Attraverso il Cinquecento - 14

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Romana[372]. Tullia d’Aragona gloriavasi, e sembra a buon diritto, di
aver nelle vene sangue, non pur cardinalizio, ma reale[373]. Angela
Zaffetta si vantava figliuola del Procuratore Grimani, e Lucrezia
Squarcia pretendeva a non so quale _antiqua e gran genealogia_. Il
Giraldi Cinzio narra di certa Linda, la quale essendo nata di sangue
assai gentile, si diede a fare la cortigiana, per inclinazione[374].
Altre, che non avevano le stesse ragioni della Tullia e della Linda,
cercavano egualmente di passar per nobili, della qual cosa molto si
lagna lo Zoppino nel già citato Ragionamento di messer Pietro[375].
Che le cortigiane attendessero con ogni studio a farsi belle
e piacenti, non fa bisogno dirlo. Rinfrescavano la carnagione,
imbianchivano e rassodavano le carni con varie maniere di belletti e
di lisci, votando, come dice il Garzoni, le spezierie di biacca, di
sublimato, di più maniere di allumi, di borrace, di adraganti, di acque
distillate, di aceti lambiccati, e non rifuggendo neanche dall’uso
di certe sudicerie stomacose, alcune delle quali sono ricordate dallo
Zoppino[376]. Tingevano in biondo i capelli con acque medicate di cui
son pervenute sino a noi le numerose ricette, e assoggettandosi a tal
uopo a pratiche lunghe e penose. Nei loro spogliatoi era un barbaglio e
un arruffio di specchi, di ampolle, di bossoli, di pettini, di forbici,
di giojelli[377], e l’aria affogava con l’alito acuto dell’acque rose,
dell’acque nanfe, dell’acque muschiate, dei zibetti, degli ambracani,
dei mirabolani, del bengiuì e di mille sorta di polveri, di pasticche,
di saponi. Anzi afferma il Garzoni che tutta la casa olezzava di
profumi. Nè si deve di ciò dar troppo biasimo alle cortigiane, le
quali non facevano veramente se non seguitare l’usanza comune. Ercole
Bentivoglio, parlando delle donne del tempo suo, dice _ben rare_ quelle
che non adoperassero il liscio[378], e quanto all’uso d’imbiondirsi i
capelli, era uso di tutte le donne italiane, ma più particolarmente
delle veneziane[379]. Il Tansillo comincia una terzina di certo suo
capitolo col verso
Donne che a farvi i capei d’or siete use;
e lodando le donne di Francia e di Germania, che non avevano, come le
italiane, quella fantasia, dice:
Nessuna se ne ammala o se n’ammazza
Per disio di portar le chiome gialle[380].
Vero è che quella fantasia l’avevano già avuta le donne romane[381].
Nel vestire, le cortigiane ostentavano somma eleganza e lusso
eccessivo. Usavano biancherie finissime e profumate, vesti di seta, di
velluto, di drappo d’oro ricchissime, acconciature pompose, pellicce
delle più rare, guanti preparati con la concia di gelsomini di Spagna,
o di garofani, trine e pizzi preziosi di Venezia, e abbagliavano con lo
scintillio delle anella, delle maniglie, delle collane, dei pendenti,
dei diademi. Erano sempre le prime a seguitare le nuove fogge, le quali
mutavano spesso[382]. Di tanto in tanto andava una legge, o un bando,
che tentava por misura a tali pompe, vietando i panni più ricchi, gli
ori e le gemme; ma leggi e bandi facevano poco pro, e coloro stessi che
li avevano mandati fuori li lasciavan cadere. Le cortigiane non ricche
toglievano, per comparir fuori di casa, vesti e ornamenti a nolo[383].
