Attraverso il Cinquecento - 16

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egli chiama col nome di Madonna non altrimenti che se fosse Beatrice o
Laura, di una forza _insuperabile, infinita_ della bellezza, che è, non
pure un _privilegio_, ma cosa venuta di cielo[494]. Tale linguaggio,
usato con una cortigiana, sarebbe più che ridicolo, non fosse il
carattere speciale, starei per dire la dignità, che la cortigiana
acquista in quel tempo, fatta quasi sacerdotessa, non di una persona
divina, ma di ideali semidivini di bellezza, di grazia e di piacere.
La Veronica doveva avere assai buona coltura; i suoi scritti lo
attestano, i suoi adoratori lo affermano. Apollo, dice un di essi a lei
stessa, inspira benignamente in voi tutto il suo sapere.
E mentre questo in gran copia v’infonde,
Move la chiara voce al dolce canto,
Ch’a’ bei pensier de l’anima risponde.
La penna e ’l foglio in man prendete intanto,
E scrivete soavi e grati rime
Ch’ai poeti maggior tolgono il vanto.
Ella è donna
E di costumi adorna, e di virtude,
Con senil senno in giovenil etade[495].
Dopo quanto abbiam veduto nelle pagine precedenti, quella lode data ai
costumi e quel riconoscimento di virtù non ci debbono far meraviglia.
Un altro adoratore molto acceso, o forse, come ho accennato già, quello
stesso di ora, assevera che, in iscienza e in virtù, Minerva sta molto
sotto alle Veronica, la quale, _con leggiadri e candidi costumi_,
dilettò il mondo in guisa che tutti ardono e si consumano per lei.
Gran pregio, in sè tener unitamente
Rara del corpo e singolar beltate,
Con la virtù perfetta de la mente!
Di così doppio ardor l’alme infiammate,
Senton lor foco di tal gioja pieno,
Che, quanto egli è maggior più son beate[496].
Notevoli versi, che chiariscono più di quanto potrebbesi fare con lungo
discorso, l’indole della coltura in quel secolo, e spiegano il fascino
che le cortigiane simili alla Veronica esercitavano sugli uomini che di
quella coltura eran partecipi.
La Veronica doveva conoscere più lingue, e della italiana doveva
conoscere parecchi di quelli che allora, con impropria denominazione,
addimandavansi stili. In una lettera si dice pronta a rispondere altrui
in qual lingua si voglia[497], e rimbeccando quel tale che in una
canzone l’aveva biasimata, grida bravamente:
La spada, che ’n man vostra rade e fora
De la lingua volgar veneziana,
S’a voi piace d’usar, piace a me ancora:
E, se volete entrar ne la toscana,
Scegliete voi la seria, o la burlesca,
Chè l’una e l’altra è a me facile e piana,
Io ho veduto in lingua selvaghesca
Certa fattura vostra molto bella,
Simile a la maniera pedantesca.
Se voi volete usar o questa o quella,
Ed aventar come ne l’altre fate
Di queste in biasmo nostro le quadrella;
Qual di lor più vi piace, e voi pigliate,
Chè di tutte ad un modo io mi contento,
Avendole perciò tutte imparate.
Per contrastar con voi con ardimento
In tutte queste ho molta industria speso;
Se bene, o male, io stessa mi contento.
. . . . . . . . . . . . . . . .
O la favella giornalmente usata,
O qual vi piace idioma prendete
Chè ’n tutti quanti sono esercitata[498].
Sapeva la Veronica di latino? Direi di no, perchè ella non se ne
vanta, e perchè appena si trova nelle sue lettere un pajo di frasi
latine[499]; ma giova notare che in quel secolo, in cui la lingua di
Roma era il fondamento degli studii, e moltissimi riuscivano a parlarla
e scriverla correttamente, un pochino se ne appiccicava anche a chi
non l’aveva studiata. Tale sarà stato il caso della nostra Veronica,
la quale non ignorava punto del resto, e le lettere sue ne fan fede,
le storie e le favole dell’antichità, i nomi e i libri degli antichi
scrittori, come non ignorava la corrente filosofia de’ suoi tempi. E
allo studio sembra portasse passione sincera. Scrivendo a un signor
N., che ella dice di amare con affezione infinita, si dice lieta che
l’amore, sebbene le procacci molti e aspri tormenti, le dia modo di
esercitarsi negli _studii umani_ con spesso scrivere a lui, _che n’è
tanto assiduo, ed intendente_[500]. Amando, ella coltiva la poesia e
gli altri studii leggiadri:
Lassa! la notte e ’l dì far prose e versi
Non cesso in varia forma e in vario stile,
Sempre a un oggetto co i pensier conversi[501].
