera des Grecs et des Romains?
Ciò spiega pure la sua ammirazione sconfinata, il suo amore
appassionato per artisti come il Tiziano, che movevano dalla natura
per giungere all’arte. Egli stesso vedeva le cose con gli occhi di un
pittore, e le impressioni vigorose e vive che riceveva dalla natura lo
dispensavano dall’andar ricercando nei libri le impressioni altrui. Noi
che abbiam sempre in bocca la natura, la spontaneità del sentimento, la
relazion necessaria della poesia con la vita; noi che abbiamo scosso il
giogo dei modelli detti insuperabili, banditi i tipi e le forme fisse,
bruciate le arti poetiche, e fatte, almeno a parole, tant’altre belle
cose, noi non possiamo, senza contraddirci, non riconoscere in Pietro
Aretino uno dei nostri.
Da questo bisogno di libertà e di larghezza, sentito non meno
vivamente nell’arte che nella vita, si generano nel nostro autore
alcune ripugnanze, alcune avversioni di cui è a tener conto, sebbene
non sempre le palesi egli stesso. Loda molto in pubblico lo stile dei
prosatori gravi e corretti, come il Bembo e monsignor Della Casa, ma
si sfoga poi nella intimità dell’amicizia, deridendo i boccaccevoli,
burlandosi di quel sonaglio del verbo in ultimo, dicendo che si deve
scrivere come il bisogno richiede e l’anima detta. Bella massima, ma da
lui stesso poco seguita, e vedremo perchè. Per certi uomini professa
palesemente grande ammirazione, ma senza dubbio li ha in uggia nel
secreto dell’anima, appunto perchè rappresentano tendenze e dottrine
in tutto opposte alle sue. Tali il Bembo e il Varchi, per non citarne
altri. E quando egli dice di temere il giudizio del Bembo e di volersi
stare in tutto alla sua sentenza[216], mente e si burla di chi gli
crede. A tal proposito si vuol notare che l’Aretino si mostra spesso
assai buon giudice del valore e delle riputazioni altrui, e che se in
moltissimi casi non appar tale, se molti giudizii suoi sono esagerati
od erronei, gli è che il più delle volte c’entra di mezzo qualche
ragione di utilità e di convenienza. Riconosce che Erasmo «ha islargati
i confini de l’umano ingegno»[217]; ma nell’istesso modo leva a cielo
taluno di cui persino il nome sarebbe perduto, se egli non l’avesse
scritto in capo di una lettera.
Molte altre cose odia l’Aretino. Odia le accademie e i loro
_ciarlamenti_, e _pecora giojellata_ chiama un cavalier Mainoldo,
uno di quei fastidiosi recitatori di lezioni accademiche[218] di cui
non è ancora spento il seme. Vero è che poi troviamo lui pure socio
di più accademie. Odia i rifacimenti, come quello che dell’_Orlando
Innamorato_ fece il Berni, giacchè stima infamia «il porsi al viso del
nome la mascara de i sudor dei morti»[219]. Odia tutto ciò che sa di
vieto e di muffito, ed ha il sentimento della lingua viva come pochi
allora mostran d’avere. «Volesse Iddio», scrive a Lodovico Fogliano,
«che le prose masticate dalla continua diligenza di molti, fossero così
pure e così usate come son le parole, che mentre parlate vi trae di
bocca l’uso famigliare della favella». E soggiunge: «Che abbiam noi a
fare dei vocaboli usati non si usando più? A me par vedere ser Apollo
con le calze a campanile, quando veggio uopo in collo di questa e di
quella canzone»[220]. Odia l’infinito stuolo dei cattivi e pessimi
poeti che assordavan l’Italia, dolendosi che sino ai maestri di stalla
facessero versi[221]. Ma odia sopra ogni altra cosa i pedanti; e ciò
si capisce, perchè i pedanti personificano tutte le tendenze avversate
da lui. Molti nemici e derisori ebbero i pedanti nel Cinquecento[222],
ma nessuno più acerbo dell’Aretino, che, e nelle commedie, e nelle
lettere, e in molti altri scritti suoi non lascia di beffarli, di
tartassarli e di vituperarli. In una lettera al Marcolino li paragona
alle femmine presuntuose e sciocche, le quali sempre vezzeggian sè
stesse: «quelle quattro letteruzze ch’essi hanno, sono i belletti, con
cui tentano d’abbellirsi il ceffo della fama, che gli pare avere»[223].
