Attraverso il Cinquecento - 20

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gennajo del 1513, a proposito di altra cena, il Grossino scriveva alla
marchesa: «Frate Mariano, capo di mati, si portò per eccelenzia con li
soi capricci, e m. Bernardo da Bibiena li ajutava gagliardamente»; e al
marchese, marito d’Isabella, scriveva: «Frate Mariano, capo di tavola,
fece de le pacíe a suo modo in quantità; a mezo la zena a l’improviso
saltò in pede in su la tavola, corendo in fino di capo, menando di man
a Cardinali, a Vescovi; non sparamiava niuno»[612].
Questi documenti, e alcun altro che vedremo or ora, provano che la
reputazione di fra Mariano era già fatta negli ultimi due anni del
pontificato di Giulio II, ed è ragionevole il pensare ch’egli avesse
cominciato a farsela qualche anno innanzi, come è ragionevole credere
che non avesse mancato di far ridere alcuna volta il battagliero
pontefice. E far ridere un papa che bestemmiava come un turco, che con
le proprie mani caricava altrui di legnate, e che, ammalato, chiamava a
gran voce il diavolo, non doveva essere la più facile cosa del mondo.
Ma fra Mariano era certo uomo da riuscirci. In una lettera scritta
il 29 di gennajo del 1513 al Marchese di Mantova, egli si chiama da
sè stesso maestro di Bernardo da Bibbiena, di quel famoso Bibbiena
che fu (son parole del Giovio) maestro mirabile nell’arte di spingere
all’insania uomini gravi per età e professione; e dice come sia andato
a Firenze, sebbene già vecchio, chiamatovi dal suo padrone il cardinale
Giovanni, per ordinarvi durante quel carnevale, in compagnia del
Bibbiena appunto, trionfi, commedie e moresche, e ricorda _tutti li
capricci fatti_ in quella _magna città_[613]. Questa lettera non è sola
a provare che il lepido frate era entrato in grazia anche del Marchese;
un’altra ve n’ha scritta da quello a questo ai 10 di gennajo del 1519,
la qual prova il medesimo, e che dovrò citar novamente[614].
Fra Mariano fu frate piombatore, uno di quei frati, cioè, i quali
attendevano, per proprio officio, a munire della bolla di piombo i
diplomi che si spedivano dalla Cancelleria apostolica. Il mestiere non
era gran che gravoso e rendeva assai. Lo stesso fra Mariano confessava
al Gonzaga che del piombo faceva oro, e da quella sua _bottega_
(così la chiamava), diceva di trarre 800 ducati d’oro l’anno[615].
Di questa _bottega_ credo che egli andasse debitore a Leone X, perchè
nella prima lettera al Gonzaga, il frate non ne fa cenno, e dice che,
passato carnevale, se ne tornerà in Roma, nel suo convento di Monte
Cavallo; mentre nell’altra dice espressamente che egli ha residenza
in palazzo, _nelle stanze di Innocenzio, che si chiamano lo ofizio del
Piombo_, d’onde qualche volta si reca a visitare i suoi frati[616]. In
quell’officio egli succedette a Bramante, e lasciò poi a sua volta il
luogo a Sebastiano del Piombo. Paride de Grassi, cerimoniere di Leone
X, ricorda nel suo diario un frate Bernardo Piombatore, dandogli titolo
di mezzo buffone (_semiscurra_); ma gli è assai probabile che Bernardo
ci stia erroneamente per Mariano[617].