Una delle sue lettere, la XVII, è il più curioso documento che
immaginar si possa del gran concetto in che ella ha lo studio e
la coltura, e, insieme, dello spirito di quella età singolare. Un
giovane, innamoratosi perdutamente di lei, la preme con istanze
importune, e nulla ottenendo, dà in ismanie, e vuol partirsi di
Venezia. La Veronica molto saviamente lo avverte che s’egli l’ama
davvero, poco gli gioverà il partirsi, anzi aumenterà le sue pene,
e che, da altra banda, con quell’_andar vagando e strepitando giorno
e notte nell’importuno assedio della sua servitù_, farà poco frutto,
attesochè ella ne lo terrà _giovane ozioso e vano, inclinato alla ruina
dell’appetito più che alla edificazione della ragione_. Se vuole avere
qualche ragionevole speranza dell’amor di lei, tenga altro modo, viva
_vita riposata nella tranquillità dello studio_, e le faccia vedere
spesso il profitto ottenuto _nell’essercizio dell’oneste dottrine_,
chè nessun’altra cosa le può esser più grata di questa. «Voi sapete
benissimo, che tra tutti coloro, che pretendono di poter insinuarsi
nel mio amore, a me sono estremamente cari quei, che s’affatican
nell’essercizio delle discipline, e dell’arti ingenue delle quali (se
ben donna di poco sapere, rispetto massimamente alla mia inclinazione,
ed al mio desiderio) io sono tanto vaga, e con tanto mio diletto
converso con coloro che sanno, per aver occasione ancora d’imparare,
che, se la mia fortuna il comportasse, io farei tutta la mia vita,
e spenderei tutto ’l mio tempo dolcemente nell’Academie degli uomini
virtuosi». Strane meretrici davvero, e non meno strani spasimanti, che
dovevano fare un apposito corso di studii e dar con profitto gli esami
prima di poter entrar loro in grazia! Le Diotime e le Aspasie del tempo
antico non credo chiedessero tanto.
La Veronica aveva, non solo coltura letteraria, ma anche artistica.
In un tempo in cui erano così largamente diffusi il senso e il gusto
dell’arte, e quando il perfetto cortigiano doveva _saper disegnare,
ed aver cognizion dell’arte propria del dipingere_[502] e dell’altre
arti ancora, la perfetta cortigiana doveva ella pure intendersene
alquanto e saperne ragionare a proposito. In Venezia, dove erano
tante mirabili opere di architettura, di pittura e di scoltura, e
tanti sommi artefici, non mancava certo occasione di affinar l’occhio
e il giudizio. Nella lettera XXI, la Veronica, che contava tra’
suoi amici il Tintoretto[503], nega risolutamente che gli antichi
pittori e scultori sieno stati da più dei moderni. «Io ho sentito
dire a galantuomini non poco versati nell’antichità, e di quest’arte
intendentissimi, che sono stati ne’ nostri tempi, e sono oggidì
pittori e scultori, i quali non solo pareggiare, ma anco preporre si
deono agli antichi». Ch’ella poi s’intendesse di musica non occorre
quasi avvertire; cantava con molta soavità, e sonava più strumenti.
Un ammiratore sconosciuto, di cui non sappiamo altro se non che si
chiamava Lorenzo, diceva in un capitolo in dialetto veneziano, inedito
e sconosciuto, dopo aver lodato le meravigliose bellezze di lei:
Co dè per solfezar la vose al son,
Co nasce dall’ut re mi fa sol là,
Vu fe mazor miracoli d’Anfion[504].
La Veronica sapeva d’avere ingegno. Ad uomo di grande pregio amato da
lei, ma di cui ci è ignoto il nome, scriveva:
Non è d’ingegno indizio oscuro e incerto,
C’ha gusto de le cose più eccellenti.
Conoscer, e stimar il vostro merto[505].