Se eccessivo era il lusso del vestire, non minore era quello delle
abitazioni, degne spesse di principesse, nonchè di cortigiane. Palazzi
sontuosi ospitarono sovente le Olimpie, le Diane, le Ortensie più
facoltose. Una Salterella pagava in Roma ottanta scudi d’oro di
pigione; Isabella di Luna ne pagava cento, somma più che cospicua
pel tempo. Angela Zaffetta avrebbe voluto in fitto il palazzo dei
Loredano, in Venezia[384]. Le stanze erano non di rado tappezzate
di arazzi preziosi, di broccati, di drappi d’oro, di cuoi dorati,
oppure mostravano le pareti e le volte dipinte da mano maestra.
In terra, su per le tavole, vedevansi tappeti turcheschi. I letti
avevano lenzuola di renza finissima, padiglioni di raso, coltri di
seta, cuscini ricamati, e ai letti facevano degna accompagnatura
seggioloni di cremisino, di velluto listato d’oro, scranne scolpite,
specchi riccamente incorniciati, spalliere pompose, cofani e stipi
leggiadramente intagliati e intarsiati. Nelle credenze scintillavano
le argenterie, le maioliche di Faenza, di Cafaggiolo, di Urbino, i
vetri di Venezia; e raccolti in artificioso assetto, o sparsi in vago
scompiglio, vedevansi per le stanze quadri, statue, vasi preziosi,
armi eleganti, liuti e mandòle, libri sfarzosamente legati, ninnoli
d’ogni sorta, e persino anticaglie, sebbene il Calmo raccomandasse
alla signora Vienna di non accettarne in dono, se non quando tenessero
poco luogo e valessero molti denari. Cagnuoli da tenere in grembo,
gattini lindi e coi fronzoli, pappagalli loquaci, scimie ghiribizzose,
e altri animali piacevoli o rari, empievano la casa dei giuochi e
delle voci loro, e facevano festa alla padrona[385]. Negli atrii,
nelle logge, nelle anticamere, era uno sfoggio ridente di fiori
e di piante peregrine. Ancelle garbate vestivano e servivano la
signora, accoglievano premurosamente le pratiche; un vario e numeroso
servidorame attendeva agli altri servigi di casa. Camilla da Pisa
aveva a’ suoi stipendi anche un cantiniere e un fattore. E la casa era
provveduta d’ogni ben di Dio. Nelle cantine invecchiavano i vini più
generosi, nelle dispense le più ghiotte leccornie s’accumulavano, così
che a ogni ora del giorno, al primo apparire di un ospite gradito, era
facile ammannire una colazion saporita, o una stuzzicante cenetta[386].
In tali case, in mezzo a così fatto lusso, accoglievano le cortigiane
gli amici e ammiratori loro, e com’erano esse di tutti i ritrovi
eleganti, così tenevano ritrovi elegantissimi, a’ quali non mancavano
ambasciatori e prelati, cavalieri e letterati, musici e ogni altra
maniera d’artisti. Tullia d’Aragona, dovunque andasse, si formava
intorno la sua piccola corte. Di certa Lucia Trevisan, morta in Venezia
nell’ottobre del 1514, diceva il Sanudo: «cantava per eccelenzia, era
dona di tempo, tutta cortesana, e molto nominata apresso musici, dove a
casa sua se reduceva tutte le virtù»[387].
Questo s’intende naturalmente delle cortigiane maggiori, le quali, se
erano così magnifiche in casa, possiam figurarci quali si mostrassero
fuori. Uscivano in pompa magna, molte in isplendidi cocchi[388], o
cavalcando ginnetti baliosi, e mule ingualdrappate e impennacchiate,
con seguito da duchesse. _Madrema non vuole_ si tirava dietro
ordinariamente dieci fantesche, altrettanti paggi e altrettante
ancelle[389]. Un’altra cortigiana, di cui non ci è detto il nome,
andava per Venezia _in lunga processione, col maggiordomo inanzi,
col paggio... e con quanti fanti e massare_ poteva _accattar per
tutta la vicinanza_[390]. Così si recavano a diporto, alle feste, ai
conviti, ai bagni pubblici, o stufe, come si chiamavano allora[391],
alle chiese, le quali erano diventate luogo di ritrovo per esse e per
quanti le praticavano, e la gente lasciava la messa per farsi loro
d’attorno[392]. Gli amici andavano a levarle in casa e le accompagnavan
per via, ingrossando la lor brigata di quanti nuovi ammiratori
incontravano cammin facendo, e nel numeroso seguito non mancavano
bravacci di professione, pronti a tirar l’arme in difesa delle
padrone[393]. Le quali, se andavano a piedi, procedevano a guisa di
tante duchesse, con passi misurati, con andatura maestosa, appoggiando
la mano famigliarmente sulla spalla di tale de’ loro accompagnatori,
agitando con l’altra, se di state, la ventola dorata e dipinta, fatta
a modo di banderuola, favellando con garbo, pompeggiandosi con grazia.