Gli chiama goffi; dice che standosi essi sempre confitti negli studii
non sanno nemmen d’esser nati: e in un’altra lettera allo stesso
Marcolino si ride «di quella assidua pazienza, che tormenta lo stuolo
della pedagogaria, che mura il sesso di tali ne gli scanni de gli
studi, che i da pochi frequentano lo intero di tutti i dì e la somma
di tutte le notti»[224]. Si ride dei _Ciceroni salvatichi_ come se ne
rideva Erasmo: si burla di chi, come l’Ubaldino, _crepa di studio_; e
i così fatti, con bella invenzione di vituperio, chiama _asini degli
altrui libri_[225]. Del resto l’Aretino ha della pedanteria, o, se
meglio piace, nel caso presente, del pedantismo, un concetto assai
più largo, più curioso e più notabile che i suoi contemporanei non
abbiano. Per lui, uomo pratico, e tutto del suo mondo, è pedante,
non solo chi si sta sempre a cavallo della grammatica, chi insegna
ai putti, chi parla un gergo sciagurato che non fu mai vivo, insomma
il tipo notissimo della commedia e della novella; ma, in generale,
chiunque non sappia veder la vita che traverso le pagine dei libri,
chiunque sconoscendo la necessità dei tempi, le opportunità delle cose,
in una parola il vivo della storia, pretende di restaurare comechessia
l’irrevocabile passato. Perciò la pedanteria non è delle sole lettere,
ma della politica ancora e di tutto il resto. «I pedanti,» egli dice,
«poichè hanno assassinato i morti, e con le lor fatiche imparato a
gracchiare, non riposano fino a tanto che non crocifiggano i vivi. E
che sia il vero, la pedanteria avvelenò Medici, la pedanteria scannò il
duca Alessandro, la pedanteria ha messo in castello Ravenna e, quel che
è peggio, ella ha provocata l’eresia contra la fede nostra per bocca di
Lutero pedantissimo»[226]. Lasciamo stare Martin Lutero e il cardinal
di Ravenna; ma gli è certo che la pedanteria, intesa a quel modo che
s’è notato, ebbe molta parte nel tirannicidio, rimesso dal secolo XVI
in onore. Lorenzino de’ Medici si paragonava da sè stesso a Timoleone;
Pier Paolo Boscoli sognava di emulare Bruto.

VI.
L’Aretino componeva con somma facilità. Ridendo di coloro che non san
mai levarsi dal tavolino, diceva che la sua natura sputava «fuor dello
’ngegno ogni sua cosa in due ore»[227]. E si vantava di non lavorare
più di due ore per mattina, e di non aver d’altro bisogno, per compor
le sue opere, che di una penna, di un po’ d’inchiostro, di un manipolo
di carta. Gli è che egli portava dentro di sè tutto il suo mondo.
Negli anni maturi quella grande facilità gli venne scemando, e nel 1537
scriveva a Francesco Dall’Arme: «La vecchiaja mi impigrisce l’ingegno,
ed amor che me lo dovria destare, me lo addormenta. Io soleva fare XL
stanze per mattina, ora ne metto insieme appena una; in sette mattine
composi i _Salmi_, in dieci la _Cortegiana_ e il _Marescalco_, in
XLVIII i due _Dialoghi_, in XXX la Vita di Cristo»[228].
È impossibile lavorare in tal modo e raggiungere la perfezione.
L’Aretino lo sa, e conosce assai bene ciò che manca alle cose sue, le
quali certamente furono ammirate più dagli altri che da lui stesso.
Non bisogna badare a certi suoi vantamenti, che hanno sempre uno scopo
pratico. Quando non è forzato a decantar la sua merce, il giudizio
ch’egli ne dà è giudizio tutt’altro che indulgente. «Dal buono e
non da lo assai nasce la gloria de le composizioni», si legge in una
lettera a Giovanni Agostino Cazza[229]. Egli sa che piegando l’arte
al vantaggio si uccide l’arte, e parla con certa amarezza delle carte
che gl’imbratta _lo stimolo del disagio, e non lo sprone della fama_.
