Attraverso il Cinquecento - 08

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Ora, se è vero tutto ciò, se è vero quanto afferma Michelangelo
Buonarroti, e si vede in cento altri modi confermato, che «i Re e
gl’Imperatori avevano per somma grazia che la penna dell’Aretino li
nominasse»[157], perchè dovremo noi stimare cosa sì rea che l’Aretino
volesse dai principi essere sovvenuto nei suoi bisogni, com’egli li
sovveniva nei loro? Certo, in far ciò, egli poco si curava della
verità, manco della delicatezza e del decoro; ma, ripeto, aveva a
trattare con tali che spesso non valevano più di lui, e, ad ogni modo,
non faceva opera diversa da quella di un cattivo giornalista dei tempi
nostri che dica e disdica, biasimi e lodi a seconda del tornaconto,
senza però credersi meritevole di essere additato alle genti quale
mostro di scelleratezza. E fu detto, non senza ragione, che Pietro
Aretino è il primo dei giornalisti.
Ma non giornalista soltanto. In pro dei suoi clienti egli sapeva
adoperarsi con altro ancora che con la penna; nè sono tutti vantamenti
bugiardi i suoi quando parla di maneggi condotti a buon fine, di
vantaggi da lui procacciati. In alcune sue lettere il duca di Mantova
si loda dei buoni uffizii che l’Aretino gli rendeva in Roma con
Clemente VII, buoni uffizii confermati dall’ambasciatore Gonzaga; senza
l’ajuto dell’Aretino forse il duca Alessandro non diventava genero di
Carlo V.
Un’altra accusa capitale grava sull’Aretino, ed è quella di
scostumatezza. La vita sua è descritta come un tessuto di turpitudini;
egli stesso è considerato quale il principe e il padre della
letteratura disonesta. Anche quest’accusa vuol essere esaminata
alquanto.
Scartiamo, anzi tutto, certe imputazioni di vizii nefandi, e
scartiamole, non già perchè sia dimostrata la loro falsità, ma
perchè, venendo esse da quei biografi appassionati e mendaci, da quei
libellisti che abbiam veduto, la verità loro è più che sospetta. E
anzi a provarle false senz’altro mi pare che si potrebbe addurre una
ragione di cui non fa mestieri essere fisiologo, patologo o altro, per
apprezzare il valore: Pietro Aretino amava troppo le donne.
Ma poniamo pure che l’accusa sia vera e confermata da certe cose che
l’Aretino stesso dice nella prima e nella seconda edizione del suo
_Orlandino_; sarebbe certo un carico molto grave, ma egli potrebbe
consolarsene vedendo quanto grossa brigata s’abbia d’attorno. _Haud
ignota loquor_. La Chiesa scagliava contro il turpe fallo tutti i suoi
fulmini, e la giustizia secolare minacciava ai rei nientemeno che
il rogo; ma ha pur ragione l’Aretino quando fa dire al Rosso nella
_Cortegiana_[158] che se il fuoco del cielo avesse dovuto cogliere,
come in antico, coloro che di quel fallo si dilettavano, tosto il
mondo si sarebbe votato _di signori e di grandi uomini_. E avrebbe
potuto soggiungere di parecchie altre sorta di genti. Che fosse vizio
comune degli umanisti, non è solo l’Ariosto ad affermarlo[159]; che
i cardinali non l’avessero in troppo orrore, non è solo Lutero a
dirlo[160]; che Leone X ci cascasse è, credo, una solenne calunnia,
ma è calunnia raccolta dal Giovio, vescovo di Nocera, e quel gran
letterato che tutti sanno[161]; pel qual vescovo e letterato il Lasca
compose il seguente epitafio:
Qui giace Paol Giovio ermafrodito.