Perciò aveva ragione quel buon tedesco, che parlando delle cortigiane
di Roma, diceva che a vederle in istrada si sarebbero prese per donne
dabbene[394]; e non aveva torto l’Antonia, quando esortava la Nanna a
non dare altro stato alla figliuola, e le diceva: «facendola cortigiana
di subito la fai una signora, e con quello che tu hai, e con ciò che
ella si guadagnerà diventerà una reina»[395]. E i guadagni potevano
veramente essere assai lauti. Molte cortigiane, anche non bellissime,
arricchivano, comperavano case, e le appigionavano. Dice il Coppetta
nel capitolo che ho ricordato pur ora:
... ne sono molte (e ciascun lodi)
Che non son belle, e pur han fabbricato,
Ch’io non so immaginar le vie, nè i modi.
Figuriamoci dunque che cosa potessero fare le belle. La Imperia morì
ricca e in casa propria; la Ortensia si fabbricò in Roma una casa
da regina. Una Lombarda, ricordata nella _Tariffa_, s’era arricchita
_d’oro e di terreni_. Di certa Martinella, che figura nella commedia
del Contile _La Pescara_, dice il servo Marcello: «ella è nobile, ha
denari, gioje, vesti e possessioni a Viterbo»[396]. Non è a stupire
se le cortigiane insuperbivano e si vantavano de’ loro trionfi[397]. I
guadagni, come ben s’intende variavano assai, come variavano i prezzi.
Quel matto del Doni, descrivendo certa casa con grandissimo dispendio
costruita, arredata, ordinata da un _signore ricco e potente_, e
abitata dalle più belle donne che si potessero avere, indica quale
massimo il prezzo di venticinque scudi[398]; ma nel _Catalogo di
tutte le principal et più honorate Cortigiane di Venetia_[399] si
trova registrata una signora Paulina, _Fila canevo_, che ne prendeva
trenta, e nella _Tariffa_ è ricordata una Cornelia Griffa, che ne
chiedeva quaranta e più. Tullia d’Aragona riuscì ad avere in Roma,
da un tedesco, sino a cento scudi per notte[400]. Le pratiche, anche
se pari di fortuna e di grado, non largheggiavano tutte ad un modo,
e la liberalità loro ricevava misura non solo dall’umore proprio
di ciascuna, ma ancora dall’indole e dal costume nazionale. A tale
riguardo avevano pessimo nome nel mondo delle cortigiane gli spagnuoli,
molto migliore i tedeschi, ottimo i francesi. Fra gl’italiani erano
in fama di più generosi i veneziani, di più taccagni i napoletani,
troppo inclinati, dicevasi, a pagar di moine e di sospiri. Del resto
la liberalità dei signori non aveva limiti, quando era stimolata dal
capriccio o dalla passione, e in un curioso libro spagnuolo, rarissimo
anche dopo la ristampa fattane or son pochi anni, la _Lozana Andalusa_,
è detto che le cortigiane di Roma ereditavano talvolta dagli amanti
loro somme cospicue[401]. In qual modo Angelo Dal Bufalo, _uomo della
persona valente, umano gentile e ricchissimo_, tenesse per più anni
l’Imperia, dice il Bandello[402]; nè meno pomposamente di certo l’avrà
tenuta Agostino Chigi, il famoso e magnifico banchiere, del quale pure
fu amica[403]. Che, da altra banda, le cortigiane, anche se belle e
di gran recapito, potessero alle volte trovarsi a disagio, non parrà
strano a nessuno: a corto di quattrini, importunate dai creditori, esse
impegnavano le robe loro agli ebrei, o vendevano a furia arredi, vesti,
giojelli, quanto avevano lucrato e raccattato in molti anni[404].