Che il buon frate non si lasciasse vedere alla mensa del papa solo
in certi tempi dell’anno, come vuole il Giovio, si ricava da un passo
di certa Relazione di Luigi Gradenigo, ambasciatore della Repubblica
di Venezia, passo in cui si legge: «il mercore e il sabbato mangiava
(Leone X) cose quadragesimali, stando tuttavia presenti alla mensa
fra Mariano e Brandino, ben conosciuto in questa terra»[618]. Tutti,
del resto, quegli strani commensali di un pontefice che, a detta del
Giovio, fu temperatissimo nel mangiare, ma che faceva andare per la
spesa della sola cucina la metà delle entrate che davano Spoleto, la
Romagna e le Marche, pare sieno stati golosi e mangioni di prim’ordine,
o per parlare più acconcio, fuori d’ogni ordine. Lo stesso Giovio
assicura che furono essi gl’inventori delle salsicce fatte con carne di
pavone; ma questa cosa rimane in dubbio, perchè non può essere altri
che Leone X il _saggio pontefice_ di cui è ricordo in certo Commento
del Grappa, e che faceva fare la salsiccia _di polpette di fagiani,
di pernici, di pavoni e di capponi, mescolandovi l’animelle di un
giovinetto vitello_[619]. Checchè sia di ciò, certo si è che la peggior
burla che Leone X potesse fare a quei suoi commensali si era d’imbandir
loro scimmie e corvi, come sembra abbia fatto talvolta[620].
Ma come per la piacevolezza, così ancora per la voracità doveva fra
Mariano vincere gli emuli suoi, e lo prova quella specie di leggenda
che si formò appunto intorno alla voracità sua, e non si formò intorno
a quella degli altri. Sigismondo Tizio, nella già citata sua Cronaca,
dice che fra Mariano inghiottiva in un boccone un piccioncino, vuoi
arrosto, vuoi lesso, divorava venti capponi, succiava quattrocento
uova[621]. Questo è non più fra Mariano, ma Gargantua, anzi l’Orco, e
gli si potrebbe dire col Dorat:
Digérez-vous? voilà l’affaire:
L’homme n’est rien s’il ne digère.
Nè ciò è ancora tutto. Lodovico Domenichi racconta di un signore
che fece mangiare a fra Mariano _un pezzo di canapo in cambio di un
rocchino di anguilla arrostita_[622], e Ortensio Lando assicura che
il nostro frate, una volta, _si mangiò una veste di ciambellotto per
esser unta e piena di sucidume_[623]. Beveva fra Mariano come mangiava?
Non saprei: gli storici non dicon nulla in proposito. Bevitore famoso
fu il Querno, e, sembra, anche il Moro de’ Nobili, il quale, dice il
Firenzuola, aveva gran rispetto ai baccelli,
Che dan sete la notte insin nel letto[624].
Ma concediamo pure che il nostro fra Mariano mangiasse per quattro,
anzi per dieci; non è men vero che egli sapeva fare anche altro.
I _capricci_ di lui sembra sieno stati notissimi per tutta Italia,
tanto noti che un cenno bastava per ricordarli altrui, senza bisogno
di narrarli altrimenti. Bernardo da Bibbiena dice in un luogo del
_Cortegiano_: «io fui già converso in un fonte, non d’alcuno degli
antichi Dei, ma dal nostro fra Mariano, e da indi in qua mai non m’è
mancata l’acqua». E il Castiglione soggiunge: «Allor ognun cominciò a
ridere, perchè questa piacevolezza, di che messer Bernardo intendeva,
essendo intervenuta in Roma alla presenza di Galeotto cardinale di
san Pietro in Vincula, a tutti era notissima»[625]. Nello stesso libro
Cesare Gonzaga accenna alla dottrina di fra Mariano, secondo la quale
fare impazzire alcuno gli era guadagnar un’anima[626]. In una lettera
che Bernardino Boccarino, segretario del vescovo di Firenze, scriveva
all’Atanagi il 10 di marzo del 1536, passati più che cinque anni dalla
morte del frate, si tocca di non so che _frittata calda calda_ di fra
Mariano[627].
Ma di tali capricci chi ci dà più larga notizia è Pietro Aretino, il
quale parla del frate più che non faccia nessuno dei contemporanei.