Che vuol dire in volgar moglie e marito;
mentre poi il medesimo Lasca non si faceva scrupolo di tessere un
capitolo intero in lode delle così dette mele[162]. In un sonetto
della sua _Priapea_, il Franco nota tutti coloro che sono macchiati di
quel vizio, il papa, i cardinali, i principi e gli altri. Dicono che
Paolo III, udito il giuoco che Pier Luigi, suo figliuolo, aveva fatto
al vescovo di Fano, pronunziasse essere stata quella una leggerezza
giovanile, e non è provato che sia tutto calunnia, il giuoco del
principe e il detto del Pontefice. Alla inclinazione che per quel
vizio mostravano i preti accenna nella Calandria il Bibbiena, prete
egli stesso; e alla inclinazione che per esso mostravano i frati
accenna in un suo innominabile scritto Antonio Vignali, altrimenti
detto l’Arsiccio Intronato. Cito costoro, ma altri dieci si potrebbero
citare. Dice lo stesso Aretino che i cortigiani dovevano saper
essere agenti e pazienti, e che in corte di Mantova tutti odiavano le
donne[163]. L’autore dell’anonima _Vita_ fa dire al Mauro che «come
alcuno ha punto bel viso, subito se ne corre verso Roma», dove «le
bardasse precedono gli uomini dotti, le bardasse sono li patroni,
e li virtuosi li schiavi; da tutti sono avute care le bardasse, e
trionfano»; cosa confermata dal Brantôme, il quale racconta di un
giovane gentiluomo francese, bellissimo, il quale, essendo capitato
a Roma, _fut regardé d’un si bon oeil, et par si grande admiration de
sa beauté, tant des hommes que des femmes, que quasi on l’eust couru à
force, et là où ils le sçavoient aller à la messe, ou autre lieu public
de congregation, ne failloient ni les uns ni les autres de s’y trouver
pour le voir_, ecc.»[164]. Ciò avveniva pure in altre città d’Italia e
il Garzoni parla «degli sfrontati Ganimedi, che increspano le chiome
a guisa di femine, si fanno i ricci politi, e spargono le morbide
guance di mille profumi per far correre i galavroni al mele»[165]. Dopo
Roma, la peggior reputazione in così fatto argomento l’aveva forse
Venezia, dove (lo dice il Sanudo) le meretrici giungevano a lagnarsi
col patriarca Antonio Contarini di non poter più vivere, stante la
concorrenza; ma in Francia il turpe vizio era comunemente designato
col nome di usanza italiana, secondo avverte Benvenuto Cellini[166],
che d’averla seguitata fu più d’una volta accusato. E che lunga lista
si potrebbe fare di coloro che ne furono o imbrattati a dirittura, o
un tantino spruzzati! e con qual meraviglia ci si vedrebbe a canto a
Francesco Berni nientemeno che Michelangelo Buonarroti e forse Torquato
Tasso! Il Berni, che fu mandato in una badia di monaci Cassinesi
nell’Abruzzo, a guarire di certo suo turpe amore[167], chiedeva in un
capitolo ad Antonio Dovizi:
Che fate voi de’ paggi che tenete
Voi altri gran maestri, e de’ ragazzi,
Se ne’ bisogni non ve ne valete?
e consigliava:
Attenetevi al vostro ragazzino;
e tesseva un capitolo in lode delle _pesche_[168]. Michelangelo
Buonarroti compose quarantotto epitafii, un madrigale, un sonetto per
Cecchino Bracci, giovinetto di apollinea bellezza, morto di diciassette
anni, in Roma[169]; e quanto al Tasso, c’è di lui una lettera che
dà da pensare non poco[170]. L’usanza è così diffusa che nessuno più
se ne vergogna, nessuno si nasconde; anzi se ne parla e se ne scrive
comunemente e pubblicamente, come di cosa accetta all’universale, e
(giunge a dire il Firenzuola, un prete) di maggior _riputazione_[171].
