Attraverso il Cinquecento - 10

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l’Arétin. Ce ne fut plus la parole grave et nue de Machiavel, ni la
fluidité de Bembo. On commença, d’après son exemple, à personnifier
tout; les Marini, les Achillini ne sont que ses copistes... Avant lui
personne n’avait écrit de cette façon»[249]. Ma è vero ciò? no; anzi è
falsissimo.
L’Aretino ha certamente ajutato, affrettato l’avvenimento del
secentismo, ma nulla più. Il secentismo si produce intorno a lui, è
nato prima di lui. Il D’Ancona ha potuto scrivere un bello studio sul
_secentismo nella poesia italiana del secolo XV_, e secentismo si trova
nella letteratura d’altri tempi e d’altri luoghi. Il Petrarca non è
egli spesso un secentista della più bell’acqua? son poco secentisti
certi trovatori di Provenza? e chi più secentista di Ennodio? Gli
è che sotto questo nome poco appropriato di secentismo si comprende
una certa condizion delle menti, un temperamento del gusto, una forma
d’arte, che possono bensì nel Seicento nostro essersi prodotti con
carattere più spiccato, ma che, come effetto di certe determinate
cause, non sono punto proprii di quel secolo soltanto. Ora, dello
straboccare del secentismo nel secolo appunto che gli diede il nome,
si potranno indagare alcune cause speciali, come l’influsso spagnuolo,
o l’esempio di alcuni scrittori; ma è certo che l’arte stessa del
Cinquecento, e quella civiltà tutta intera, ponevano sulla sua via,
spingevano ad esso. Chi vuol persuadersene legga gli imitatori del
Petrarca. Parrà strano a dire, anche perchè l’Arcadia, quando cominciò
la reazione contro il secentismo, si mise innanzi, come duca e dottore,
il Petrarca; ma non è men vero che una delle cause principali del mal
gusto del Seicento è per appunto il petrarchismo.
E s’intende perchè. I petrarchisti, non avendo altro a fare che
ripetere que’ sentimenti invariabili, quei pensieri già espressi le
tante volte, cercavano d’introdurre qualche novità nei loro versi
rincarando la preziosità dello stile, contorcendo il concetto e la
frase, moltiplicando le metafore. L’amore, quando non è sentito
e sincero e vuole spacciarsi per sincero e sentito, cerca, senza
avvedersene, l’espressione esagerata e falsa, che di necessità diventa
secentismo. Vedasi che cosa interviene ai trovatori provenzali della
decadenza. E a un’altra cosa è da por mente. La raffinata coltura del
Cinquecento si trae dietro certi bisogni, suscita certe tendenze, che
non mancan mai, o sotto una, o sotto altra forma, dov’è raffinatezza
soverchia. In quegli animi, allevati e ammaestrati in ogni maniera
di delicature, schifi del triviale, facilmente si produce sazietà,
e sempre si muove un desiderio del peregrino e dello insolito, donde
possa venire nuovo eccitamento, e allettamento non ancora provato. Ora,
un desiderio così fatto, conduce o prima o poi al secentismo, e poichè
quel desiderio tanto più sormonta quanto più la civiltà è raffinata,
e quanto più prossimo il tempo del suo decadere, si può dire che ogni
civiltà finisca nel secentismo, il quale, non fa bisogno avvertirlo,
non è proprio delle sole lettere, nè delle sole arti sorelle. La
civiltà romana, sopraggiunta dalla sfioritura, produce la più mostruosa
depravazione che la storia ricordi: il secentismo dei costumi.
Se, dunque, noi vogliamo esser giusti, dobbiamo dire che Pietro Aretino
ajuta il secentismo a prodursi, ma che il produttor vero del secentismo
è il Cinquecento.

VII.