Nella giornata I della parte II dei _Ragionamenti_[628] si ha solo
un accenno vago e fuggevole a un qualche motto, o altra piacevolezza
di fra Mariano; ma nella giornata III di quella parte medesima[629],
la comare, lodando l’orto della Nanna, dice che esso disgradava «il
giardino del Ghisi in Trastevere e quello di fra Mariano a Monte
Cavallo». Ora sembra che il giardino di fra Mariano non fosse manco
noto e manco famoso del palazzo e degli orti meravigliosi che aveva in
Trastevere Agostino Chigi, soprannominato il Magnifico. In una lettera
dei 15 di novembre del 1524, Giambattista Sanga, segretario allora di
monsignor Giberti, esortando Giambattista Montebuona in Roma a porre
in buono assetto i giardini del padrone, diceva: «Ricordatevi delle
spelonche d’edera di fra Mariano a Monte Cavallo»[630]. Che razza di
giardino fosse propriamente non so; ma lo stesso facetissimo frate
ne dà qualche contezza, dicendo nella seconda lettera al Marchese
di Mantova: «Non desidererei altra grazia in questo mondo se non
potervi convitare un dì all’orto qui di monte Cavalli nel laberinto,
dove vedresti boschetti ed ornamenti silvestri nel domestico cento,
100 varietà e 1000 capricci; una chiesina poi di avorio lavorata di
straforo, ed atorno profumata ed abellita con molte cose divote; una
sagrestia con paramenti profumati papali di broccato d’oro in oro, dove
in fra tanti paramenti è uno dorsale con una pianeta di velluto rosso,
le quali dicono furono già un palio»[631].
Di altri capricci parla più diffusamente l’Aretino nella parte I del
_Ragionamento delle Corti_. Interlocutori in questo ragionamento sono
il Dolce, il Piccardo e il Coccio. Il Piccardo, raccontata la storia
di certo monsignore avarissimo, che volendo frodare i suoi servidori,
fu in bel modo bastonato dal mastro di stalla, soggiunge: «Fra Mariano,
discreta ricordazione, fu per transire udendola».
DOLCE. Buffone e piombatore.
COCCIO. Non merita tale ingiuria di parole.
PICCARDO. No certo, perchè egli fu così dolce, così affabile, così
onorevole, così utile e così buono quanto persona che fusse mai
in Corte, e i virtuosi trassero gran piacere e gran bene dal suo
favore.
DOLCE. Perchè si dice i capricci di fra Mariano?
PICCARDO. Dirovvelo. Il suo animo, subietto de le piacevolezze, non
finiva mai di trovar facezie astratte da le altre, per ispasso de’
cortigiani, i fastidi de’ quali si consolano ne li intertenimenti
di cotali.
COCCIO. Contatene qualcuna.
PICCARDO. Egli, che fu barbiere di Lorenzo, padre di papa Leone, e
tra i divini suoi costumi allevato, avea _in minoribus_ due voglie
spasimatissime: una era di far frittata rognosa di sè stesso in
quelle ceste d’uova portate da Perugia e da Todi da’ pollajuoli di
Campo di Fiore, nè se la potè mai cavare per non avere il modo di
pagare il danno.
Qui il Piccardo entra a fare un grande elogio del cardinale di Ragona,
cioè d’Aragona, _prete ne l’abito, re ne l’animo, creatura superna,
splendore de la magnificenza_; poi seguita il racconto.
PICCARDO. Ora, per dirvi, Ragona, inteso che fra Mariano era per
farla segnata non adempiendo l’altra sua sbudellata volontà, gli
dice: «Andatevene in Navona, e non ve ne partite fin che non udite
altro». Egli va, e piantasi a sedere in cima della piazza che
sbocca in Parione, patria di Maestro Pasquino, che, se non mi fugge
dal capo, ne parlaremo; e stando attento ad ogni voce, passava
l’ora de lo starvi più, quando, dal di sotto e dal di sopra, un
tara tara e un tantara tantara scoppia fuori di due trombe, e
moltiplicando il clangore con lo abbreviare de lo strepito(?),
appariscono due uomini d’armi sopra due cavalli bardati, con
le lance in su la coscia, e con gli elmi chiusi in foggia di
battaglia; e correndo l’uno al contrario de l’altro, entrarono tra
i piattelli, tra le pentole, tra le vettine, tra le conche, tra i
boccali, tra le scudelle, tra gli scudellini, tra le pozzatoje, e
tra ogni altro instrumento di terra cotta, con tanto fracasso, con
tanto tuono, e con tanto spavento, che si credette che quel punto
fosse fratel bastardo del dì del giudizio; talchè gli ebrei, i
rigattieri, i cambiatori, col resto de la plebe, truccando per la
calcosa, con le loro bagaglie addosso, simigliavano i fuggenti lo
sbombardare del diluvio su l’Arca di Noè; ed il popolo, udendo le
strida de’ padroni de le vasa, cridando serra serra, si credette
che profondasse la Corte.