Le lodi assai le piacevano, e gliene venivano d’ogni banda, e non
pare le stimasse disdicevoli alla sua condizione, sebbene dicesse
talvolta di crederle troppo maggiori del suo merito. A un amico, che
le aveva mandato quattro sonetti laudatorii, scriveva ricordando _la
sodisfazione, che prende ogni cuor veramente nobile del far cortesia,
massimamente alle donne_[506]. Godeva d’udirsi chiamare _d’Adria ninfa
gentile_, e di veder celebrati, insieme con la bellezza sua, i suoi
versi, il suo ingegno, le sue alte maniere; e se a un poeta vinto dal
furore ascreo veniva in fantasia di chiamarla
Vera, unica al mondo eccelsa Dea,
ella lo lasciava sfogare a suo senno. Era anzi riconoscentissima a
chi la lodava e assai di buon grado lodava a sua volta i lodatori. A
uno di questi promette di voler ornare e innalzare (son sue parole) la
propria lingua col celebramento delle virtù di lui, e fregiarsi l’animo
col ricchissimo concetto de’ suoi gran meriti[507]. Abbiam veduto che
le lodi erano tutt’altro che parsimoniose e tutt’altro che timide; ma
non sappiamo ancora sin dove potessero giungere e che forme sfoggiate
potessero prendere. Per saperlo ci giova udir quelle che fa rimbombar
all’aria l’autore dei due capitoli IX e XI; saranno esse come la chiusa
o il finale strepitoso di un pezzo concertato, o, se meglio piace, come
la sparata che termina un fuoco artifiziale. Angelico è il sembiante
della Veronica; leggiadre e sante sono le _luci_ che splendono in quel
volto di _unica bellezza_, anzi nel _sole_ di quel volto, cui allieta
il _tranquillo seren del vago riso._
Ma l’intelletto, che sì chiaro dielle
Il celeste motor a sua sembianza,
Unito in lei con l’altre cose belle,
Quegli altri pregi in modo sopravanza,
Che l’uman veder nostro non perviene
A mirar tal virtute in tal distanza.
A pena l’occhio corporal sostiene
Lo splendor de la fronte, in cui mirando
Abbagliato e confuso ne diviene.
_Bellezze eterne, splendor celeste,_
Che d’ir al Cielo insegnano il viaggio!
_Terrena Dea, alto e novo miracolo, luce impressa del raggio della
divinità, paradiso!_
L’aura soave, e ’l prezioso odore,
Che da le rose de la bocca spira
Questa figlia di Pallade e d’Amore,
Nutrimento vital per tutto inspira,
Sì ch’a quel refrigerio in un momento
Tutto risorge, e rinasce, e respira.
Queste lodi parvero eccessive alla stessa Veronica, la quale non
si dimenticava poi mica d’esser una cortigiana, come pare se ne
dimenticasse talvolta quella smancerosa di Tullia d’Aragona. Non solo
non se ne dimenticava, ma anzi, a tempo opportuno, se ne teneva. In un
capitolo di risposta all’acceso e querimonioso amatore che compose il
capitolo I, ella vanta, con molta schiettezza e con pari precision di
linguaggio, attitudini e perizie che non son quelle propriamente del
compor versi e del sonare il liuto, e afferma d’aver appreso da Apollo
altre arti che quelle non sieno da lui solitamente insegnate:
Febo, che serve a l’amorosa Dea,
E in dolce guiderdon da lei ottiene
Quel che via più che l’esser Dio il bea,
A rivelar nel mio pensier ne viene
Quei modi che con lui Venere adopra
Mentre in soavi abbracciamenti il tiene.
Ond’io instrutta a questi so dar opra
Sì ben nel letto, che d’Apollo all’arte
Questa ne va d’assai spazio di sopra;
E ’l mio cantar, e ’l mio scrivere in carte
S’oblia da chi mi prova in quella guisa,
Ch’a’ suoi seguaci Venere comparte.
E poc’anzi aveva detto:
Così dolce e gustevole divento,
Quando mi trovo con persona in letto
Da cui amata e gradita mi sento,
Che quel mio piacer vince ogni diletto,
Sì che quel che strettissimo parea
Nodo dell’altrui amor divien più stretto.