L’Aretino si esercitò in tutti i possibili generi letterarii, dalla
pasquinata alla tragedia, dalla novella al poema epico, dalla lettera
al racconto ascetico. Non tutte le cose sue sono di pari valore, ed il
valor di parecchie è pochissimo; ma volerle mettere tutte in un fascio
e sentenziare che in tutte c’è poco o nulla di buono è, non solamente
ingiusto, ma assurdo. Diamo un’occhiata alle principali.
L’Aretino riesce meglio assai nella prosa che nel verso. A quella sua
natura intemperante e scomposta doveva esser più particolarmente grave
il giogo della misura e della rima, increscioso il magistero delicato
ed arduo della poesia. Ciò nondimeno, compose, secondo l’uso de’ tempi,
infiniti versi, d’ogni qualità e suono. I sonetti sono in generale
cattivi, e pessimi quelli in cui si tuffa nel patetico e nell’eroico;
ma i capitoli, se inferiori, e di molto, a quelli del Berni, sono
tuttavia pieni di vivacità e d’arguzia, e possono stare alla pari con
quelli dei migliori berneschi.
I saggi di poema cavalleresco che ci son pervenuti, i tre canti della
_Marfisa_, i due delle _Lagrime d’Angelica_, non sono a dir vero gran
cosa, benchè più che grande sembrassero al Doni, prima che d’amico
diventasse nemico, e a Bernardo Accolti, che si faceva chiamar l’Unico.
L’Aretino stesso non doveva esserne troppo contento, se dell’uno e
dell’altro poema mandò fuori poco più che il principio, e se della
_Marfisa_ faceva abbruciare, come abbiamo veduto, le migliaja di
stanze.
Egli, che aveva così vivo sentimento della realtà, non doveva trovarsi
troppo a suo agio in quel mondo favoloso della epopea romanzesca,
e se pure ci si cacciò dentro, il fece, senza dubbio, per seguitare
l’andazzo, o per mostrare che poteva provarsi in questa come in ogni
altra impresa letteraria. Tanto più degno di lode parrà che egli sia
riuscito a introdurre in quei saggi suoi qualche novità d’invenzione,
che siasene uscito con essi dalla via più trita, e, diciamolo pure,
più nojosa; ma non è men vero che all’indole del suo ingegno e ai
suoi gusti, assai più della _Marfisa_, delle _Lagrime d’Angelica_ e
dell’_Astolfeida_, quasi sconosciuta, si confà l’_Orlandino_.
L’_Orlandino_ è un tentativo di poema burlesco, in cui Orlando, e Carlo
Magno e i paladini tutti, oggetto già di tanta e sì loquace ammirazione
poetica, sono posti alla berlina, vituperati, trasformati in ghiottoni
e in poltroni. Fu detto che così facendo l’Aretino abbassava il
mondo cavalleresco al suo livello; ma non mi pare giudizio giusto.
L’_Orlandino_ è un frammento di poema parodico e satirico, e prima di
pronunziare così aspra sentenza, si deve considerare se la parodia e
la satira sono in tal caso legittime ed opportune. E sono certamente.
Non bisogna dimenticare che quel mondo cavalleresco era già venuto a
noja gran tempo innanzi, e che le prime satire e parodie s’incontrano
in Francia, nel paese a cui le moderne letterature debbono l’epopea
carolingia e l’epopea bretone. Non bisogna dimenticare che di quella
noja si genera il _Don Chisciotte_. In Italia Luigi Pulci già con
molto buon garbo si burla dei suoi cavalieri, e basta pensare all’uso
che nel Cinquecento si fece delle finzioni romanzesche, allo strabocco
di poemi imitati dall’_Orlando Innamorato_ e dall’_Orlando Furioso_,
che allora allagò e sommerse l’Italia, per intendere che una reazione
era, non legittima soltanto, ma inevitabile. E la reazione venne e
venne col _Baldo_ di Teofilo Folengo e con l’_Orlandino_ del nostro
Pietro, il quale, in una sua lettera al capitano Faloppia, si burla
anche delle _ciabatterie_ dei poeti della Tavola Rotonda[250]. E in
un altro _Orlandino_ il Folengo chiama con uno strano nome, e danna a
un uso ch’io non dirò qual sia, tutti i poemi cavallereschi, meno il
_Morgante_, l’_Innamorato_, il _Furioso_ e il _Mambriano_[251].
