Attraverso il Cinquecento - 02

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ebbe però mai il sentimento della lingua viva, e in fatto di lingua
e di stile aperse una scuola di pedanteria, che da ben poco può dirsi
chiusa[21]. Frughi chi ha tempo le molte grammatiche del Cinquecento e
vegga il posto e l’officio che vi tiene il Petrarca.
Insomma il Petrarca è maestro e signore, così del vocabolario, come
della grammatica, e in suo nome si fanno le leggi, e in suo nome
si assolve e si scomunica. Egli è in lingua ciò che San Tommaso in
teologia. Ond’è che il Castelvetro, volendo dare in capo al Caro per
ragione di quella sua canzone dei _Gigli d’oro_, comincia asciutto
asciutto con un _Il Petrarca non userebbe_, e ci attacca una filatessa
di voci e di modi che pare a lui abbiano dell’eretico. Ma certo non a
tutti doveva riuscire agevole l’uso di quelle parole melate e di quelle
graziette confettate del Petrarca, e qualcuno se n’aveva da avvedere.
E pare se ne avvedesse quello sciocco innamorato di Gerozzo, nella
_Pinzochera_[22] del Lasca, quando invasato dal pensiero della sua
bella, si lasciava scappar di bocca: «ch’è di quella ladra, traditora,
rubacuori? maledetto sia il Petrarca!» O non dev’egli parere tanto
più strano, che in quello sciagurato gergo ch’ebbe nome di lingua
jonadattica entrasse l’uso, secondo attesta Nicola Villani[23], di dire
_anima Petrarca_ per anima di pietra, come si diceva studiare il Boezio
per essere un bue, e _leggere il Mattioli_ per avere del matto?
Perchè il Petrarca non era solamente il grande erudito, il grandissimo
poeta; ma era ancora il solennissimo innamorato, il maestro e il
dottore di tutti gli innamorati; onde ben a ragione lo chiamava il
Domenichi _gran maestro per pratica e per scienza di tutti gli affetti
amorosi_[24]. E qui ci si scopre un’altra e principalissima ragione di
simpatia fra il nostro poeta e quegli uomini del Rinascimento.
L’amore, che tiene un gran posto nella vita di tutti i popoli e
di tutti i tempi, ne tiene uno grandissimo nella vita italiana del
Cinquecento, e ci si presenta con forme e con caratteri che, parte
sono generali e comuni, parte sono specifici e proprii. Dico amore e
dovrei dire amori; perchè quell’amore è di due maniere, teoretico e
pratico; e certo in nessun tempo corse tanta diversità dal teoretico
al pratico quanta allora si vede. Che cosa fosse l’amore pratico nel
Cinquecento sa chiunque abbia una qualche cognizione dei costumi e
della vita di quella età, e può ognuno vederne i documenti e udirne
le testimonianze parlanti nella novella, e in molt’altra parte di
letteratura contemporanea: amore sensuale e brutale, senza pudore
e senza velo; amore che non è altro ormai se non un rigoglio e un
impeto di appetiti animali, l’istinto che si sfrena e soverchia.