Al Bembo scriveva: «A me bisogna trasformare digressioni, metafore e
pedagogarie in argani che movano, ed in tanaglie che aprano. Bisognami
fare sì che le voci de i miei scritti rompino il sonno de l’altrui
avarizia, e quella battezzare invenzione e locuzione che mi reca
corone d’auro e non di lauro»[230]. Al duca di Mantova scriveva che
del pensiero ch’ei faceva di certo suo componimento era secretario
il fuoco[231]. Dal Marcolino, suo compare, fece bruciare tremila
stanze del poema di Marfisa[232]. Del titolo di divino, datogli anche
dall’Ariosto e da Bernardo Tasso, e largito del resto a molt’altri,
si fregiava volentieri, perchè gli cresceva credito, ma era il primo
a farsene beffe[233]. Teneva i proprii capitoli superiori a quelli del
Berni; ma scemava a sè stesso il merito dell’averli composti giudicando
assai severamente, e, bisogna pur dirlo, non malamente, la poesia
bernesca, dicendo che «la fama di coloro che invecchiano drieto a lo
scriver ciancie da riso è ridicola»[234].
Non è dunque un deficiente sentimento d’arte che spinga l’Aretino a
scrivere come scrive; ma, per una parte, certa naturale sua foga, per
un’altra il mestiere.
Anzi l’Aretino ebbe sentimento d’arte vivissimo, e quand’altro non ci
fosse in favor suo, basterebbe a redimerlo da quella geenna d’infamia
in cui fu posto l’amore pien d’entusiasmo che professò tutto il tempo
di vita sua per la statua e pel quadro; quell’amore che lo fece, più
che amico, fratello al Tiziano; quell’amore che lo spingeva a chiedere
con tanta istanza al Buonarroti di quei disegni che _dava al fuoco_, e
a pregare il Vasari di procacciargliene. Ora, questo amore, specie alla
pittura, non è senza importanza per noi, che ricerchiam lo scrittore.
«Io mi sforzo», diceva l’Aretino al Valdaura, «di ritrarre le nature
altrui con la vivacità con che il mirabile Tiziano ritrae questo e quel
volto»[235].
E bisogna dire che qualche volta ci riesce, e forse ci sarebbe riuscito
sempre, se non fossero state le ragioni di quel maledetto mestiere.
Nell’Aretino ci sono, a dir proprio, due scrittori, assai diversi tra
loro, anzi opposti a dirittura: l’uno che scrive per amor di guadagno,
mentendo affetti e pensieri, cercando i soggetti utili; l’altro che
scrive senza preoccupazioni, abbandonandosi all’impulso geniale di ciò
che _detta dentro_; quello tutto ammanierato, vacuo e falso; questo,
vero, naturale, efficacissimo. Leggete ciò che l’Aretino scrive, quando
vuol levare a cielo qualcuno di cui veramente non gli cale più che
tanto, ma da cui si ripromette vantaggio: ciò che gli esce dalla penna
è della peggio retorica che si possa imaginare, e in quelle pagine,
gonfie d’iperboli pazze, e tutte chiazzate di metafore strane si sforma
l’aspetto delle cose, come si snatura l’indole d’ogni sentimento. È
l’Aretino di parata, l’Aretino cui bisogna _trasformare digressioni,
metafore, e pedagogarie in argani che movano, ed in tanaglie che
aprano._ Ma leggete ciò che l’Aretino scrive per proprio conto, per
isfogar l’animo, per intrattenersi con gli amici più intimi: trovate
un tutt’altr’uomo, e c’è da rimaner meravigliati in vedere come lo
scrittore ampolloso e affettato, lo scrittore che pareva non potesse
dir cosa senza alterarne in qualche modo l’essere, lo scrittore
esagerato e iperbolico, riesca un osservatore diligente, un descrittore
vero ed efficacissimo di quanto gli sta d’intorno. Veramente egli vede
le cose con l’occhio con cui le vedeva il Tiziano, e la visione avuta
sa rendere felicemente con la parola, facendo della penna un pennello.