Ma le composizioni senza dubbio più pregevoli dell’Aretino sono le
drammatiche. Raccostare per l’_Orazia_ l’Aretino allo Shakespeare è
pazzia bella e buona; ma non è men vero che è questa una delle migliori
tragedie del Cinquecento, la prima che risolutamente si scosti dal
tipo classico, e quella tra tutte che procede con fare più largo, e che
spira più vivo soffio di umanità. Essa accenna alla maniera che tenne
più tardi lo Shakespeare, e non è questa una picciola gloria. Quanto
alle commedie, sono certamente delle migliori del nostro Teatro, e,
direi, superiori a tutte, meno due o tre. Con esse l’Aretino si toglie
deliberatamente dall’usanza comune, ch’era di rifar Plauto e Terenzio,
usanza a cui nemmeno un Lodovico Ariosto volle o potè ribellarsi.
Discepolo della natura, quale si protesta anche una volta nel Prologo
dell’_Orazia_, l’Aretino si studia di riprodur sulla scena il suo
mondo, e mette una buona volta da banda quelle favole stantie di padri
ingannati, di figliuoli discoli, di servi nemici degli uni e ajutatori
degli altri, per surrogarle con altre, desunte immediatamente dalla
vita dei tempi. I vecchi tipi tradizionali e invariabili fanno luogo
nelle sue commedie a figure vive, a veri caratteri, tratteggiati con
molta bravura, e molta e fine cognizione del cuore umano: tale è quel
maniscalco cui si dà ad intendere che il signore vuol fargli tor moglie
per forza; tale quel Plataristotile, filosofo speculativo, che ha il
capo pieno di alte massime, e piena la bocca di gravi sentenze, e nulla
vede della tresca che gli fanno intorno i servitori e la moglie; tale
quell’ipocrita, di cui basti dire che il Molière lo conobbe certamente,
e se ne giovò per il suo _Tartufe_; tali altri molti. Qui i servitori
non sono i soliti inventori di burle e di trappole in danno dei vecchi
avari, in benefizio dei giovani scapestrati; ma lavorano per proprio
conto, fanno i proprii interessi, e più accorti di tutti, di tutti
beffandosi, empiono la scena di scontri e di casi ridicoli. Giannico,
il ragazzo del maniscalco, è il più petulante e fastidioso monello che
si possa veder sul teatro, e Ippolito Salviano, mutandogli il nome
in Farfanicchio, lo introdusse in certa sua commedia. Le burle e le
truffe del Fora e del Costa nella Talanta sono saporitissime novelle
messe in azione. I personaggi principali hanno intorno una turba di
personaggi secondarii, i quali riproducon l’ambiente; mercanti, ebrei,
cantastorie, dottori, capitani, pedanti, frati, sbirri. Nell’ultima
scena della _Talanta_ ce ne sono non meno di diciannove riuniti.
Non so perchè dica il Burckhardt che l’Aretino non era buono di trovare
la vera disposizione drammatica di una commedia[252]. Ad ogni modo la
misura della propria potenza comica l’Aretino la dà nel _Marescalco_,
dove una situazione unica è protratta e sostenuta per cinque interi
atti senza che l’interesse languisca un momento. E molti altri pregi ci
sono in queste commedie. I prologhi sono i più nuovi, i più briosi, i
più ingegnosi che siensi mai scritti, e quelli del Lasca fanno la ben
magra figura al paragone. Il dialogo è di una vivezza insuperabile,
naturale e argutissimo, meno che nelle scene d’amore patetico, dove
l’Aretino non si sente troppo dimestico. I soliti cattivi spedienti
di somiglianze strane, di abiti scambiati non mancano; ma non se ne fa
quell’abuso che nelle altre commedie del tempo. Insomma non dice troppo
chi dice che la tragedia e le commedie dell’Aretino accennano a una
riforma del teatro importantissima.