Questo è l’amore che risponde alla furia di godimento ond’è invasata
e agitata allora la società italiana, furia che la trascina su tutte
le vie della dissolutezza e la esercita in tutte le forme della
colpa e del vizio. Una triste istoria che a me non tocca narrare! Ma
di contro a questo l’altro amore si leva, l’amore che risponde alla
intellettualità fiorita dell’umanesimo ed ha suo luogo fra gl’ideali
più elaborati di quella coltura. Già col restaurato platonismo era
sorta tutta una dottrina d’amore puro ed etereo, che se in molte parti
si rassomiglia a quella dell’amore cavalleresco, se ne distingue e
disgiunge pel carattere essenzialmente filosofico de’ presupposti e
degli argomenti, e continua e svolge la dottrina degli antichi lirici
nostri. Oltre di ciò, data la società del Cinquecento, dati quegli
uomini educati in tutte le raffinatezze del pensiero, del sentimento
e del costume, non era possibile che per essi non s’indagassero, non
si tentassero le forme più immateriali, più delicate, più difficili
a reggersi ed a serbarsi, della relazione affettuosa fra l’uno e
l’altro sesso. Non era possibile che uomini, il cui animo era aperto
ad ogni incanto di bellezza e di venustà, non riuscissero talora a
levarsi alla contemplazione serena, non conturbata da grossolanità di
appetiti, della bellezza e della venustà muliebre, e a farne obietto
di culto. E nei crocchi dove la donna sedeva regina, e dove i più
culti intelletti gareggiavano di ingegnosità e di acume, i sentimenti
e i pensieri attinenti a quel culto dovevano rivestire le forme più
delicate e più peregrine. L’amore, i suoi caratteri, gli effetti,
porgevano assai frequente argomento di discorso e di disputa a quelle
geniali conversazioni. «L’avervi io conosciuta savia ed ingegnosa più
assai che non fu mai Nicostrata, Diotima, o Targelia», scriveva Ottavia
Bajarda a Camilla Testa, «mi fa confidente e molto ardita a chiedervi
la soluzione di alcuni dubbii che l’altro giorno nella mia casa da
ingegnose donne si trattorno»[25]; e seguita con una lunga filza di
quesiti d’amore.
Formavasi così quella dottrina artificiosa, e anche parecchio
pedantesca, la quale poneva l’amore puramente sensuale e corporeo
agl’infimi gradi della scala, l’amore santificato dal matrimonio,
nel mezzo, e l’amore ideale o platonico, emancipato dai sensi, e
figlio, come dicevasi, di Venere celeste, in sulla cima; e questo
poi considerava come causa, nella natura umana, di molte qualità
ed operazioni virtuose, e come anello di congiungimento con l’amore
divino. Questa dottrina si trova esposta e discussa da innumerevoli
autori del Cinquecento, in iscritture di ogni forma e qualità;
trattati, dialoghi, ragionamenti, lezioni, commentarii. E questi autori
sono varii di condizione e d’ingegno, filosofi, storici, novellatori,
poeti, cortigiane: sì, persino cortigiane, giacchè la celebratissima
Tullia di Aragona scrisse un dialogo della _infinità_ di questo amore,
lei che pur aveva dell’altro sì pertinente ed ampia cognizione. Al
quale proposito è da notare che la stessa grande, anzi eccessiva
depravazione dei costumi, contribuì forse a far sorgere, o a dar
risalto, per ragion di contrasto, a questo amore puro e spirituale.
Così in tempi di corruzion soverchiante viene in onore la letteratura
pastorale, e l’arte gode di porre a riscontro della turpitudine della
vita reale la innocente serenità dell’idillio. L’amor trascedente si
accompagna in assai facile modo con la scostumatezza.
Del resto andrebbe errato chi credesse che questo amore fosse cosa
assolutamente ed esclusivamente teoretica, vivesse soltanto nei
ragionamenti e nei libri, e non avesse anche nella vita il suo luogo.
Si contan sulle dita gli scrittori del Cinquecento che non abbian
vantato in vita loro alcuno amore purissimo e santissimo: e sappiam
che le donne più illustri allora per beltà, senno, e illibatezza
di costumi, ebbero tutte una corte di adoratori ossequenti, che si
contentarono di adorarle e di celebrarle.
Certo, molti di questi amori, anzi la grandissima parte, furono
tutti di testa, furono un’eleganza tra l’altre eleganze, furono una
ostentazione, o una divisa, che non aveva nulla di vero, fuori delle
parole che la esprimeva; molti altri furono men puri che non piacque
agl’interessati di dire; ma ce ne fu pure qualcuno di reale e di
sincero: basterà ricordare per tutti l’amore che per Vittoria Colonna
nutrì la maschia anima di Michelangelo. Di molti di quei pretesi
innamorati platonici e lodatori dell’amor platonico, sappiamo che
nella vita pratica indulsero a tutt’altre voglie che non son quelle
da essi ostentate nelle loro scritture; ma noi siamo pure in grado
d’intendere come uomini dissoluti, che senza ritegno alcuno appagavano
i sensi, potessero, ajutati da felice coltura di mente, in certi
tempi e condizioni, compiacersi di un amor peregrino e puro, con quel
sentimento medesimo con cui si compiacevano dei più squisiti miracoli
d’arte; potessero fregiarsene e insuperbirne.