Si vergogna forse Giovanantonio Bazzi, il pittor famoso, d’esser
cognominato il Sodoma? Veggansi, di grazia, le lodi che di quella
usanza di maggior _riputazione_ lasciarono nei lor versi, oltre ai già
citati, un Giovanni Della Casa, un Lodovico Dolce, un Andrea Lori, un
Curzio da Marignolle, e altri dieci, e altri cinquanta[172]. Certo,
non tutti costoro avranno conformato i fatti alle parole; ma le parole,
quando altro non provino, provano che nella comune opinione era quello
un picciolo peccato, che nulla poteva detrarre alla buona riputazione
di un uomo, uno di quei peccati, come dice la Sostrata nella
_Mandragola_ del Machiavelli, che se ne vanno con l’acqua benedetta.
E l’Aretino ricorda che come punto uno si mostrasse schivo delle
donne, si faceva di lui questo giudizio, ch’egli attendesse ad altri
amori[173].
La moltiplicità stessa e il rigor delle leggi provano la diffusione
del male, che non riuscivano per altro a estirpare. Nel 1518, in
Venezia, certo prete Francesco da S. Polo, colto in fallo, fu chiuso
in una gabbia di ferro e appeso al campanil di San Marco; sul qual
fatto si compose, secondo l’uso dei tempi, un Lamento[174]. Nel 1545
un altro prete, Francesco Fabrizio, vi fu decapitato ed arso[175].
Pio V perseguitò questi peccatori ad oltranza. Paolo Tiepolo, oratore
della Repubblica, scriveva da Roma il 20 di luglio del 1566: «Si usa
dal Governator di ordine di Sua Santità ogni diligenzia per aver nella
mano, e gastigar quei che han usato il brutto vizio della sodomia, onde
già alquanti giorni se ne abbrusciò uno in Ponte, e ultimamente ne è
stato ritenuto un cittadin romano, assai ricco, con molti altri, che
si tengono consapevoli e partecipi delli errori suoi. Onde alquanti
gentil’omeni principali di questa città si sono absentati»[176]. Il 2
d’agosto del 1578, Antonio Tiepolo scriveva: «Sono stati presi undeci
fra Portughesi e Spagnuoli, i quali adunatisi in una chiesa, ch’è
vicina San Giovanni Laterano, facevano alcune lor cerimonie, e con
orrenda sceleraggine, bruttando il sacrosanto nome di matrimonio, si
maritavano l’un con l’altro, congiongendosi insieme, come marito con
moglie. Ventisette si trovavano, e più, insieme il più delle volte,
ma questa volta non ne hanno potuto coglier più che undeci, i quali
anderanno al fuoco, e come meritano»[177]. Il caso tuttavia più noto e
più notabile è quello del famoso Jacopo Bonfadio che, innocente forse,
fu decapitato ed arso in Genova, nel 1550. Ma queste erano eccezioni.
Di regola i peccatori invecchiavano non disturbati, come il poeta
Porcellio, di cui narra il Bandello la curiosa istoria, e il peccato
porgeva occasione di detti arguti e di amabili burle[178]. Adriano VI,
il bisbetico ed odiato papa fiammingo, aveva fermato il proposito di
estirparlo a ogni modo quando lo colse la morte: non so se ne sarebbe
venuto a capo; so che avrebbe avuto molto da fare. Se dunque l’Aretino
fu reo, fu con altri infiniti, e non dovrebbe per ciò esser fatto
segno a un aborrimento particolare; ma io ho già accennata la ragione
la quale deve farci stimare più probabile ch’egli, di questo peccato
almeno, fosse innocente[179].
L’Aretino amava molto le donne, e sempre ne aveva una brigata per casa,
e, dal suo nome, si chiamavano le Aretine. Ma chi se ne scandalezzava,
chi se ne meravigliava? Il concubinato era allora tanto in favore
quant’era in discredito il matrimonio. Non era cosa da vergognarsene:
il Bembo fece nota al mondo, soavemente petrarcheggiando, la sua
Morosina, sul cui sepolcro i poeti d’Italia sparsero lacrime e fiori.
L’Aretino non ha punto bisogno di celare altrui le sue Aretine. Veggasi
con quanta disinvoltura, con qual sicurezza di non toccar per nulla un
soggetto sconveniente, le ricorda in una lettera a Luigi Gonzaga[180].