Dell’altre opere che mi sembra opportuno ricordare mi sbrigo in due
parole. I _Ragionamenti_ saranno infami fin che si vuole; ma come
dialoghi sono dei più gustosi che il Cinquecento abbia prodotto, e in
essi, non meno che nelle commedie, guizza un fuoco di satira che lascia
il segno ove tocca. Perchè, non dispiaccia ai suoi troppo arrabbiati
nemici, e ai suoi detrattori implacabili, l’Aretino ha in sè tale un
rigoglio di spirito satirico, che pochi in quel secolo hanno l’eguale.
Lodovico Ariosto, sferzati, nella satira a Pietro Bembo, gli umanisti
viziosi, i poeti increduli e vaghi di mutarsi il nome cristiano in
pagano, esclama:
Ma se degli altri io vuo’ scoprir gli altari,
Tu dirai che rubato e del Pistoja
E di Pietro Aretino abbia gli armari.
Scipione Ammirato chiama _maravigliosa_ l’eloquenza con cui l’Aretino
_spiegò tutta l’arte del puttanesmo_. Le lettere furono le prime
lettere volgari che si stampassero, e fecero che molti poi si
mettessero a comporne e stamparne. Esse sono per noi un repertorio
prezioso di notizie d’ogni maniera, e contengono fedelissime dipinture
dei tempi, il che non poteva intendere il Menagio, quando disse di non
averci mai trovato dentro cosa che potesse mettere ne’ suoi libri[253].
Certo l’Aretino aveva ragione di tenerle assai migliori di quelle di
Bernardo Tasso[254].
Quanto alle opere sacre dirò ch’esse non dispiacquero punto ai
contemporanei; che furono tradotte in francese; che Vittoria Colonna
avrebbe voluto che l’Aretino si desse tutto intero a comporne, e che
anche il Dolce ne compose di simili. Non le difendo, anzi dichiaro che
sono nojosissime a leggere; ma a chi fa un grave carico all’Aretino
per aver mescolato ai racconti degli Evangeli, o alle leggende dei
santi, favole da lui immaginate, dico che così praticando l’Aretino
non faceva peggio di coloro che ci cacciavan dentro tutta la mitologia.
Letterariamente parlando, faceva assai meglio.

VIII.
E ora concludiamo.
L’Aretino non è quel pessimo e mostruoso uomo che s’è voluto fare
di lui, o almeno non merita solo l’infamia, se le male qualità che
gliel’hanno procacciata appartengono, non meno che a lui, al suo
secolo.
L’Aretino non può essere messo nel novero dei grandi scrittori, perchè
non lasciò dopo sè nessun capolavoro; ma alcune delle cose sue sono
molto pregevoli, e tutte fanno fede di uno spirito ardito e di certe
tendenze novatrici delle quali non fu tenuto conto abbastanza, e
che meritano invero molta considerazione. A mio giudizio, l’Aretino
ha, come letterato, assai più importanza che non il Guidiccioni, il
Casa, o alcun altro simile, il cui nome figura nientedimeno assai più
onoratamente nelle molte storie della nostra letteratura.
La doppia infamia, morale e letteraria, che ingombrò il nome
dell’Aretino, si deve in parte alla invidia degli emuli superati da
lui, in parte, e credo principalmente, alla reazione cattolica. La
Chiesa, in vena di riforme, guardò con dispetto e con esecrazione quel
secolo che pur da un pontefice doveva prendere nome, e detestò quei
costumi, ch’essa stessa, scientemente o non, aveva favoriti, ma che
le procacciarono poi la più grande jattura che mai le sia toccata, lo
scisma di Lutero. E poichè condannare intero quel passato non poteva
senza condannare in pari tempo sè stessa, e poichè diveniva urgente
di dare altrui un chiaro concetto di quella depravazione da cui
bisognava appunto scostarsi, essa riversò tutta l’ira sua sopra alcuni
che in quel secolo avevano primeggiato, e, come tipi, li propose alla
abominazione delle genti. Così incontrò all’Aretino; così incontrò
anche al Machiavelli; e l’uno e l’altro furono messi fuori dell’umano
consorzio, furono cacciati nel deserto come capri emissarii, carichi
delle colpe d’Israele.