Io non ho bisogno di entrare qui nella disamina di quella sottile
scienza d’amore elaborata dal Cinquecento, la quale, se molto ha
del sofistico e del fastidioso, e troppe occasioni di chimerizzare
senza costrutto porse a moltissimi scioperati, mostra peraltro, in
compenso, uno studio spesso meraviglioso dell’animo e degli affetti
umani, un’arte in sommo grado penetrativa nello sceverare gli elementi
del sentimento. Di ciò si ha la prova, per non parlar d’altri,
negli _Asolani_ del Bembo, e nel terzo libro del _Cortegiano_ del
Castiglione; ma quel tanto che ho detto basta a fare intendere come,
anche per questa parte, il Petrarca dovesse tornare molto accetto
alla culta società del Cinquecento, e dovesse inoltre con le sue
rime molto efficacemente promuovere in seno ad essa quella dottrina e
quell’entusiasmo d’amore. Giacchè fu egli un grandissimo innamorato,
del carattere appunto che quella dottrina vagheggia, ed è il suo
canzoniere un libro, dove, con arte non mai sorpassata, e non ostante
il molto falso che vi si trova, sono analizzati, descritti, chiariti,
con osservazione acutissima, con inesauribile copia di pensieri e
d’immagini, i fenomeni tutti, o, come allora dicevasi, gli accidenti
della passione amorosa. Agli uomini del Cinquecento parve il Petrarca
ciò che ancora, e giustamente, pareva all’Alfieri,
Quel sì gentil d’amor, mastro profondo;
e quanti ebbero allora animo aperto all’amore furono necessariamente
suoi discepoli. Abbiam veduto che i poeti innamorati usavano il suo
linguaggio, e che i vagheggini imbertoniti cantavano i proprii suoi
versi. «Come farei io bene uno assassinato d’amore», fa dire l’Aretino
all’Istrione, nel Prologo della sua commedia _Il Marescalco_; «non
è Spagnuolo, nè Napolitano, che mi vincesse di copia di sospiri,
d’abbondanza di lagrime, e di cerimonia di parole; e tutto pieno di
lussuriosi taglietti[26] verrei in campo col paggio dietromi vestito
de’ colori donatimi da la diva, e ad ogni passo mi farei forbire le
scarpe di terzio pelo, e squassando il pennacchio, con voce sommessa,
aggirandomi intorno a le sue mura, biscanterei:
Ogni loco mi attrista ove io non veggio...».
Il qual verso è appunto un verso del Petrarca. Quanto ai trattatisti,
dirò così, dell’amore, essi citano ogni momento il nostro poeta come
autorità di cui nessun’altra è maggiore.
Così l’Italia s’empieva d’amori alla petrarchesca, in verso e in prosa,
e il Sarrazin avrebbe potuto vederci ciò che più tardi vide in Francia,
ai funerali del poeta Voiture:
Les Amours d’obligation,
Les Amours d’inclination,
Quantité d’Amours idolâtres,
Une troupe d’Amours folâtres,
Force Cupidons insensés.
Des Cupidons intéressés,
De petits Amours à fleurettes,
D’autres petites Amourettes,
Mêmement de vielles Amours,
Qui ne laissent pas d’avoir cours,
En dépit des Amours nouvelles,
. . . . . . . . . . . .
Et, bref, tant d’Amours qu’à vrai dire,
On ne pourrait pas les décrire.