DOLCE. Questa è de le belle ciance che io udissi mai.
COCCIO. Così dico io.
PICCARDO. Fra Mariano non fece il fine di Margutte perchè fu
sfibbiato a ora. Sì che voi intendete di che sorta erano i suoi
capricci. Dieci volte, sendo la tavola papale coperta d’argenti
con le cose dentro, ha tomato sopra esse, giostrando con le facole
accese a le barbe de’ Mori de’ Nobili, de’ Brandini e del frate
che mangiava le berrette. Io sono stato per perdere tra le parole
il più bel fatto che ci sia. Due uomini del Cardinale, tosto che
la furia venne meno, soddisfecero i padroni de le robe volate al
cielo, atto conveniente a simile prelato, e non a gli spilorci
d’oggidì, salvo la pace di chi gli simiglia.
Qui sbuca fuori un nuovo buffone, di cui non trovo altra memoria: il
frate che mangiava le berrette. Non so chi possa essere, se pur non è
il fra Martino ricordato dal Tizio; ma certo era un degno emulo di fra
Mariano. Il quale, come si vede, non faceva propriamente alla mensa
del pontefice la parte che il Giovio assegna a lui e agli altri. Nè si
creda che l’Aretino esageri. Dei capricci, dirò così, conviviali di fra
Mariano s’è già veduto quanto scriveva il Grossino al Marchese e alla
Marchesa di Mantova: l’11 di gennajo del 1513 Stazio Gadio, descrivendo
al Marchese una cena fattasi la domenica innanzi in casa del Cardinale
di Mantova, cena a cui erano invitati, oltre il marchesino Federico,
anche i cardinali d’Aragona, Sauli, Cornaro, l’arcivescovo di Salerno,
l’arcivescovo di Spalatro, il vescovo di Tricarico, Bernardo da
Bibbiena, fra Mariano, la signora Albina, cortigiana romana, e più
altre persone, dice: «Nanti cena si fecero de le pacíe, che altramente
ove è frate Mariano non si po’ fare, dio ve lo dichi per me. Setati
a tavola, essendo in capo Albina e frate Mariano..... alla secunda
vivanda, li polastri volavano per la tavola caciati dal frate, poi da
li preti; con li sapori e minestre si dipingevano li volti e panni».
Stazio Gadio avrebbe avuto assai altre cose da dire; ma si contenta di
soggiungere (e ce ne rincresce) a mo’ di conclusione: «Doppo cena lasso
judicar a V. Ex. che si fece»[632]. E l’Eccellenza sua avrà certamente
giudicato con indulgenza, dolendosi forse di non essercisi trovato.
I capricci di fra Mariano, quelli almeno che conosciamo un po’ meglio,
non sempre sarebbero ora di gusto nostro, come indubitamente erano
di Leone e de’ suoi famigliari. Il papa e il frate se la dovevano
intendere tra di loro benissimo, giacchè professavano entrambi la
stessa filosofia della vita. Dice Andrea Calmo nel prologo della
_Rodiana_: «Certo la melodia del vivere è un bel che; ella è sì fatta,
che aggiunge quasi al piacere, che si gusta in _celi celorum_, e però
esclama fra Mariano dinanzi a Leone: Viviamo, babbo santo, che ogni
altra cosa è burla». Perciò non credo che il papa abbia voluto pagar
d’ingratitudine il frate, componendogli il seguente epitafio, che un
codice Marciano reca con la intitolazione: _Di Leone Xmo per frate
Mariano_. Anche i versi non pajono degni di sì fatto autore; ma se
pure il papa lo compose, ebbe a comporlo per celia. Eccolo ad ogni
modo[633].