E più anni dopo egli poteva, senza commettere errore, mandare una di
queste sue amiche alla regina di Francia.
Ma veniamo ormai alle opere sconce dell’Aretino: esse formano buona
parte della infamia di lui.
A nessuno, credo, può cadere in animo di difenderle; ma, riconosciuto
e detto che sono turpi, bisogna subito soggiungere che sono turpi
della comun turpitudine. Chiamare l’Aretino il padre della letteratura
disonesta è ingiusto e irragionevole, perchè il vero padre non si
conosce, e ad ogni modo, nel Cinquecento, i padri sarebbero molti.
Si fa un gran romore per quei tristi sonetti con cui egli dichiarò e
illustrò certe immagini famose di Giulio Romano; ma troppo facilmente
si dimentica che quelle immagini, prima d’essere commentate dal poeta,
erano state disegnate da un pittore, incise da un incisore. Lasciate
l’Aretino nel suo guazzo, se volete giudicarlo giustamente, e il suo
guazzo è il suo secolo. Ora, meravigliarsi della disonestà dell’Aretino
quando quella stessa disonestà è tutto intorno a lui, occupa tutti
i gradi sociali, ingombra l’aria che si respira, infetta e perverte
ogni cosa, a dirittura ha del puerile. Non siam noi nel secolo di quel
Leone X che assisteva alla rappresentazione della _Calandria_, della
_Mandragola_ e dei _Suppositi_? di quel Clemente VII che ascoltava
leggere le sconce novelle del Firenzuola e ne premiava l’autore? E già
nel secolo precedente non aveva il Poggio composte in corte di Roma
le sue _Facezie_? Certi componimenti del Casa, del Molza, del Caro,
del Tansillo, dello stesso reverendissimo Bembo, degl’innumerevoli
berneschi, son essi veramente meno sconci di quelli dell’Aretino? Sono
più oneste quelle commedie, più pulite quelle novelle? Ma al secolo
XVI mancava il senso della decenza. Benvenuto Cellini racconta certi
fatti della sua vita di scapestrato con quella semplicità medesima,
con quella stessa bonarietà con cui parla di una forma o di un getto.
Nelle conversazioni più eleganti e più colte, in presenza di donne e
di prelati, non c’era cosa di cui non si parlasse liberamente, e lo
provano, per tacere d’altre testimonianze, certi luoghi di un libro
onestissimo, il _Cortegiano_ del Castiglione. Le fanciulle stesse
udivano impavidamente ogni cosa, e d’ogni cosa parlavano, e non canzona
lo Straparola quando, nelle sue _Piacevoli notti_ pone in bocca a certe
damigelle _oneste e leggiadre_ novelle ed enimmi da far arrossire un
mascheron di fontana. E che cosa si potesse dire e mostrare in pubblico
provano i _Canti carnascialeschi_, provano certe mascherate[181]. E
chi vuol sapere che cosa un autor di commedie potesse fare ingozzare al
suo uditorio, legga, di grazia, il Prologo del _Pedante_ di Francesco
Bello, e se non rece, salute.
E poi siam sempre a quella. Chi si scandalezzava delle composizioni
turpi dell’Aretino? Doveva scandalezzarsene il duca di Mantova, che
n’era ghiotto? dovevano scandalezzarsene i cardinali di Lorena e di
Trento, che, prima l’uno, poi l’altro, accettarono la dedica della
_Cortegiana_? doveva scandalezzarsene il buon popolo bolognese,
che alla rappresentazione di questa commedia assisteva nella prima
settimana di quaresima del 1537, cosa di cui lo stesso Aretino ebbe
a stupire, per essere, com’egli dice, Bologna _ancilla de’ preti_?
dovevano scandalezzarsene le donne torinesi, delle quali scriveva
Bernardino Arelio a messer Pietro, a proposito di un vituperoso
libercolo di Lorenzo Veniero: «Ah la bella festa che li fanno queste
madonne intorno»?[182] doveva scandalezzarsene l’Orfino, accolito e
commissario apostolico, il quale, dando notizia a messer Pietro di una
rappresentazione dell’oscenissimo _Marescalco_, fatta in Foligno, lo
prega _si vogli dignare_ mandargli qualche altra sua commedia? o il
Franco, che le turpitudini aretinesche biasimava nei più turpi sonetti
che mai siensi composti? La verità è che nessuno se ne scandalezzava.