O prima o poi si troverà chi rinarri, nel modo che dai tempi è
richiesto, la vita di Pietro Aretino, e non sarà un accusatore, nè un
panegirista, ma uno storico. Non so quali nuove e particolari notizie
potrà recare l’opera sua; ma la leggenda, credo, ne sarà sparita, e
ne terrà il luogo questo giudizio: Pietro Aretino non è, moralmente
parlando, peggior del suo secolo, e come scrittore vale più di parecchi
che godono assai miglior fama di lui.


I PEDANTI

I.
Questo sciagurato nome di pedante non ebbe sin dal principio tutta
l’estensione di significato che ha ora; ma denotò propriamente il
pedagogo, il maestro di scuola, una specie soltanto del largo e
copiosissimo genere pedantesco.
Quale la origine del nome non è bene accertato. C’è chi la volle
rintracciare nel verbo latino pedere, il cui significato può vedersi
nei vocabolarii. Gli etimologisti moderni ammettono come più probabile,
ma non come sicura, la derivazione dal greco παιδεύειν, istruire,
allevare. Quanto al tempo in cui il nome cominciò ad usarsi, dice il
Varchi nell’Ercolano[255]: «Quando io era piccino, quegli che avevano
cura de’ fanciugli insegnando loro... e menandogli fuora, non si
chiamavano, come oggi, pedanti, nè con voce greca pedagogi, ma con
più orrevole vocabolo ripititori». Essendo il Varchi nato nel 1502,
dalla sua affermazione si ricaverebbe che quell’uso non cominciò se non
passati parecchi anni del secolo xvi; ma d’altra banda il nome si trova
già in alcuni sonetti burchielleschi, i quali, se si potesse proprio
provare che sono del pazzo poeta e barbiere fiorentino, mostrerebbero
l’uso esserci stato sino dalla prima metà del secolo xv. Checchessia
del nome, certo la cosa è assai antica: il pedante nostro discende in
linea retta dal pedagogo e dal ludimagistro dei greci e dei latini.
Vero è che il Doni, nel suo commento ai sonetti di esso Burchiello,
narra, _fondandosi sulle testimonianze_ di Erodoto, di Appiano, e di
Gioseffo, che il primo pedante fu un ladro, il quale scampò dalle
forche solo perchè una pubblica meretrice lo chiese per marito. Il
nome dalla lingua italiana passò nella francese, nei bei tempi in
cui tutti gli eleganti di Francia si gloriavano di parlare italiano;
passò nella spagnuola, nella portoghese, nell’inglese, nella tedesca,
e diventò subito nome di sprezzo e di scherno. Il più gran dispetto
che si potesse fare ai pedanti fu appunto di chiamarli pedanti. Per
darci ragione di quello sprezzo e di quello scherno, vediamo un po’ di
che maniera fossero le qualità fisiche e morali, quali le condizioni,
gli atti e i portamenti di coloro che ne erano colpiti. Documenti e
testimonianze abbondano; non abbiamo che a consultarli, e a trarne gli
elementi della nostra descrizione.
Cominciamo dal dire che il pedante genuino, o, piuttosto il pedante
tipico, non ha col favoloso Narciso e con lo storico Antinoo nessuna,
nemmen remotissima parentela, e delle Grazie non conosce se non
quel tanto che ne scrissero i poeti. Piuttosto allampanato che
magro, piuttosto scontrafatto che brutto, egli veste miseramente e
bizzarramente di panni logori e sucidi, forzando ad accomunarsi in una
lamentabile livrea di miseria le fogge più disparate e più repugnanti.