Un frate sotto bianco e sopra nero,
In gola e in zazeria[634] molto eccellente,
Di fuori porco e dentro puzzolente
Mentre visse; ora ammorba un cimitero.
Non acqua benedetta, non saltero
Pigliarai, viator, ma solamente,
Se vuoi far cosa grata a la sua mente,
Buon vin ci spargi e ragiona del zero.
L’altro perso saria, ch’ei credde poco,
Ben che già simulò religione;
Ma lo fe’ per fuggir più tristo gioco.
Perchè tra frati più presto buffone
Fu che compagno, ed aderì al coco
Più che al sacrista, e scherzò col guttone.
E per conclusione
L’alma al fuoco, la fama addusse al basso:
Se non vuoi cader morto studia il passo.
L’epitafio, del resto, l’avrebbe potuto fare il frate al papa, perchè
non solo gli sopravvisse, ma, secondo una delle tante voci che corsero
allora, fu il solo che si trovò presente all’agonia di lui, e che,
vedendolo morire senza sacramenti, gli gridò: _Raccordatevi di Dio,
Santo Padre!_[635] come se il Padre Santo non se ne fosse mai ricordato
in vita sua. E non sembra mal fatto che il buffone, il quale tante
volte aveva esortato il papa a ben vivere, lo esortasse una volta
almeno a ben morire; e forse fu quella la prima e l’ultima volta che,
trovandosi insieme, il papa e il frate stettero serii.
Che fu del buon fra Mariano dopo la morte del magnanimo Leone? Che
cosa fece egli de’ suoi capricci e della ghiottoneria sua durante il
breve ma terribile pontificato di quell’Adriano VI, che spendeva per la
sua tavola un ducato il giorno e fece rincarare in Roma il merluzzo,
tanto l’aveva in pregio? di quell’Adriano per cui il Berni gridava,
esterrefatto come gli altri:
Io per me fui vicino a spiritare
Quando sentii gridar quella Tortosa?
Fec’egli come il ciarlatano, che, a fiera finita pone in un sacco le
sue carabattole, e aspetta nuovo tempo da ritrarle fuori? E fu nuovo
tempo per lui quel papato di Clemente VII,
composto di rispetti,
Di considerazioni e di discorsi;
Di _più_, di _poi_, di _ma_, di _sì_, di _forsi_,
Di _pur_, di assai parole senza effetti?[636].
Da certe parole che si leggeranno qui sotto parrebbe di no. Ciò che
v’ha di certo si è che egli campò altri dieci anni, che seguitò a
tenere tutto quel tempo l’officio suo di piombatore, e che quando fu
morto, tutti coloro ch’egli aveva fatto ridere con le sue piacevolezze
lo piansero amaramente. Addì 4 dicembre del 1531, Sebastiano Luciani,
diventato fra Sebastiano del Piombo, scrive all’Aretino, informandolo
d’essere succeduto nell’officio a fra Mariano[637]; ma già il 2 dello
stesso mese Girolamo Schio, vescovo di Vaison, e maestro di casa di
Clemente VII, aveva scritto a messer Pietro quanto segue: «Fu tanto
a tempo la novella vostra de la canella, che quella bonanima de fra
Mariano la intese, e ne fece tanta festa del mondo; e disse molte
accomodate ed onorevole parole di voi; ed ebbe per più la menzione
che feste de lui, che se una trinca de Re gli avesse scritto. Io son
rimasto essecutore del suo testamento, che fece molto prudentemente;
e son rimasto col secreto de li capricci suoi. Non sciò già se verrà
mai tempo che se possa slegare el sacco ed usarli. Lui morse da bono e
santo omo, con bona lingua e sentimento fino a l’ultimo fiato; e iij
ore avanti, ch’io lo lassai, mi chiese la benedizzione e licenzia,
dicendo che non si vedremo più se non di là. La sua morte ne seria
molto più doluta, se non ce interveniva el temperamento di aver posto
in suo loco el nostro Sebastiano da bene, che ha tante bone parte, che
satisfa alla tanta jattura che ci troviamo aver fatta di quello uomo; e
così andaremo vivendo sin che a Dio piacerà; ma più alegramente che si
potrà»[638].