Le cortigiane erano anzitutto cortigiane, il che vuol dire che ponevano
ogni studio in render proficuo, quanto più era possibile, il loro
tristo mestiere. Un così fatto esercizio, si sa, non comporta troppi
scrupoli, nè troppe delicature, e non è in chi v’attende che si
debbono ir cercando la nobiltà dell’animo, la sincerità delle parole, e
l’onestà delle azioni. Le cortigiane del Cinquecento non differiscon in
ciò da quelle di altri tempi. Troviamo in esse, generalmente parlando,
le solite arti e le consuete frodi del meretricio; nè si può dire che,
per questa parte, da allora a oggi, ci sia stato mutamento, se non
quanto le piccole e le grandi ribalderie del mestiere erano allora, più
che ora non sieno, condite di piacevolezza e azzimate di galanteria.
Finti ardori e finte lagrime, finti sdegni e finte paci, accorte
ritrosie e opportuni incitamenti, lettere artificiosamente tessute,
versi ingegnosamente composti, acconci e graziosi doni, blandizie soavi
alternate con misurati rigori, erano gli accorgimenti e l’arti di cui
esse giovavansi per invescare, trattenere, richiamare, piumare gli
amanti. Gli scrittori del tempo abbondano di racconti, di ammonizioni,
di avvisi, circa le beffe, le truffe, i tradimenti e l’altre infinite
poltronerie che esse usavan di fare. Le accuse e i biasimi vengono
da tutte le parti, prendono tutte le forme, ricordano quelle a cui in
antico erano andate soggette le etère famose. Degna d’andarne alla pari
con la greca Cirene e con la greca Elefantide ci si mostra Isabella
de Luna[405]. Di una che fu ladra, tace il nome, ma narra il furto il
Doni[406]. Di un’altra, invescata in laidissimo amore, fa menzione
Pietro Nelli in una delle sue _Satire alla Carlona_[407]. In un suo
capitolo il Coppetta copre di vituperi quella medesima Ortensia Greca
che in altro capitolo aveva levato a cielo, e chiama lei, e la madre di
lei e la fantesca
Arpie crudeli, infide, inique e ladre.
Lorenzo Veniero svergognava Elena Ballerina e Angela Zaffetta[408],
vituperate entrambe anche nella _Tariffa_; l’Aretino, il Franco e altri
svergognavano Tullia d’Aragona. Andrea Alciato, Fausto Andrelini,
Ludovico Bigi, scagliavano contro le cortigiane velenosi epigrammi
latini; Teofilo Folengo le sferzava a colpi di versi maccheronici;
Sperone Speroni componeva contro di esse una virulenta orazione. Le
malcapitate erano inoltre vituperate e derise in novelle, in commedie,
in epistole, in trattati, in sonetti, in ragionamenti, in tariffe, in
altri componimenti di vario genere, popolari e non popolari, per nulla
dir delle prediche. In Firenze, nelle feste del carnevale, brigate
d’uomini che si fingevano ridotti a povertà dalle cortigiane, andavano
in giro, cantando l’infamia delle spogliatrici. Agli 11 di febbraio
del 1525 un anonimo scriveva da Roma a Paolo Vettori in Civitavecchia:
«Jeri m.º Andrea dipintore fece un carro dove erano tutte le cortigiane
vecchie di Roma fatte di carta, ciascuna con il nome suo, e tutte
le buttò in fiume avanti al papa; mandò all’Orsolina il sonetto e
la canzona che si cantava. Domane le cortigiane, per vendicarsi,
frustano detto m.º Andrea per tutta Roma»[409]. In Roma poesie contro
le cortigiane si affiggevano alla statua di Pasquino, in Venezia alla
statua del Gobbo di Rialto[410].