Quei luridi libri furono la prima volta proibiti, insieme con altri
assai, solo nel 1557 e nel 1558, quando, cioè, era già cominciata
quella che si suol chiamare reazione o riforma cattolica: prima non
sarebbe venuto in mente a nessuno, come non venne in mente a nessuno, o
solo a pochissimi, di meravigliarsi che quella stessa penna che aveva
scritti i _Ragionamenti_ osasse delineare le vite di Cristo e della
Vergine.
Nemmeno per questo rispetto dunque merita l’Aretino d’esser messo in
luogo appartato, fuori del suo secolo; nemmeno per questo rispetto è
egli quell’uomo tristamente singolare, quel mostro, che si vuol fare di
lui[183].

III.
Veniamo ad un’altra accusa mossa all’Aretino, la quale assai più delle
altre mi pare sia ingiusta, e mi darà occasione di porre in rilievo
alcune qualità commendevoli dell’uomo infame. Sarà l’ultima di ordine
morale che dovrò considerare.
L’Aretino, si dice, è, per giunta al resto, un uomo di animo duro, di
natura astiosa e malevola. Ora, a me pare ch’egli sia nel fondo appunto
il contrario, e che se diventa cattivo, diventa per le necessità di
quel suo tristo mestiere. Non ho bisogno di avvertire che certe pessime
qualità possono assai bene andar congiunte con qualche bontà di animo,
e qualche bontà di animo mi par di trovare nell’Aretino, la quale
certamente non era ne’ suoi avversarii.
Di quella sua malvagità si recano parecchi esempii, fra gli altri la
storia dei sonetti feroci ch’egli compose contro il povero Brocardo,
e furono, secondo dice egli stesso, cagione della sua morte. A questo
vantamento disgraziato è da creder poco, perchè non so se nel mondo
siasi mai dato il caso che dei sonetti (i giambi d’Archiloco non erano
sonetti) abbiano ammazzato qualcuno, e nel Cinquecento l’invettiva e il
vitupero erano armi lecite, o, almeno, comunemente adoperate. Ad ogni
modo, altri parecchi si levarono contro il Brocardo con accuse velenose
e rabbiose, e in tutto questo imbroglio mi pare faccia assai più brutta
figura l’onesto, il contegnoso Bembo, il quale sollecitava l’ajuto
della penna dell’Aretino, e si teneva nell’ombra, che non l’Aretino,
il quale si poneva a cimento per lui. E morto il Brocardo, il
virtuosissimo Bembo non cessò d’odiarlo, mentre lo sciagurato Aretino
compose certi sonetti nuovi, in sua lode.
Un altro esempio si cita, ed è quello della guerra fatta al datario
Giberti, reputato uno dei più onorati e virtuosi uomini del suo tempo;
ma bisogna dire che noi non sappiamo propriamente quali ragioni d’odio
ci fossero tra i due, e bisogna soggiungere che non è in tutto levato
il dubbio che quelle pugnalate date allo Aretino in Roma dal bolognese
Achille della Volta fossero date a conto di esso Giberti, e ricordare
che la possibilità di certe vendette poco cristiane è pure accennata
dal Berni, là dove dice nel suo sonetto:
Giovammatteo, e gli altri ch’egli ha presso,
Che per grazia di Dio son vivi e sani,
T’affogheranno ancora un dì ’n un cesso.