Se noi consideriamo tutte queste cose; se riflettiamo le lodi
iperboliche; se ricordiamo la visita di un giovane re; se poniam mente
alle nobili amicizie di cui la Veronica andava lieta e orgogliosa, e
delle quali ho ancora a parlare, ci parrà troppo tenue senza dubbio
il prezzo di due scudi che il già più volte citato _Catalogo_ assegna
ai favori di lei, mentre per altre altri prezzi registra, ben più
cospicui. Che la Veronica Franco del Catalogo sia, non la nostra, ma
un’altra, mi sembra poco probabile; molto più probabile invece, o che
sia corso errore nella indicazione del prezzo, o che l’anonimo autore
abbia voluto, di deliberato proposito, fare ingiuria a colei con cui
aveva forse alcuna ruggine, o che gli premeva di avvilire in cospetto
di una rivale. Ricordiamo che il _Catalogo_ è dedicato _alla molto
magnifica et cortese signora Livia Azalina Principessa di tutte le
Cortegiane Venetiane_, la quale è registrata a suo luogo col prezzo di
scudi venticinque[508]. Nè dell’errore, o della menzogna del _Catalogo_
ci mancano prove, e chi ce le dà è quel signor Lorenzo, di cui ho
ricordato testè un capitolo in dialetto veneziano, capitolo curioso,
che mi duole di non poter trascrivere intero, tanto è sconcio. Ne darò
un’idea. Il signor Lorenzo spasima da un mese per la signora Veronica,
la quale è tanto
bella e pulia
Cara, dolce, zentile e custumà.
Spasima per lei, perchè tutta la sua dolcezza e il suo piacere è sol
colà
Dov’è virtù, dov’è lascivitae,
dove l’amore è condito dalla gentilezza, dalla grazia, e da _quel certo
che se chiama umor_. Ma egli non osa farsi innanzi, perchè sa che la
Veronica è un _carigolo boccon_; sa che non concede un bacio per meno
di cinque o sei scudi, e almeno cinquanta ne vuole per quella che il
Montaigne avrebbe chiamato la _négociation entière_. Ora, egli ha letto
nell’Aretino
Che ’l servir e ’l pagar è un latin falso.
Che no l’accorderave el Calepin.
Egli l’ama e l’adora; ma appunto perchè l’ama e l’adora non vuol pagare.
So che no ghe xe lege, no gh’è ghiosa
Che vogia che l’amante dieba dar
Altro ch’el proprio cuor alla morosa.
Sia dunque liberale; usi a lui quella cortesia che usata nulla toglie a
lei di pregio, e si ricatti coi vagheggini di professione, coi vecchi
sfreddati, coi frati, che araffano alle badie le migliaja di ducati,
co’ monsignori, che vanno dietro a ogni cosa disonesta.

II.
La Veronica ebbe, come parrà naturale ad ognuno, moltissimi amori,
anzi direi, tra piccoli e grandi, tra finti e sinceri, tra quelli che
durarono un giorno e quelli che durarono forse più anni, innumerevoli.
Dei più s’è certo perduta ogni traccia; ma di parecchi la traccia è
rimasta, e qualche cosa più che la traccia.
I capitoli che compongono il libro di versi della cortigiana veneziana
non sono, come ho già accennato, tutti suoi; sopra venticinque, sette
appartengono a incerto autore, secondo è detto nella intitolazione,
e tutti e sette sono documenti di un amore del quale la Veronica è
l’obbietto. Dico di un amore, e dovrei forse dire di più amori, perchè
non si sa se tutti quei capitoli sieno opera di uno spasimante solo,
o di parecchi. Io, confrontandoli tra loro, e con le risposte che ad
essi fa la donna, inclinerei a crederli opera di parecchi, per lo meno
di due. Ma chi erano costoro? Di uno forse si può avere notizia. In
una copia delle _Terze rime_ già posseduta dalla Biblioteca Marciana,
e passata poi in quella del conte Leopoldo Ferri, Padovano, il primo
capitolo recava in testa il nome di quel Marco Veniero di cui si
leggono alcuni sonetti nella Raccolta dell’Atanagi e di cui altre rime
giacciono inedite. Marco Foscarini, in una sua _Bibliografia veneziana_
tuttora manoscritta, fa questa congettura: che i primi fogli del libro
fossero tirati sotto il nome di Marco Veniero; che questi, patrizio
dei più reputati di Venezia, saputa la cosa, non volesse pubblicata
al mondo un’amicizia che gli faceva poco onore; che perciò il nome suo
fu tolto da tutte le copie che già non erano state distribuite, e non
soltanto il suo, ma quello ancora degli autori degli altri capitoli,
che, anche secondo la opinione del Foscarini, furono parecchi. Questa
congettura è, se si vuole, molto onesta, ma altrettanto improbabile;
e a dimostrarla tale basta ricordare che nessuno in quel secolo si
vergognava di avere amicizia con cortigiane, e di tessere e pubblicare
versi in lor lode; e che essendo il libro delle _Terze rime_ dedicato
con tanto di lettera al serenissimo signor Duca di Mantova e di
Monferrato, il quale era allora Guglielmo, figlio di Federico Gonzaga e
di Margherita Paleologa, il patrizio Marco, e gli altri patrizii o non
patrizii autori dei capitoli, non potevano ragionevolmente vergognarsi
di vederci stampati dentro i nomi loro dopo quello del serenissimo
signor Duca.