Ma non tutte le cortigiane erano poi così ribalde, di così abietto
animo e di così sozzo costume com’eran le più. Francesco Maria Molza
credeva che ancor esse potessero amare davvero, e ferventemente, e il
Bandello, che prima era stato d’altra opinione, tenne poi la opinione
del Molza[411]. Camilla Pisana pare abbia amato sinceramente Filippo
Strozzi, e Tullia d’Aragona fu più d’una volta presa ai lacci d’amore,
e quando amava, così ella stessa assicura, la gelosia l’uccideva.
Innamorata del Brocardo pare sia stata veramente quella Manetta
Mirtilla, che della morte di lui, avvenuta nel 1531, consolavano
con sonetti Bernardo Tasso e l’Aretino. Il Giraldi Cinzio narra di
una cortigiana veneziana, la quale _riccamente e con riputazione a
lei convenevole esercitava la sua disonesta arte_, una storia assai
notabile, perchè documento, non solo dell’affetto che poteva alle
volte entrar nel cuore di tali creature, ma ancora del buon ricordo e
della gratitudine che ne serbavano gli amati[412]. Una signora Medea
si accorò tanto della morte di Ludovico Dall’Armi, suo amante, che
l’Aretino le scrisse una lettera, chiedendole scusa di avere detto e
scritto che amore di cortigiana non fu mai vero, e che le cortigiane
non cercavano se non il guadagno. Ella consumò la roba e sè stessa per
lui, e lui morto, faceva grandissime elemosine in suffragio dell’anima
sua[413]. Il Giraldi Cinzio narra la storia di una cortigiana di
Rimini, che innamorata di un siciliano, perdette con lui ogni suo
avere[414]. Del resto, se le sciagurate creature che vivono facendo
copia di sè si mostrarono, in ogni tempo, capaci d’amore, più dovevano
essere nel Cinquecento, quando sottili ed intricate dottrine amorose
velavano molti contrasti, mitigavano molte ripugnanze, e di molte
cose alteravano, quant’era d’uopo, il significato e il carattere.
Nè tutte le cortigiane erano d’umore di concedersi a tutti. La fine
coltura, e il frequente conversare con uomini gentili, dovevano pure
destare nelle migliori tra esse una delicatezza di giudizio, e una
schifiltà di sensi sufficienti a preservarle, quando il bisogno non
le premeva, da contatti o vili, o incresciosi. Parecchie affermano di
non si concedere se non a chi piaccia loro, e di ciò molto le lodano
gli amici più fortunati, mentre altri si lagnano d’ingiusti rigori
e di repulse spietate. Tullia d’Aragona, essendo in Ferrara, fece
talmente disperare, con gli ostinati rifiuti, un giovane gentiluomo,
ricco e dabbene, che il poveretto, nella stessa casa di lei, tentò
d’ammazzarsi[415]; nè mi pare ci sia buona ragione di credere fosse
tutta astuzia e commedia di cortigiana. L’Aretino, che vituperò
le cortigiane com’egli sapeva e usava vituperare, lodava per donna
schietta e dabbene, anzi per _la più bella, la più dolce e la più
costumata madonna che abbia Cupido in sua corte_, e per _divina
giovane_, la signora Angela Zaffetta[416]; la quale non per altro
provocò l’ira di Lorenzo Veniero, che le scrisse contro quel suo
obbrobrioso poemetto intitolato appunto _La Zaffetta_, se non perchè
rifiutò una volta di aprirgli la porta[417]. Lo stesso Aretino scriveva
alla signora Basciadonna: «Io che aveva preso la penna per farvi una
lunga istoria de i semplici andamenti della signora Marina vostra
figliuola, riduco la somma del tutto con dirvi che l’altre sue pari
ingannano ognuno con le tristizie, ed ella inganna solo sè stessa con
la bontà; onde saria stata meglio monaca che cortegiana»[418]. Lorenzo
Veniero che tanto male dice della Zaffetta e della Ballerina, loda per
bella, buona e cara una Giacoma Ferrarese. Di una cortigiana sontuosa,
magnifica, non illetterata, faceta ed arguta, liberale e modesta, la
qual fu un tempo in Perugia, fa ricordo Marc’Antonio Bonciario[419].