In quel benedetto Cinquecento anche gli onesti avevano qualche volta
di strani ghiribizzi, e la vita di un uomo contava poco in un tempo in
cui persino i papi praticavano con tanto buon successo l’assassinio. Io
non so poi che l’Aretino si sia mai sbarazzato dei nemici col metodo
sbrigativo che usava Benvenuto Cellini, e tutti dicono che Benvenuto
Cellini è un grande artista, un po’ turbolento, un po’ stravagante,
un po’ scostumato, ma tanto amabile: nessuno dice ch’egli sia un
ribaldo e un infame. Il Cinquecento è tra l’altro, a dispetto dei
manierati costumi, a dispetto dell’arti fiorite e del _Galateo_, un
secolo di grande efferatezza, un secolo di passioni neroniane, pieno di
malfattori mostruosi e di delitti spaventevoli. Se l’Aretino fosse un
malvagio nel senso che qui s’intende, sarebbe ancora al suo posto e in
buona compagnia; ma egli non è un malvagio.
Sembra strano, a prima giunta, parlare della bontà dell’Aretino, e pure
questa bontà c’è, riconosciuta da molti, fra gli altri da Giovanni
de’ Medici, che a troppa bontà ascriveva certi dispiaceri incontrati
dall’amico suo. Lasciamo stare che l’Aretino osservava le pratiche
della religione in cui era cresciuto, e che il suo confessore in
Venezia, il buon padre Angelo Testa, si faceva da lui raccomandare
al cardinale Santa Croce; lasciamo stare, dico, perchè tenuto conto
della qualità del sentimento religioso nel Cinquecento, di che non è
da discorrere ora, ciò proverebbe assai poco. Ma la sua bontà si dà a
conoscere per altro. L’amore per i congiunti può conciliarsi, è vero,
con molta durezza verso gli estranei, ma esso è pur sempre segno e
prova di umanità. E l’Aretino amò teneramente la madre, e di amore
svisceratissimo le proprie figliuole[184]. Ajutò di buon animo le
sorelle, i cognati, i nipoti e si adoperò perchè altri li ajutasse. Che
lasciasse languire il padre nella più profonda miseria fu detto, ma fu
detto dal Franco, ed è poco probabile, perchè egli ci teneva troppo a
non far cosa che potesse attirargli biasimo dai suoi concittadini.
Ma noi abbiamo altre prove della bontà d’animo dell’Aretino. L’uomo
stimato pessimo tra i cattivi si rallegrava delle venture altrui, si
doleva delle disgrazie: desideroso di godere, gli piaceva che tutti
godessero intorno a lui e insieme con lui. Fra le sue lettere ce ne
sono moltissime con le quali caldamente raccomanda ad amici e fautori
potenti, ora un artista insigne come il Tiziano[185], o Sebastiano del
Piombo, ora un povero diavolo mezzo morto di fame, ora un uomo dabbene
a cui sia stato fatto un sopruso, o un imprudente capitato in qualche
brutto impiccio; e tra le lettere scritte a lui moltissime ce ne sono
di gente che si loda e che ringrazia dei buoni uffizii da lui fatti,
dei benefizii ricevuti. Era umanissimo con le donne che aveva in casa,
ai suoi servigi, e mente il Doni quando dice che minacciando e bravando
tutto il giorno egli si faceva tiranno _della meschinità loro_. Ciò non
si sarebbe potuto accordare con la giovialità della sua natura. Leggasi
invece la lettera con cui egli richiama in casa una Lucietta, fantesca,
la quale se n’era fuggita dopo d’avergli fracassato non so che quantità
di stoviglie, e veggasi com’egli piacevolmente si burli della paura di
lei, dicendo la sua collera essere _più corta che un fumo di_ paglia,
chiamando la casa sua una taverna, dove non si serra il pane e non si
adacqua il vino[186]. L’umanità sua si ribellava ai maltrattamenti,
anche quando fossero inflitti nel nome della giustizia. Raccomandando
al cardinal Santa Croce un povero predicatore perseguitato, egli
esclama: «Cristo, per quel che s’intende nell’umanità sua, non lasciò
nè prigioni, nè ruote, nè corde, nè fuoco»[187]. Pensiero che a ben
pochi allora poteva cadere in mente.