Se il Petrarca era maestro in materia d’amore, non poteva non essere in
materia di bellezza e di leggiadria, egli che aveva celebrata la più
leggiadra e la più bella delle donne. In fatti, nei numerosi trattati
che il Cinquecento consacrò alla bellezza muliebre, il suo nome è
spesso citato, e versi suoi ricorrono con molta frequenza[27].
Ricco di tanta riputazione, e circondato di tanto favore e di sì gran
plauso, non è a stupire se il Petrarca vide allora calar sui suoi
versi, come stormo d’uccelli alla pastura, un nugolo di espositori
e di commentatori, venuti giù dalle gelide plaghe della grammatica
e della retorica, e smaniosi di far anatomia di quel bel corpo del
_Canzoniere_. E anche qui noi troviamo ogni fatta d’ingegni e di
attitudini. Ecco in prima riga i commentatori grossi, che accaparrano
il _Canzoniere_ tutto intero e lo rivendono a lor bell’agio a ritaglio;
ecco poi l’infinita schiera degli espositori minuti, che sudano un
anno sopra un passo oscuro, recitano in pubblico cinque lezioni sopra
un sonetto, scrivono cento pagine sopra un verso. Il famoso sonetto
_Era il giorno che al sol si scoloraro_ fece spiritare da quattro
generazioni di espositori. Il buon Benedetto Varchi recitava nel 1565,
nello studio Fiorentino, la bellezza di otto lezioni sulle così dette
_Canzoni degli occhi_, il che faceva dire ad Alfonso de’ Pazzi:
Le canzoni degli occhi ha letto il Varchi,
Ed ha cavato al gran Petrarca gli occhi.
Ma a che pro moltiplicare gli esempii? Le bibliografie del Rossetti,
del Marsand e del Ferrazzi scusano così ingrata fatica. Fatta eccezione
di pochi buoni e sensati, tutti coloro che si davan aria di esporre
e di commentare son degni d’andarne in ischiera con coloro che si
credevano d’imitare; e come uscisse conciato il Petrarca dalle lor mani
si può immaginar facilmente. Io dovrò riparlare di loro quando verrò
a dire dell’antipetrarchismo: lasciamoli intanto dormire del sonno
profondo che giustamente si sono con le loro fatiche acquistato.
Ma non è da passare in tutto senza qualche ricordo un’altra, e non
iscarsa schiera di scioperati, formata di coloro che, senza troppo
curarsi d’intendere i versi del poeta, si davano ad investigare per
entro la vita di lui certe cose ingarbugliate ed oscure, e a muoverci
sopra dubbii e questioni. Madonna Laura e l’amore del Petrarca per
lei destavano molte e poco discrete curiosità. Nel 1545 ci fu chi
pretese d’avere scoperta la tomba della famosissima donna. Alfonso
Cambi Importuni si affaticò a ritrovare il giorno e l’ora precisa
dell’innamoramento di messer Francesco; un Ludovico Gandino compose
una lezione sopra un dubbio come messer Francesco _non lodasse Laura
espressamente dal naso_. Di questi e di altri fa menzione Anton
Francesco Doni: «Chi dice de’ versi, chi de’ vocaboli; un altro non
vorrebbe che ’l Petrarca avesse fatto i Trionfi, ed a certi non sa
buon loro quel verso: _Standomi solo un giorno alla fenestra_: oltre al
combattimento che s’ode far tutto il giorno di Laura divina e di Laura
umana[28]».