Le ragioni della soppressione del nome, o dei nomi, saranno state
altre, che ora ci sfuggono, e che poco del resto c’importa d’andar
rintracciando, dacchè gli è pur certo che il primo amatore che
compare nel libro (nel libro, s’intenda bene) è Marco Veniero. Basterà
rammentare, così di passata, che in cotesto mondo cortigianesco le
bizze e i dispetti erano molto frequenti, e che gli amici sfegatati di
oggi potevano essere i nemici o gli indifferenti di domani[509].
Ora, nel capitolo I, messer Marco Veniero si mostra fortemente
innamorato della bella Veronica, manifesta un caldissimo desiderio
di possederla, si lagna molto dell’asprezza, rigidezza e fierezza di
lei. La bella Veronica risponde con un altro capitolo, e il linguaggio
ch’ell’usa è in molte parti così perplesso e sibillino che non si
capisce a che conclusione la voglia venire. Se ella potesse assicurarsi
del cuore di colui che affetto così smisurato le dimostra a parole,
non farebbe già tanto la spietata e la schiva. Ma come assicurarsene?
Non vorrebbe apparir troppo semplice e sciocca, dando fede a sospiri e
a promesse che dissipa il vento. Perchè, se innamorato davvero, non si
discopre egli _con effetti_? Ella vuole certezza dell’amor di lui con
_altro che con lodi_; vuole meno lodi e più fatti, vuole i frutti e non
le fronde. Pensa egli forse ch’ella sia avida? Si tolga questa opinion
dalla testa. Cauta ella vuol essere, se non casta. Non chiede oro nè
argento.
Perchè si disconvien troppo al decoro
Di chi non sia più che venal, far patto
Con uom gentil per trarne anche un tesoro.
Di mia profession non è tal atto;
Ma ben fuor di parole io ’l dico chiaro
Voglio veder il vostro amor nel fatto.
Egli sa che cosa è a lei più cara; però non le neghi l’opera sua,
chè ella delle virtù s’innamora. Ciò ch’ella chiede costa a lui poca
fatica, e se ricusa, ciò prova che il suo amore è bugiardo. Se invece
acconsente,
Dal merto la mercè non fia discosta;
ella amerà lui quant’egli lei, giacchè
chi si sente amato da dovero
Convien l’amante suo ridamar poi.
Ella gli darà tal premio che pareggi la speranza col desiderio:
Certe proprietadi in me nascose
Vi scovrirò d’infinita dolcezza,
Che prosa o verso altrui mai non espose[510].
Se il povero messer Marco riuscì a capire che diamine di negozio fosse
il fatto che tanto premeva alla Veronica fu bravo davvero; a me, dico
schietto, non riesce di capirlo, e temo che i miei lettori non lo
capiranno meglio di me.
Ma non si creda che la Veronica parlasse di solito un linguaggio così
incerto ed oscuro, chè anzi usava di parlar schietto e chiaro. Il
capitolo III è scritto da lei, assente allora da Venezia, a un altro
incognito amante, rimasto colà a sospirarla. Tutta questa poesia è
assai garbata e disinvolta, e spira affetto delicato e sincero. Non
voglio già dire con questo che tale affetto fosse veramente nell’animo
dell’autrice. La quale scrive al suo _dolce, gentile e valoroso
amante_, che il vivere senza di lui le è crudel morte, e che non
divisi con lui le son tormenti i piaceri. Si sente struggere e morire;
rimpiange il _fortunato nido_, e mentre la gelosia le serpeggia per
l’ossa e la va consumando a poco a poco, ella non vive se non della
speranza di presto rivederlo nel _dolce loco_. Affretta col desiderio
il giorno beato che riunirà l’una all’altro:
Subito giunta a la bramata stanza,
M’inchinerò con le ginocchia in terra
Al mio Apollo in scienzia ed in sembianza:
E da lui vinta in amorosa guerra,
Seguirol di timor con alma cassa,
Per la via del valor, ond’ei non erra.