Sentì vivamente l’amicizia e fu pronto ad accoglierne il sentimento
nell’anima, il che certo non è proprio delle nature subdole e bieche.
Egli stesso si dice facilissimo in donarsi altrui[188], e in certe
amicizie si mostra esempio raro di fedeltà e di costanza. Diceva gli
amici essere _stelle poste nel cielo del corso umano_[189], e in molte
delle sue lettere esprime con vive parole il fervore che quell’affetto
gli metteva nell’animo, le gioje che gli procacciava. E se ebbe
amici traditori, che ricambiarono con villanie e con calunnie i suoi
benefizii, ebbe amici sinceri e devoti, che lo amarono com’egli li amò.
Il Tiziano fu una cosa con lui. Senza di lui Giovanni de’ Medici diceva
di non poter vivere. Antonio da Leva gli scriveva avere la sua amicizia
più cara di una città. Veronica Gambara gli scriveva: «... ringrazio
la fortuna, che per ricompensarmi di tutte le offese per sua gentilezza
fin ora fattemi, mi abbia dato la grazia vostra, la qual più estimo che
quanti mali e beni possa o voglia mai più darmi»[190]. Che poi, oltre
a quello dell’amicizia, l’Aretino potesse ricevere nell’animo altri
sentimenti gentili, prova quel suo tenero amore per Perina Riccia[191];
prova la gratitudine lungamente serbata e sovente espressa a Ferraguto
de Lazzara, che due volte gli aveva salva la vita; provano altri fatti
di cui potrebbe farsi ricordo.
Ma la virtù sua principale fu la liberalità. «Se», scriveva egli al
cardinal di Trento, «io potessi tanto dare, quanto mi è forza ricevere,
il mio animo mostrerebbe quel ch’egli è, e non ciò ch’ei pare»[192].
In una lettera a Giambattista Castaldo, parlando di certo furto che gli
era stato fatto, dice: «Ma Dio lo perdoni a chi assassina me, che do a
ognuno quel ch’io ho: per ciò mai niente ho, nè averò, se non cambio
vezzo: la qual cosa non è possibile, perchè io ebbi la prodigalità
per dota, come la maggior parte degli uomini ha l’avarizia»[193];
e la liberalità chiamava una _virtù di natura con arte_[194]. A
quella sua idolatrata Perina Riccia, che dei molti benefizii, e del
grandissimo amore, doveva poi mostrarglisi tanto ingrata, scriveva
«che il vedersi manicar l’ossa è il trionfo di una generosa natura e
non d’una sontuosa boria»[195]. Dava quattrini a comari, a soldati, a
bisognosi d’ogni sorta, e si scusava del poco e del tardi: persin delle
vesti si privava a comodo degli amici, e rimaneva «dispogliato in casa
i sei e gli otto giorni»[196]. Ad amici e protettori mandava piccoli
presenti o grossi donativi, e al duca di Mantova si vantava di aver
regalato per più migliaja di scudi[197]. Che assai volte egli facesse
ciò con mire interessate non si può negare; ma è ingiusto dire che nol
faceva per altro; è ingiusto non tener conto di quella sua prodigalità
istintiva, di quelle sue inclinazioni da gran signore che abbiamo già
notate, e che gli facevano dire: «A me piacciono i filosofi signorili
e pieni di nobili maniere»[198]. La sua casa era un porto di mare,
dove capitava ogni specie di gente, soldati male in arnese, pellegrini
afflitti, letterati affamati, e _ogni sorta di cavalieri erranti_.
E ciò è confermato dal Doni e da Scipione Ammirato. I _servitori
cani_ ci rubavano a man salva. Ad un amico che lo esortava ad essere
meno prodigo e a curar meglio gl’interessi, scriveva: «Mai non sarà
vero ch’io serri alle turbe quell’osteria che gli è stata aperta 18
anni»[199]. E così spese nel corso di sua vita meglio di 70,000 scudi,
grossissima somma a quei tempi.