Chi non direbbe questa lettera scritta in ricordo e deplorazione della
morte di un dottore della Chiesa, pronto ad essere canonizzato? Non
sappiamo in che consistesse propriamente quel secreto di capricci
a cui con tanta discrezione allude il buon vescovo; ma forse non
immaginerebbe il falso chi pensasse a rime giocose, a novelle
piacevoli, in una parola a capricci scritti, che il frate dabbene
avrebbe fatto alternare con quegli altri suoi capricci operati, di cui
abbiam veduto alcun saggio. Quelle due lettere sue che abbiam ricordate
mostrano come fossero in lui ingegno ed umore atti anche a ciò. E se
così fu veramente, noi dobbiamo dolerci che la storia del papato e la
storia della letteratura italiana sieno state defraudate ad un tempo di
così notabili documenti.
Monsignor vescovo di Vaison afferma che fra Mariano _morse da bono e
santo omo_, e noi gli crediamo volentieri; ma visse fra Mariano così
come _morse_? Ebbe egli altre virtù, oltre a quella di far ridere
Leone X e tanti cardinali e tanti principi e cortigiani? Pare di sì.
Ebbe egli tra’ suoi caprici qualch’altro vizio, oltre a quello della
voracità formidabile? È questo un gran dubbio. Di sè il frate non dice
se non bene, ed è giusto. In quella seconda lettera al Marchese di
Mantova così si dipinge: «Io mi trovo umano, mansueto, affabile, basso
ad uso di tartufo, overo pisciacane che nasce terra terra, in modo che
ognuno mi può calpestare e por piè». E séguita dicendo che degli 800
ducati d’oro che gli rendeva l’officio faceva tre parti: «una a Cristo,
da cui viene ogni bene; l’altra alli parenti, che ho tanta canaglia
che non empirebbe loro la gola tutta l’acqua d’intorno a Mantova; la
terza parte per me e mia famiglia, magnare e bere, e bestie e basti, in
modo che ogni anno fo debito trecento ducati». Come desse quei denari
a Cristo non so; e chi può dire in che termini stesse con Cristo il
buon frate? e chi può dire in che termini ci stesse papa Leone? Son
misteri troppo profondi. Ma ciò che è detto dei parenti sarà verissimo,
perchè chiunque avesse officio e grado e rendite in Roma a quel tempo
vedeva pullulare i parenti fuor di terra a mo’ di funghi, a cominciar
dal papa; e verissimo ancora ciò che è detto della famiglia, la quale
non era forse composta di soli servitori. Fra Sebastiano diventò padre
per da vero tra l’un piombo e l’altro. Ad ogni modo il nostro frate
doveva essere un buon pastricciano, se persin l’Aretino giunse, come
s’è veduto, a dir di lui che «egli fu così dolce, così affabile, così
onorevole, così utile e così buono quanto persona che fusse mai in
Corte».
Ma c’è quel maledetto sonetto, dove non solo si dice che fra Mariano
credette poco e simulò religione, ma si tocca in modo anche troppo
chiaro di un zero che non è quello dell’aritmetica. Sarà vero? sarà
falso? Ecco dove ci vorrebbero i documenti, e dove i documenti mancano.
Lodovico Dolce dice in una sua satira a Ercole Bentivoglio:
Dal pergamo gridar grave e sdegnoso
S’ode fra Mariano e i vizii danna;
Ma in cella quando è moglie e quando è sposo;
e dice forse il vero: ma è del nostro fra Mariano o di un altro ch’egli
parla? Impossibile dirlo, impossibile di affermare o di negar nulla: il
dubbio
Animum nunc huc, nunc dividit illuc.
In partesque rapit varias, perque omnia vertit.