Ma altre testimonianze ed altre prove ci rimangono del favore
grandissimo onde godette il Petrarca nel Cinquecento, degne d’essere
rilevate. Se il _Canzoniere_ era cantato, e probabilmente, almeno in
parte, saputo a mente dai vagheggini di professione, non poteva poi
essere ignorato da una classe di buone persone con cui essi signori
vagheggini solevano avere famigliarità molta, voglio dire dalle
cortigiane. Noi sappiamo come il Cinquecento riproduca, insieme con
molt’altre cose, e fatta ragione di differenze inevitabili, l’etèra
antica. Nè ciò avviene per caso. Le cortigiane si risentono allora
ancor esse di quella che è condizione comune di tutta la società, e non
possono sottrarsi agli influssi della generale coltura. Quella tra esse
che si fosse serbata digiuna di ogni studio, che avesse mostrato di non
aver sentimento di poesia nè gusto d’arte, avrebbe avuto un’attrattiva
di meno e avrebbe scapitato. Perciò noi le vediamo intente a
procacciarsi un certo grado di coltura, e, come allora dicevasi, quelle
virtù che fanno la persona di più grata conversazione[29]. Avrà ragione
l’Aretino, quando fa dire a Ponzio nella _Talanta_[30]: «Sappi che
le ribalde si danno a grattar l’arpicordo, a cicalar del mondo, ed a
cantar la solfa, per assassinar meglio altrui, e guai per chi vuole
udire, come elleno san ben sonare, ben favellare, e bene ismusicare»;
ma fatto sta che esse imparavano a far tali cose e più altre ancora. La
famosa Imperia fu coltissima e imparò a far versi da Niccolò Campano,
detto lo Strascino. Veronica Franco andò celebre per le sue terze rime,
e tutti sanno qual fama acquistasse la già più volte ricordata Tullia.
Nei _Ragionamenti_[31] dell’Aretino è ricordata una famosa cortigiana
romana, conosciuta sotto il curioso nomignolo di _Madrema non vuole_,
la quale, dice l’Antonia, una delle interlocutrici del dialogo, «si fa
beffe di ogni uno che non favella a la usanza, e dice che si ha da dire
balcone e non finestra, porta e non uscio, tosto e non vaccio, viso
e non faccia, cuore e non core, ecc.». E altrove lo stesso Aretino fa
dir di lei a un certo Lodovico[32]: «ella mi pare un Tullio, e ha tutto
il Petrarca e ’l Boccaccio a mente, e infiniti e bei versi latini di
Virgilio e d’Orazio e d’Ovidio e di mille altri autori». Certe lettere
pubblicate di recente[33] mostrano quanto alle volte fosse in coteste
donne il garbo e il buon gusto, quanta la schiettezza nel modo di
pensare e di scrivere, e la (almeno apparente) gentilezza dell’animo.
La Tullia abbiam veduto come imitasse anch’ella il Petrarca, e
Ludovico Domenichi ricorda una disputa che intorno al Petrarca appunto
fecero alcuni gentiluomini in casa di lei[34]; molt’altre di certo
lo leggevano, e, ardisco dire, lo gustavano. In Venezia Lucrezia
Squarcia si lasciava vedere spesso col Petrarchino in mano, e una
Laura sembra si facesse a dirittura chiamare Laura del Petrarca. A
una Fulgenzia il buon Andrea Calmo mandava, o fingeva di mandare, in
regalo il _Canzoniere_ del Petrarca, il _Decamerone_ e un _Libro della
ventura_, accompagnando il tutto con una lettera, di cui giova riferire
il seguente curioso e grazioso passo[35]: «Madona mia speculativa,
prudente, e acorta, tantosto che la secretaria di nostri cuori me ha
mostrao la vostra polizza, la qual reverentemente averta, e con mille
basi onorà, in quel instante anditi a comprar questi tre libri, cusì
a mio muodo, cognossando esser al proposito de la vostra complesion,
de la vostra natura, e del vostro judizio, e anche per imparar,
descorando, qualche bel trattesin, per i nostri debesogni. Adunca vu
lezerè el Petrarca, considerando quanta longhezza de anni el portete
amor a madona Laura, e quante fatighe, passion, suspiri, lagreme e
male note el patite per essa, metandola, in vita, sora de ogni altra
creatura amorosa, e in morte può, tegnir conclusion che la sia intel
pi bel liogo di beai; sì che credo che vu l’averè molto ben da caro, e
tanto pi che, co ’l gustarè, vu butarè da banda quelle vostre fandonie
de istorie, e de zanze trivial, minchione, e material; l’altro è le
Cento novele del Boccazzo dove fè vostro conto che ’l sia un recetario
de tutti i amanti, perchè in quelle diese zornae, ghe se truova el modo
da inamorarse, da meter i ordeni, da sconder el so moroso, da scampar
via, da far le so vendete co i maridi, da risponder a le sansere,
da far la santa, da far la crudel, da far la gofa e breviter da piar
tutti i rimedii, da offender e da defenderse, talmente che oltra ste
circonstanzie, se fa una lengua elegante, se fa bela creanza, e se fa
bonissima memoria; el terzo che ve mando è quel piasevele libro della
Ventura, da star con le parente in berta, e anche int’una compagnia
de femene, e de omeni; tragando quei tre dai se intende le pi gran
stampie, le pi gran zanze, le pi gran busie del mondo».