La Basciadonna fece della figliuola una cortigiana; ma l’Imperia una
ne lasciò che, quasi nuova Lucrezia, tentò di togliersi la vita per
sottrarsi alle disoneste voglie del cardinale Petrucci[420].
Se frequenti, come abbiam veduto, erano i biasimi che toccavano alle
cortigiane, non meno frequenti erano le lodi; e quanto quelli eran
crudi e violenti, tanto eran queste amorevoli e smaccate. Sperone
Speroni scrisse contro alle cortigiane una orazione; ma, prima di lui,
ne aveva scritta una in lode Antonio Brocardo, lo sfortunato avversario
del Bembo. E il Molza celebrava e consolava in eleganti versi latini la
Beatrice Spagnuola, altrimenti detta da Ferrara, quella Beatrice di cui
tante ragioni egli avrebbe avuto di dolersi, e in commendazion della
quale non isdegnò di scrivere un sonetto la stessa Vittoria Colonna; il
Muzio, Bernardo Tasso, il Varchi, altri, esaltavano Tullia d’Aragona;
Niccolò Martelli levava a cielo la sua _divina e onoratissima_ madonna
Maddalena Salterella[421]; Michelangelo Buonarroti lodava Faustina
Mancina[422]; mentre durava ancor viva e gloriosa la memoria di quella
Imperia che dieci poeti avevano glorificata nei loro versi, e di cui
uno dei più infervorati ebbe a dire in un epigramma latino, che due
numi avevano fatto a Roma due grandi doni, Marte l’impero, Venere la
Imperia[423]. E non è tra le cose meno strane di quel singolarissimo
secolo il veder celebrate le cortigiane coi medesimi concetti poetici e
le medesime forme d’arte con le quali il Petrarca aveva fatto immortale
il nome di Laura[424].
Il Calmo, che molte sue facetissime lettere indirizzò a cortigiane,
scriveva a una signora Fontana: «Non è maraveja si ’l se fa istoria
di fatti vostri, se i poeti sta vigilanti in far composizion in laude
vostra, se i musici ve mete intei so canti fegurai, e se i sonadori fa
saltareli su la vostra lezadria, e breviter infina i avocati a fagando
le so renghe, ve introduse a qualche so poposito segondo i passi. Se
vien forestieri i ve vuol gustar, si vien imbassadori i ve vuol sentir,
si ’l vien signori i ve vuol parlar, e breviter la più parte di corieri
ve vuol praticar»[425]. Nel dialogo di Scipione Ammirato, intitolato
_Il Maremonte_, uno degli interlocutori dice a chi l’ascolta: «Io credo
che voi abbiate udito nominar la Panta e l’Angela, amendue famosissime
meretrici, quella in Roma, e questa in Napoli, e le riverenze, e
gl’inchini, e i corteggiamenti che lor si fanno da cavalieri tutto dì,
e con quanta magnificenza e grandezza si stieno nelle lor case»[426].
Ad Angela Del Moro facevano pubblicamente di berretta i gentiluomini
anche quando aveva passata l’età sinodale, ed era divenuta _decana
delle cortigiane_ di Roma[427]. E delle famose cortigiane di Roma
appunto, ricordate dallo Zoppino e da Lodovico nel Ragionamento di
messer Pietro, ciascuna aveva il suo particolar seguito: la Lorenzina,
la Beatrice e la Greca di gentiluomini, la Beatricica di prelati, la
Tullia di giovinetti, la Nicolosa di Spagnuoli, la Laurona di mercanti,
l’Ortega di avvocati e procuratori, _Madrema non vuole_ di duchi, di
marchesi e di ambasciatori[428].