Non so se fra Martin Lutero avesse, quando fu in Roma, occasione di
conoscere fra Mariano Fetti, o di udir parlare dei suoi capricci; ma
parmi che l’un frate spieghi, sino ad un certo segno, l’altro. Sono
tutt’e due come il diritto e il rovescio della stessa medaglia. E
questa medaglia fu Leone X a coniarla.


INDICE

PETRARCHISMO ED ANTIPETRARCHISMO:
Parte prima Pag. 3
Parte seconda » 45
UN PROCESSO A PIETRO ARETINO » 89
I PEDANTI » 171
UNA CORTIGIANA FRA MILLE: VERONICA FRANCO:
Parte prima » 217
Parte seconda » 293
Appendici » 351
UN BUFFONE DI LEONE X » 365


NOTE:

[1] Tre scritti conosco in cui di proposito si parla del petrarchismo,
tutti e tre assai insufficienti, e sono: _I petrarchisti_, di
LUIGI CARRER, inserito nel vol. II delle _Prose_, ediz. di Firenze,
1855, pp. 500-5; _I petrarchisti_, di LUIGI LA VISTA, in _Memorie e
scritti_, Firenze, 1863, pp. 359-63; _Del petrarchismo e de’ principali
petrarchisti veneti_, di GIOVANNI CRESPAN, nella raccolta _Petrarca a
Venezia_, Venezia, 1874, pp. 187-252.
[2] _Lezioni di letteratura italiana_, nona edizione, Napoli, 1883,
vol. II, p. 99.
[3] _Geschichte der italienischen Literatur_, Lipsia, 1844-7, parte II,
p. 624.
[4] _Opere_, ediz. di Venezia, 1740, t. II, p. 269.
[5] _Il Castellano, Opere_, ediz. di Verona, 1729, t. II, p. 232.
[6] A. BASCHET, _Documenti inediti su Pietro Aretino_, in _Archivio
storico italiano_, serie III, t. III, parte 2ª, p. 116.
[7] Cap. 22.
[8] Atto I, sc. 22.
[9] _Ragionamenti_, parte I, giornata III, Cosmopoli, 1660, p. 120.
[10] Antonio Magliabechi scrive in una sua lettera al canonico Lorenzo
Panciatichi: «Il Petrarchino non può essere mai più bello, essendo
infino di carta scelta, giacchè, se ne tasterà una pagina, sentirà
quanto sia più grossa dell’altra ordinaria. Il sommacco è di quello
grosso da durar cento anni, e credo, che sia legatura forestiera».
[11] _Il Furbo_, Venezia, 1584, atto II, sc. 1.
[12] Ediz. di Venezia, 1587, disc. CXVI, pp. 700-1.
[13] _Novelle_, parte II, nov. 46.
[14] _Il Cortegiano_, ediz. di Firenze, 1854, l. I, XIX.
[15] ARETINO, _Ragionamenti_, parte II, giornata I, p. 215.
[16] Capitolo _Del Letto_.
[17] Atto II, sc. 11.
[18] _Avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone_, l. II, c. 12.
[19] _Apologia in difesa della Gerusalemme liberata, Opere_, Pisa, 1820
sgg., vol. X, pp. 61-2.
[20] _Descrizione del suo viaggio al Parnaso._
[21] Una grande bugia diceva il buon Lodovico, quando diceva:
là veggo Pietro
Bembo, che ’l puro e dolce idioma nostro,
Levato fuor del volgare uso tetro
_Quale esser dee_, ci ha col suo esempio mostro.
(_Orl. Fur._, c. XLVI, st. 15). Ma egli ne disse tant’altre in quel suo
poema.
[22] Atto II, sc. 6.
[23] _Ragionamento sopra la poesia giocosa_, Venezia, 1634, p. 8.
[24] _Dialogo d’amore_, in _Dialoghi_, Venezia, 1562, p. 38.
[25] _Lettere di molte ingegnose donne_, Venezia, 1549, f. 49. Se
queste lettere sieno autentiche, o meno, a noi non importa indagare,
bastando che sieno del Cinquecento, e faccian fede delle idee e dei
costumi del tempo.