Quest’è l’amante mio, ch’ogni altro passa,
In sopportar gli affanni, e in fedeltate
Ogni altro più fedel dietro si lassa.
Ben vi ristorerò de le passate
Noje, Signor, per quanto è ’l poter mio,
Giungendo a voi piacer, a me bontate.
Troncando a me ’l martir, a voi ’l desio.
Tutto ciò, non può negarsi, è detto ingegnosamente e con retto senso
della misura; nella stessa sensualità non celata, nulla può notarsi
di eccessivo, nulla di volgare. Dico che la poesia è disinvolta e
garbata e spira affetto delicato e sincero, sebbene non vi manchino le
gale, gli orpelli, gli sdilinquimenti che il gusto de’ tempi portava
e voleva; l’eco, che mossa a pietà risponde ai dolorosi lai, il sole
che si ferma a mezzo il cielo, intento alle amorose querele, Progne
e Filomela che si lamentano, le tigri che piangono, le fresche rose
i candidi gigli e l’umili viole che inaridiscono al vento dei cocenti
sospiri, le pietre stesse che lacrimano, ecc. ecc.
L’amante adorato, l’_Apollo in iscienza e in sembianza_, risponde nel
capitolo IV. Egli afferma, non solo che l’amor suo è molto maggiore
dell’amor di lei, il che è di buono stile amoroso, e, direi, di
prammatica; ma ancora che il valore suo proprio è poca cosa rispetto
al valore di lei, di lei _cui ’l Ciel tant’ama e ’l mondo onora_. Le
rimprovera, ciò nondimeno, la dipartita, e l’assenza all’amor suo
troppo lunga. Egli pregò e pianse perchè rimanesse, ma invano: più
che il suo, valse l’altrui rispetto, ed ella si partì, lasciandolo
solo _in solitario tetto_. Se ora è pentita, egli del pentimento ha
consolazione. Torni quanto più presto può, chè egli altro non brama e
non chiede che esserle vicino, e voglia Amore misericordioso adeguare
la grande diseguaglianza che è tra lei e lui. Così, nel secolo XVI, si
scriveva alle cortigiane illustri.
Noi non intenderemmo gran che di quei rispetti, di quei rimproveri e
di quei pentimenti, se la Veronica stessa non si fosse data cura di
chiarire il mistero nel capitolo seguente, che è il quinto, capitolo
che sarebbe difficile accordare in ogni sua parte col terzo, quando
pure volessimo prenderci cotal briga, e dove son cose che non ci
saremmo aspettate.
La Veronica dice al suo fedele innamorato:
Signor, la virtù vostra, e ’l gran valore,
E l’eloquenzia fu di tal potere,
Che d’altrui man m’ha liberato il core.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Quel ch’amai più, più mi torna in dispetto,
Nè stimo più beltà caduca e frale,
E mi pento che già n’ebbi diletto.
Anzi che amare quell’altro, _ombra mortale_, ella avrebbe dovuto amar
lui, solamente lui,
Pien di virtù infinita ed immortale.
Confessa il suo fallo, e promette solennemente di mandare in avvenire
_per la virtù la beltà in bando_. Conchiude dicendo:
Per la vostra virtù languisco e pero,
Disciolto ’l cor da quell’empia catena,
Onde mi avvolse il Dio picciolo arciero:
Già seguii ’l senso, or la ragion mi mena.
Da tutto ciò si ricava che la Veronica aveva in Venezia un amante fisso
(non dico già che non ne avesse anche altri di fissi) col quale forse
coabitava, se, partita lei, egli rimaneva _solo in solitario tetto_.