Nè si creda che esagerino i due buoni compari. Cardinali e
segretarii pontifici non si vergognavano di viaggiare in compagnia
di cortigiane[429], e di banchettare con esse. La sera del 10 agosto
1513, il marchesino Federico Gonzaga, in età di soli dodici anni,
cenò in casa del cardinal di Mantova, suo zio, avendo commensali
il cardinale d’Aragona, il cardinale Sauli, il cardinale Cornaro,
parecchi vescovi e gentiluomini e la cortigiana Albina; il giovedì
prima egli era stato in casa del cardinale d’Arborea, dove si era
recitata, in ispagnuolo, una commedia di Juan de la Enzina, e dove
erano capitate _più putane spagnuole che omini italiani_[430]. Un
Marco Bracci, descrivendo a Ugolino Grifoni, segretario di Cosimo I,
le grandezze in mezzo a cui viveva la _magnifica_ signora Salterella
(non la Maddalena, un’altra) dice che le facevano _afa i vescovi_, e
che una sera cenò con cinque cardinali[431]. Vincenzo Fedeli racconta
nelle sue _Memorie di Perugia_ che nel novembre del 1557 giunsero in
quella città il cardinale Caraffa, nipote di Paolo IV, e il cardinale
Vitello. Il cardinale Caraffa, «dopo cena, publicamente, fece andare
in palazzo tutte le putane, che a quelli tempi se trovaveno in Perugia,
quale furono in tutto 14; e presene per sè una, e una per el cardinale
Vitello; el resto acomodoli a la sua famiglia»[432]. Nella _Cortegiana_
dell’Aretino, l’Alvigia ricorda i suoi bei tempi, quando la
frequentavano _signori e monsignori ed ambasciadori a josa_, e accenna
a un vescovo, cui tolse un giorno la mitra per porla in capo a una sua
fantesca[433]. Di una gran cortigiana, non nominata, dice il Mauro che
la sera andava in casa di lei
qualche ambasciadore
E qualche conte e qualche chierca rasa[434].
Afferma il Calmo, in una lettera alla signora Ardelia, che le
cortigiane trovavano onorate e festevoli accoglienze anche nei conventi
di frati[435]. Il Bandello narra a tale proposito una edificante
novella[436], e Lorenzo Priuli, Oratore della Repubblica veneta,
scriveva da Roma alla Signoria il 30 di novembre del 1585: «Ho inteso
per buona strada, che il Pontefice è stato informato da diversi,
che molti delli monasterii di monache di Venezia e della diocesi
di Torcello sono in mal stato, e ridotti alcuni di loro a pubblici
postriboli»[437]. Se così pochi scrupoli avevano gli ecclesiastici e
i religiosi, i laici potevano averne anche meno. Non solo cavalieri
e letterati non celavano gli amori loro con le cortigiane più note,
ma li predicavano, se ne facevano belli, e ciascuno s’ingegnava di
soverchiare i rivali. Giovanni de’ Medici, il famoso capitano, faceva
togliere per forza, quasi fosse un’altra Elena, a Giovanni Della
Stufa Lucrezia _Madrema non vuole_, che costui menava seco alla fiera
di Recanati; nel 1531 si trovarono in Firenze sei cavalieri pronti
a sostenere con l’armi in mano, contro chi si fosse, che non era al
mondo donna di più gran pregio e virtù di Tullia d’Aragona. Quando le
Aspasie più illustri si movevano, gli era come se si movessero tante
regine. Ambasciatori davano notizia di loro partenze e di loro arrivi,
e il popolo dei cortigiani entrava in subbuglio. Marco Bracci, dando
conto al Grifoni della entrata in Roma della signora Salterella testè
ricordata, dice ch’ell’era entrata _magna comitante caterva_, con tanti
cavalli e servitori e armi e moltitudine di gente ch’era andata ad
incontrarla, da parere _l’entrata di Marfisa nel campo moresco_[438].