Quelle _fandonie de istorie e zanze trivial_ sono i romanzi
cavallereschi, e certe storie e fiabe popolari in parte ancor vive, di
cui nelle sue lettere il Calmo fa assai spesso ricordo[36]. _Il libro
della ventura_ è forse quello intitolato _Bugiardello_, che dovette
avere gran voga[37].
Ma torniamo al Petrarca. Racconta il Giraldi Cinzio in una delle
sue novelle, che un certo ascolano, innamoratosi di una bellissima
cortigiana di Napoli, per nome Nea, non avendo denari da poterle dare,
«si diede a comporre versi di varie maniere, a sembianza del Petrarca,
come quegli che di acuto e di gentilissimo ingegno era, e recitando a
costei quando un mandriale, e quando un sonetto, e quando una canzona,
e quando un’altra cosa a sua lode composta, le prometteva, s’ella
di lei il compiaceva, di allogarla nel seno della immortalità». Ma,
soggiunge il buon novelliere: «era di tal natura costei, che se vi
fosse ito il Petrarca accompagnato da Apolline e dalle muse, e non vi
fosse ito colle mani piene,» non avrebbe potuto averne il più picciol
favore[38].
Forse il Petrarca non avrebbe troppo arricciato il naso vedendo il suo
canzoniere tra le mani di così fatte donne, e sentendo ripetere dalle
lor labbra alcuno dei sonetti da lui composti per la divina sua Laura;
ma non so poi che cosa avrebbe detto, se gli fosse toccato di leggere
certo capitolo, dove Lodovico Dolce fa sperticatissime lodi di un suo
_ragazzo_ (κίναιδος in greco), dicendo, tra l’altro:
Avea il Petrarca e gli Asolani a mente,
E a tempo e loco, s’io gliel comandava,
Sguainava un sonettin leggiadramente[39];
e se avesse udito Fidenzio Glottocrisio Ludimagistro tradurre in versi
pedanteschi il primo sonetto del _Canzoniere_ per offrirlo al leggiadro
Camillo, _acerbo lanista_ del suo cuore. Povero messer Francesco, via!
Il Petrarca era dunque in tutte le mani e in tutti i luoghi.
Frequentava le aule dei palazzi coi cortigiani; girava per le vie
in compagnia di melici spasimanti; entrava nella scuola sotto la
magistrale zimarra dei retori e dei grammatici; penetrava in chiesa con
la canzone _Vergine bella che di sol vestita_; saliva sul pulpito coi
predicatori che citavano a gara i detti e i versi sentenziosi di lui,
e, senza troppo confondersi, dava una capatina sino negli spogliatoi
delle etère in voga. Nè finisce qui: noi lo incontriamo ancora in
luoghi che parrebbero meno acconci all’indole ed all’umor suo. Ranuccio
Farnese, trovandosi accampato, co’ suoi cavalleggieri, non molto dopo
il sacco di Roma, sotto Viterbo, un giorno, finito di desinare, prese
in mano il _Canzoniere_, e molto galantemente ne lesse parecchie rime
ai commensali[40]. Anche sul teatro ebbe a mostrarsi il buon Petrarca,
giacchè nel 1579, in Venezia, i comici Gelosi lo fecero comparir
sulla scena per recitar le lodi del Groto[41]. E probabilmente capitò
in altri luoghi ancora, ed entrò nella botteguccia dell’artigiano
e si strofinò alle panche dell’osteria, perchè Niccolò Franco, il
gran nemico dell’Aretino, così dice parlando di lui nel suo dialogo
intitolato _Il Petrarchista_: «l’opra sua (_intendi il Canzoniere_) è
venuta a tale che approvata per un comune conforto di tutte le qualità,
si vede ne le mani fin de la plebe, la quale de le sue cose sa rendere
buona ragione»[42].