Si ricava inoltre che la Veronica ebbe un bel giorno un amorazzo, o
un capriccio, e che trascinata dalla subita passione (se pur non era
interesse) piantò lì l’amante consueto, e se ne andò col nuovo fuori
di Venezia; che l’amante nuovo era bello; che il vecchio non era bello
(o perchè allora lo chiama _Apollo in sembianza_?) ma virtuoso, anzi
_pieno di virtù infinita_; che la Veronica presto si stancò dell’amor
nuovo, o non ci trovò quello che contava trovarci, e, pentita, tornò
all’antico. Di che sorta fossero le virtù dell’amante vecchio non dice;
ma non si esclude che potesse avere molti quattrini e li spendesse
volentieri. L’ultimo verso:
Già seguii ’l senso, or la ragion mi mena,
getta un po’ d’incertezza sulla natura dell’amore della Veronica, e
poco s’accorda coi versi appassionati di cui abbonda il capitolo terzo;
ma l’amante, che esso doveva consolare e rassicurare, era, come si
può intendere, una buona pasta d’uomo. Rispondendo a sua volta, egli
lodava l’amica dell’onesto e saggio proposito, si confessava spoglio di
quelle virtù che veramente avrebbero potuto meritargli l’amor di lei,
ma affermava indirettamente d’essere uomo _che ’l falso aborre, segue
il vero_. Se non avesse avuto altro, bisognerebbe ammirare, più che la
sua, la virtù della buona Veronica.
Questo amore non avrà acceso nel cuor di lei grandi vampe; ma avremmo
torto noi se, per ciò solo che molte volte l’amor suo fu mentito,
la credessimo incapace di amore, e dicessimo ch’ella non amò mai.
Se badassimo anzi alle sue parole dovremmo credere ch’ell’era sempre
innamorata, e qualche volta a suo dispetto. Non è vero che ella viva,
come altri pretende,
d’amor libera e franca
Non colta al laccio, o punta a i dardi suoi:
solo, dice, vorrei
Che innamorar convenendomi pure
Fosse ’l farlo secondo i pensier miei.
Chè, se libere in ciò fosser mie cure
Tal odierei ch’adoro; e tal ch’io sdegno.
Con voglie seguirei salde e mature[511].
Afferma d’innamorarsi facilmente, e con ciò viene a confessare di
non essere troppo costante. Tra gli amori di cui ella ragiona, sia
nei capitoli, sia nelle lettere, alcuno ve n’ha degno di particolare
ricordo. Tale è quello che ella diceva di portare _ad uom gentile a
maraviglia_, amore che _le confondeva la vita e le toglieva il core_.
L’amante se n’era andato fuor di Venezia a passar le feste di Pasqua,
e sebbene le scrivesse spesso e affettuosamente, ella viveva in tanto
cruccio, e con tanto martello, che non poteva aver bene di sè. La
descrizione di queste pene amorose è fatta con molta vivezza, e, salvo
le esagerazioni di rigore, non senza accento di verità[512]. Tale è
l’altro, di cui fu presa per uomo di gentil sangue e di chiara fama,
un qualche patrizio veneto forse. Ella è ancora ne’ suoi _verdi anni_;
l’amor che la soggioga appassionato, prepotente. Di giorno e di notte,
sotto la pioggia e il sereno, ella si va aggirando intorno alla casa
di lui, molto discosta dalla casa di lei, volge gli occhi ai balconi,
_i preghi a l’ostinate porte_, bacia la fredda soglia, e ode dirsi
dal portinajo, cui i cani hanno svegliato, che il signore non dorme
in casa, ma passa con altra donna le notti. Scongiura il crudele di
muoversi a pietà di lei, che si strugge in pianto, ormai più morta
che viva; lo scongiura, non tanto per alcun merito che sia in lei,
quanto per l’amore sviscerato ch’ella gli porta, e più ancora per la
gentilezza che è in lui, e perchè altri non lo accusi di averla col suo
disprezzo uccisa ingiustamente. L’alta virtù che è in voi, ella dice,
L’animo di piegarvi abbia possanza.
Sì che in tanto penar mi concediate
Alcun sostegno di gentil speranza.
Un po’ d’amore, chè molto non chiede, offuschi agli occhi suoi e celi
quelle parti che ella ha in sè meno degne di lui;
Nè anch’io d’orsa, che ’n cieco antro si chiuda
Nacqui, nè l’erbe stesa mi nudriro,
Come vil bestia in su la terra ignuda;
Ma tai del mio buon seme effetti usciro
Ch’alcun non ha da recarsi ad oltraggio,
Se del suo amor io lagrimo e sospiro.
La strazia la gelosia; il pensiero che un’altra donna fruisca di
ciò che ella disperatamente brama, e si rida di lei, la uccide[513].
Sperando di vincere la furiosa passione, o di trovare almeno alcun
refrigerio a’ suoi mali, ella si allontana da Venezia, e si ritrae in
luogo campestre, dove con le valli _apriche, d’aura e d’odor piene_,
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