[26] Le tagliature, o sparati, che si moltiplicavano fuor di misura
sugli abiti degli azzimati moscardini.
[27] Vedi, per un esempio, _Il libro della bella donna_ di FEDERICO
LUIGINI, Venezia, 1554.
[28] _La Zucca_, ediz. di Venezia, 1589, f. 192 v.
[29] Vedi più oltre lo studio: _Una cortigiana tra mille_.
[30] Atto II, sc. 2. Cfr. _Ragionamenti_, parte I, giorn. III, p. 141.
[31] Parte I, giornata II, p. 106.
[32] _Ragionamento fra il Zoppino fatto frate e Lodovico puttaniere_,
p. 442.
[33] _Lettere di cortigiane del secolo XVI_, Firenze, 1884.
[34] _Facetie, motti et burle di diversi signori et persone private_,
edizione di Venezia, 1599, p. 332.
[35] _Le lettere facete di messer_ ANDREA CALMO, riprodotte da VITTORIO
ROSSI, Torino, 1888, l. IV, lett. 22, pp. 301-2.
[36] Per esempio, in una lettera ad un’altra cortigiana, una certa
signora Frondosa, ricordate molte maniere di giuochi con cui solevano
spassarsi le allegre brigate, soggiunge: «e torna tutti a sentar
digando le pi stupende panzane, stampie e imaginative del mondo, de
_comar coca_, de _fraibolan_, de _osel bel verde_, de _statua de
legno_, del _bossolo da le fade_, di _porceleti_, de _l’aseno che
andete remito_, del _sorze che andete in pellegrinazo_, del _lovo che
se fese miedego_, e tante fanfalughe che no bisogna dir. Quei che ha
pi sal in zuca recita la istoria de _Ottinelo e Giulia_, e quella de
_Maria per Ravena_, el contrasto de la _Quaresema e de Carneval_,
_Guiscardo e Ghismonda_, de _Piramo e Tisbe_, _l’è fatto el beco a
l’oca_, e de _ponzè el matto cugnà_». Ediz. cit., l. IV; lett. 42, pp.
346-7. Vedi ivi stesso, pp. 349-50, le note del Rossi.
[37] Vedi ROSSI, _Le lettere del Calmo_, Appendice IV.
[38] _Ecatommiti_, nov. 6 dell’Introduzione.
[39] Capitolo _A M. Anselmi_.
[40] BANDELLO, _Novelle_, parte I, nov. 41, dedica.
[41] GROTO, _Lettere famigliari_, Venezia, 1606, f. 110 v.: lettera al
P. Pietromartire Locatelli.
[42] Ediz. di Venezia, 1543, f. XI v.: la prima ediz. è del 1539.
[43] DOMENICHI, _Ragionamento nel quale si parla d’imprese, d’armi e
d’amori_, in seguito al _Dialogo delle imprese_ del GIOVIO, Venezia,
1557, p. 99.
[44] _Opuscoli_, Firenze, 1640-2, vol. I, p. 401.
[45] SCIPIONE BARGAGLI, _I trattenimenti_, Venezia, 1587, parte I, p.
25.
[46] _Il Cortegiano_, l. I, XLVII.
[47] Vedi su questo argomento della musica nel sec. XVI BURCKHARDT,
_Die Cultur der Renaissance in Italien_, terza ediz., Lipsia, 1877-8,
vol. II, pp. 131 segg., e una bella memoria di PIETRO CANAL, _Della
musica in Mantova_, in _Memorie del Reale Istituto Veneto_, t. XXI,
parte III, pp. 655-774. L’importantissimo tema è, del resto, quasi
vergine ancora.
[48] _Novelle_, parte I, nov. 26.
[49] V. TRUCCHI, _Poesie inedite di dugento autori_, Prato, 1846, vol.
II, pp. 141-42; FANTONI, _Storia universale del canto_, Milano, 1873,
vol. II, p. 98.
[50] Maccheronea XX.
[51] Doveva essere allora assai vecchio, se è vero ch’ei nacque
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