Se il Petrarca aveva, nella vita cortigianesca, la parte che s’è
veduto, non parrà strano che versi suoi si togliessero per farne motti
ed imprese. Il Domenichi reca questa impresa di Alessandro Piccolomini:
Sotto la fè del cielo, all’aer chiaro.
_Tempo non mi parea da far riparo_[43].
Scipione Ammirato, nel suo dialogo _Il Rota_, ricorda un cavaliere
che aveva tolto per impresa un albero, i cui rami rompevansi sotto il
carico dei frutti, e cui accompagnava il verso del Petrarca:
Povero sol per troppo averne copia[44].
Ed altre se ne potrebbero notare. Sembra inoltre che certi luoghi del
_Canzoniere_ suggerissero nuove maniere di giuochi alle brigate gaje e
cortesi[45].
Ma una possente ajutatrice del petrarchismo fu senza dubbio la musica.
Abbiam già veduto che gl’innamorati bellimbusti andavan cantando versi
del _Canzoniere_ in omaggio delle loro belle, e, naturalmente, il
cantarli era occasione e cagione dello apprenderli a mente. Ma questo
Petrarca in musica non era cosa da bellimbusti soltanto. È noto come
nel Cinquecento, insieme con tutte le altre arti che abbelliscon la
vita, e il cui esercizio orna la persona, venga in grande onore anche
la musica. Lo studiarla ed il coltivarla era proprio di quanti, uomini
o donne, si piccavano di fine educazion cortigiana; e si ricordano
gli esempii di quegli artisti celeberrimi che all’esercizio di molte
e svariate arti, pittura, scultura, architettura, sentirono il bisogno
allora di aggiungere anche quello della musica, accompagnata spesso con
la poesia. Studiava musica persino un Benvenuto Cellini, uomo certo non
molto ossequente alle leggi del vivere cortigianesco. Il conte Lodovico
da Canossa dice nel libro di Baldassar Castiglione[46]: «Signori...
avete a sapere ch’io non mi contento del Cortegiano, se egli non è
ancor musico, e se, oltre allo intendere ed esser sicuro a libro, non
sa di varii instrumenti». E seguita parlando accortamente dei pregi
della musica e della potenza che essa ha in penetrar gli animi _teneri_
e _molli_ delle donne[47]. Si vede subito quale stretta relazione la
musica, specialmente vocale, dovesse avere, non solamente con gli
eleganti costumi e col gusto fine del tempo, ma ancora, e più, col
donneare cortigianesco e con l’amore. Si cantano versi d’amore per le
vie, e sotto i balconi delle innamorate, la notte; si cantano nell’aule
sfarzose dei palazzi, alla luce abbagliante dei doppieri; si cantano
nei grati ozii delle ville, sotto l’ombre ospitali; e spesso chi canta
è egli stesso autore della musica e dei versi, è preso dalla passione
che sfoga o palesa col canto, come quell’Antonio Bologna di cui
narra il Bandello[48]. Tutta Italia risuona dei melodici languori del
madrigale. Come mai non si sarebbe pensato a vestire di note i versi
del più musicale dei poeti e del maggiore fra gli spasimati d’amore?