Ma non si vuole ammettere che l’Aretino potesse far cosa buona;
non si vuol credere che sotto a quei panni ch’egli si procacciava
col suo tristo mestiere potesse esserci un po’ di cuore. La sua
generosità, dice il signor conte Giammaria Mazzuchelli, muove dalla
sua ambizione[200]. Leggendo della prodigalità dell’Aretino, ci torna
in mente quel marchese Alberto Malaspina, trovatore nostro, che rubava
alla strada per aver modo di regalare. Ma l’Aretino fu certamente più
onesto di lui. Avendo un servitore del ricco mercante Battista Vitale
smarriti in sua casa 300 zecchini, egli li fece restituire prontamente,
e non volle di ciò lode alcuna. Quanti, che in cospetto del mondo sono
assai meno infami dell’Aretino se li sarebbero tenuti!
Non dovendo l’Aretino, secondo la sentenza dei giudici suoi, avere
in sè cosa buona, bisogna che anche l’aspetto abbia del cattivo, sia
rivelatore dell’interna tristizia. Dice sì l’Ammirato che difficilmente
si sarebbe potuto vedere _un vecchio più bello, nè più pomposamente
vestito_; ma, in verità, egli doveva essere un brutto vecchio, per
quanto vestito pomposamente, giacchè il viso è specchio dell’anima. Ed
ecco qua, per l’appunto, il ritratto dipinto da quel valentuomo del
Tiziano. «Figura di lupo che cerca la preda», esclama Francesco de
Sanctis. «L’incisore gli formò la cornice di pelle e gambe di lupo,
e la testa del lupo assai simile di struttura sta sopra alla testa
dell’uomo»[201]. Pare chiaro, tanto più che lo Chasles aveva già fatto
prima la stessa, stessissima osservazione[202]; ma per meglio giudicare
di questa somiglianza lupina bisognerebbe confrontare gli altri
ritratti dell’Aretino: in quello pubblicato ultimamente dal Sinigaglia
è assai più facile riconoscere il satiro che non il lupo[203]. Giova
ad ogni modo notare che quello dipinto dal Tiziano non produceva nel
Franco l’impressione che sembra produrre nei critici moderni. Il Franco
ne parla in parecchi de’ suoi sonetti. In uno, toccando della perfetta
somiglianza, dice:
Tutte le sue fattezze son ritratte
Dal vero, così queste, come quelle,
E gli occhi son sì veri e le mascelle,
Che non somiglia tanto il latte al latte.
E in un altro, volgendosi allo stesso Tiziano:
Però ch’egli è miracolo che un atto
Gli abbiate dato ch’aggia dell’onesto,
E che ne paja savio e modesto,
Nè mostri pur aver sempre del matto.
_Onesto, savio, modesto!_ o dov’è il lupo?

IV.
L’Aretino parla volentieri delle proprie virtù, si chiama da sè
stesso virtuoso, ed è così chiamato dagli altri. Che vuol dir ciò?
È egli un ipocrita che, celando il vero suo essere, si ammanta della
virtù che non ha? E quegli altri, sono essi illusi, sono ingannati,
che non ben conoscono colui che lodano? Niente affatto. L’Aretino
non è un ipocrita, anzi è un grande odiator degli ipocriti. Egli
fa ciò che fa, naturalmente, svelatamente; mena vita sbracata e non
nasconde il suo giuoco. Un ipocrita non avrebbe mai pubblicati quei
sei volumi di lettere in cui egli si mostra intero, sotto tutti
gli aspetti. Quanto agli altri, sapevan benissimo con chi avevan da
fare. Che cosa dunque vuol dire quel _virtuoso?_ Vuol dire che il
Rinascimento s’è formato un nuovo concetto della virtù, un concetto
molto diverso dal cristiano, un concetto strettamente legato alle
forme e agli ideali di quella coltura. Della virtù cristiana certo si
parla e si scrive in quel secolo; ma non è più che un tema retorico:
tutti l’ammirano e la lodano, nessuno la pratica. Secondo quel nuovo
concetto, virtuoso è chiunque raccolga in sè certa copia di pregi,
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