L’Aretino mandava sua ambasciatrice alla regina di Francia la Zufolina,
per chiedere non so che, e molto ripromettendosi de’ suoi buoni
offici; in Firenze Tullia d’Aragona, per la cui partenza da Roma s’era
commosso, anni innanzi, persino Pasquino[439], entrava nelle buone
grazie della duchessa, a cui dedicava il suo volume di rime. Abbiamo
veduto Veronica Franco felicitata dai favori di un re; così alta
ventura non toccò a lei solamente[440]. Qual meraviglia dunque se le
cortigiane di maggior conto stavano in contegno, e davansi aria di
principesse? Era usanza di quella Ortensia lodata prima e vituperata
poi dal Coppetta
Star sur un goffo puttanil decoro,
E far la donzelletta, e persuadersi
Di pisciar acqua nanfa e cacar oro.
Sopra l’uso mortal bella tenersi.
Quasi nuova dal ciel discesa luce,
Il che fa rider altri, altri dolersi[441].
Il Giraldi Cinzio racconta di una cortigiana napoletana, «la quale,
ancora che si fosse data alla disonesta arte..., se ne stava però
così in contegno, che pareva ch’ella fosse Lucrezia Romana, e prima
ch’uno le potesse parlare, stava almeno per lo spazio di due mesi, e
bisognavavi usare un centinajo di mezzi, ed aver poi di grazia ch’ella
volesse udire dieci parole, e se proverbiosamente rispondeva, bisognava
esserle tenuto, come se avesse dato cortesissima risposta»[442]. In uno
dei _Ragionamenti_ dell’Aretino la Nanna parla «d’alcuna, che recatasi
in suso i matarazzi di seta, faceva stare in ginocchioni chi le
favellava»[443]. Della cortigiana non nominata, di cui ho fatto cenno
pur ora, dice il Mauro:
Ella sta bene come una duchessa,
E ne comanda come una reina,
Ne dà tratti di corda e ne confessa.
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Com’ella sia bizzarra e pazza e schiva,
E di strano cervello, e disdegnosa,
So che il sapete voi senza ch’io ’l scriva[444].
Ogni po’, gli è vero, quando in uno e quando in un altro luogo,
principi e magistrati si avvedevano che le cortigiane prosperavano
troppo, imbaldanzivano troppo, facevano troppa gazzarra, e allora,
in fretta e in furia, mandavano fuori, a reprimere gli abusi, nuove
leggi e nuovi regolamenti, o rinnovavano gli antichi e disusati; ma
cotali rigori duravano poco, e non colpivano, di solito, le cortigiane
d’alto paraggio, le cortigiane _oneste_, o se pur le colpivano,
non mancavano protettori possenti, e intercessori zelanti, che le
toglievan fuori di quelle pressure e guadagnavano loro immunità e
privilegi[445]. Un canto carnascialesco di Guglielmo detto il Giuggiola
ci mostra le minori cortigiane di Firenze assai indispettite, perchè
offese nelle persone e negli interessi da rigori e da vessazioni cui
non sottostavan le ricche[446]. Pio V, pontefice santo, dopo avere
afflitte le cortigiane di Roma con varii provvedimenti assai rigorosi,
volle da ultimo sfrattassero in tutto dalla città: le poverette
diedero principio all’esodo doloroso; ma allora, scrive l’Orator Paolo
Tiepolo, quelli «del governo della città dubitando, che ella in gran
parte non si disabitasse, chiamorno marti il conseglio del populo,
e dopo aver discorso sopra questa materia elessero forse quaranta di
loro, che andassero a parlarne a Sua Santità per rimoverla da questo
pensiero», come lo rimossero poi veramente, almeno in parte. Dice Paolo
Tiepolo che secondo il computo fatto, tra per le cortigiane, tra per
coloro che le avrebbero seguitate, la città sarebbesi votata di ben
25000 persone[447]. Molti anni dopo, nel 1614, quando le condizioni
della vita italiana erano già profondamente mutate, le monache delle
Convertite in Firenze non si facevan riguardo d’intercedere presso il
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