Lo stesso Petrarca componeva le sue rime al suono del liuto, e ciò
spiega, almeno in parte, quella grande soavità che ci si sente.
Cominciarono subito a metterle in musica i contemporanei di lui,
e tra gli altri si fa ricordo di Jacopo da Bologna, che intonò,
come allora dicevasi, il madrigale _Non al suo amante più Diana
piacque_[49]. Si seguitò a fare lo stesso nel Quattrocento, finchè,
sopravvenuta la Rinascenza piena e fiorita, l’universal culto che
si rendeva al Petrarca ebbe a mostrarsi, più assai che non si fosse
fatto in passato, anche con le forme della musica. Ed ecco tutta
una schiera di compositori esercitar l’arte loro sui versi di lui.
Certo, si preferivano i madrigali, perchè il madrigale era considerato
componimento musicale per eccellenza; ma non per ciò si lasciavano
l’altre rime. In una sua Orazione al cardinale Pisani, quel curioso
ingegno del Ruzzante finge che un contadino del Padovano vegga, tra il
sonno e la veglia, il Petrarca (Cecco Spetrarca) che lo manda appunto
a quel cardinale, per indurlo a non gettar giù la casa del poeta in
Padova, come aveva intenzione di fare, per ingrandire la Cattedrale.
Parlando della camera in cui era il ritratto del Petrarca, il contadino
dice: «E tanto pì l’è vero quel ch’à ve dighe, que in quella cambaretta
ello ghe fè una bona parte de quiggi smardegalle (_intendi madrigali_),
que sti zovegnatti spua grosso dal tempo d’anchuò va scantuzzando tutto
el dì». Ma molt’altre cose si mettevano in musica in quel secolo, come
mottetti, ballate, ottave, sonetti, per non parlare delle villotte alla
padovana, delle canzoni alla villanesca, delle canzoni alla napolitana,
ecc. I sonetti, cosa che importa a noi di notare, godevano di molto
favore, e persino il Folengo narra nel _Baldo_[50], come per passar la
noja del viaggio, i quattro eroi, Rubino, Falchetto, Cingar e Baldo,
andassero appunto cantando sonetti:
Quatuor hi varios pergunt cantando sonettos.
Non ci dice se fossero del Petrarca; ma è certo che molti di quelli
del Petrarca, e forse tutti, furono messi in musica, e il simile si
fece delle ballate, delle sestine, delle canzoni. Sì, persino delle
canzoni, le quali confrontate con le nostre romanze, potrebbero a noi
parere alle volte un po’ lunghette. Già alcune se ne trovano messe in
musica dal celebre Bartolomeo Tromboncino, che Pietro Aretino ricorda
come vivo nel prologo della _Talanta_[51], e, tra l’altre, le due che
cominciano: _Sì è debile il filo a cui s’attene_, e _Che debbo io far?
che mi consigli Amore?_ E queste stesse, e molt’altre, insieme con
sonetti, ballate, sestine e madrigali, si trovano musicate da Vincenzo
Ruffo, da Francesco Orso, da Stefano Rossetti, da Teodoro Riccio, dal
celebre Cipriano Van Rore e da altri molti. E non solo le rime d’amore
furono messe in musica, ma anche le altre: così Teodoro Riccio intonò
la famosa canzone _Italia mia_, e Cipriano Van Rore vestì di note
il terribile sonetto _Fontana di dolore, albergo d’ira_. Ma le rime
d’amore erano certamente preferite, e chi sa quante volte la gemebonda
canzone, o il sospiroso sonetto dell’innamorato poeta, cantati da
una voce commossa, al fremer soave di un liuto, furono _galeotti_
di nuovi amori, e principio, pur troppo, di nuovi canzonieri. Del
resto, giova avvertirlo, molt’altri versi si mettevano in musica, così
volendo quella quasi frenesia musicale dei tempi. «Se non piacciono
ai petrarchisti i Serafini», dice Antonfrancesco Doni, «lascingli
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