A persuadersi di ciò basta leggere certe lettere sue. Non ricorderò
quella famosa al Tiziano, dov’è descritto il Canal Grande sull’ora
del tramonto, perchè troppo nota e troppo spesso citata[236]. Certo
essa è un documento assai singolare; ma altre ce n’ha, non meno
importanti a mio giudizio, e che sono veri quadri di genere. Leggasi
quella dov’è narrata la vita semplice e pacifica di Simone Bianco
scultore[237]; leggasi l’altra in cui si ricordano con desiderio scevro
di amarezza i bei tempi passati, i facili amori e l’altre scapestrerie
giovanili[238]: se ne legga una assai breve, dove l’autore ringrazia
frate Vitruvio dei Rossi, che gli aveva mandato a regalare certe
ghiottornie minute[239]. Si vegga con quanta vivacità è ritratto quel
Pietro Piccardo, che sapeva tutte le storie e tutti i fatterelli del
tempo, cortigiano finito, sempre tra donne[240]. Si vegga con quanta
festività, con quanta arguzia è descritto il vivere spensierato di
questo stesso Piccardo e di monsignor Zicotto, che si facevano «portare
come un pajo di pontefici, dando giubilei, intimando concilii e
canonizzando santi»[241]; con quanta evidenza è ritratto lo spettacolo
pieno di varietà e di movimento, a cui l’Aretino cotidianamente
assisteva dalle finestre di casa sua sul Canal Grande[242]; con quanto
sentimento del pensare e della vita del popolo sono descritte le smanie
e gli anfanamenti per il giuoco del lotto[243]. Non si lasci di leggere
ciò che nel _Ragionamento delle corti_ è narrato dei capricci di Fra
Mariano, e poi si dica se nel Cinquecento sono molti che abbiano il
senso della realtà così desto e così perspicace; che scrivano così
vivo, con efficacia così ingegnosa e al tempo stesso così spigliata,
con tanta virtù di rilievo e di colorito.
E qui tocchiamo allo stile dell’Aretino, intorno a che ci sarebbe,
volendo, molto da dire. L’Aretino pretese di essere un novatore in
fatto di stile e molti dei contemporanei gli diedero ragione. In un
capitolo dove il Fenaruolo si rallegra con Domenico Veniero dei nuovi
onori ricevuti, si legge:
Udirete il signor Pietro Aretino
Cantar in quel suo bravo primo stile,
Che gli diede il cognome di divino[244].
E Ortensio Lando nella _Sferza de’ scrittori antichi e moderni_[245]:
«Se pertanto leggerete gli scritti del divino Pietro Aretino egli
vi condurrà all’alta rocca della toscana eloquenza, e condurravvi
per vie inusitate e nove, non più calpestate da veruno; scorgeretevi
per dentro alcuni lumi meravigliosi, da’ quali intenderete quanto
possa natura senza l’ajuto dell’arte». E novatore egli fu veramente.
Anche qui noi troviamo l’Aretino in contrasto con la tradizione,
ribelle all’autorità. Egli ha in uggia lo stile di prammatica, lindo,
corretto, misurato con le seste, architettato secondo le regole, tutto
riscontri simmetrici e appoggiature meditate. Per lui lo stile non è
architettura, ma scoltura e pittura, e deve prender forma e colore da
ciò che si muove nell’animo, e piegarsi, non ad una legge astratta di
compostezza e d’armonia, ma, volta per volta, a quella che è indole
propria del soggetto. Il suo sogno è di poter tradurre nelle parole il
plastico delle cose, la intensità e il fervor della vita; e conscio
di riuscirci in una certa misura, esclama: «attengasi a me chi ha
rilievo nelle rime ed efficacia nelle prose, e non chi mostra profumi
ne gl’inchiostri e miniature nelle carte»[246]. In una lettera famosa
al Comandator d’Alcantara dice che ne’ versi suoi «si tondeggiano
le linee delle viscere, si rilevano i muscoli delle intenzioni, e si
distendono i profili degli affetti intrinsechi»[247]. A Bernardo Tasso
rimprovera d’essere «più inclinato all’odor dei fiori che al sapore
dei frutti»[248]. Abusa del colorito, e ha certi procedimenti di stile
in tutto simili a quelli dei moderni seguaci del naturalismo o verismo
letterario; per esempio usar l’aggettivo in maniera di sostantivo.
Naturalmente, con tanta preoccupazione del vistoso e dell’efficace, con
voler far produrre alle parole la impressione che producono le cose,
l’Aretino spesso rompe _lo fren dell’arte_, passa i segni del buon
gusto e del buon giudizio, e s’impania in quelle iperboli sformate, in
quei traslati mostruosi, in quegli aggrovigliamenti di concetti e di
parole, in quella sofistica dello stile, che rendono insopportabile a
noi la lettura di moltissime pagine sue, ma che hanno riscontro negli
scritti di più di un verista moderno. Perciò egli fu considerato come
l’iniziatore e come il padre di quel mal gusto che ebbe tra noi il
nome di secentismo. Lo Chasles, il quale in più altre occasioni mostra
buon accorgimento, dice a tale proposito: «Le seicentisme date da
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