Ciò che il rigattiere rifiuta trova sul suo dorso un ultimo e durevole
impiego[256]: la toga pelata di un pedante, dice Tommaso Garzoni, _non
ha visto manco di cinque Jubilei._ Il Caporali, parlando nella _Vita
di Mecenate_[257], dei vari lasciti fatti da costui nel suo testamento,
dice:
Or veniamo a i legati de i Pedanti,
. . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . .
Ei lasciò lor un valigion di stracci,
Due toghe rotte, un berrettin macchiato,
E una camicia vecchia e senza lacci.
Il bagaglio non era dunque loro di grande impaccio: certo pedante
descritto dall’Aretino[258], e di cui dovrò riparlare, aveva per tutta
masserizia una «sacchetta dova tenea due camisce, quattro fazzoletti,
e tre libri con le coperte de tavole». Se al detto sin qui si aggiunge
che il pedante riusciva goffo in ogni suo atteggiamento, o movenza,
e che spesso il suo volto si vedeva (se non mentono i narratori)
_ricamato di scabbia gallica_, o di altra sì fatta galanteria, si
avrà di lui una immagine non certo finita ed intera, ma sufficiente al
proposito nostro.
Brutto sotto l’aspetto fisico, il pedante non appar bello davvero
sotto l’aspetto morale. Egli è, di solito, un uomo ottuso di mente;
ricco talvolta di memoria, ma poverissimo sempre di giudizio; privo
di qualsiasi genialità, e spesso spesso sciocco di una sciocchezza
tanto più ridicola quanto più inviluppata di saccenteria. Egli ha
quella che l’Elvezio chiamava la più incurabile delle stupidità, la
stupidità acquistata con lungo studio. Gli è assai raro che in quelle
raccolte di facezie e di motti di cui ebbe tanta copia il Cinquecento,
si trovino detti arguti posti in bocca a pedanti[259]; mentre è
frequentissimo il caso che si narrino esempii incredibili della lor
grulleria. Il Doni racconta di uno che avendo veduto il discepolo
sputare sopra un ferro per accertarsi se fosse caldo, sputò poi, con
lo stesso intendimento, sulle lasagne, e non avendole udite friggere,
se ne cacciò in bocca una gran forchettata e si cosse tutto[260]. E
quale l’ingegno, tali naturalmente gli studii e la coltura. Il pedante
è, come dice l’Aretino, l’asino degli altrui libri; è un uomo nel cui
capo non entra nulla, se l’autorità di un libro non ce la fa entrare.
Infatuato dell’antichità e dei classici, disprezza, senza punto
conoscerlo, il mondo in cui vive, ma a cui veramente non appartiene.
Del resto anche l’antichità, che egli crede di aver famigliare, è
per lui un mondo chiuso, di cui non considera e non conosce se non la
scorza. Egli ha letto tutti gli autori latini, se non anche i greci;
ma dei poeti ha colto la parola, non l’anima, degli oratori il suono,
non le ragioni, dei filosofi tutto il più le sentenze, non le larghe
e poderose intuizioni. Ha la memoria pronta, e anche ben guernita;
ma quella sua memoria non è un libro fatto e nemmeno un zibaldone; è
uno schedario. La sua sapienza è tutta di citazioni: nei _Ragguagli
di Parnaso_ Trajano Boccalini ce ne dà un giusto concetto, quando ci
mostra i pedanti che coi bacili in mano vanno raccogliendo le sentenze
e gli apoftegmi che _scatarrono_ i savii dell’antichità[261]. E quando
compongono, se pur compongono, non fanno altro che mettere in carta
di nuovo ciò che in carta han trovato, compilar ristretti, o manuali,
o trattati. Parlando dei pedanti, Niccolò Franco fa dire alla sua
lucerna: «Gli veggo star d’intorno a i libri, facendosi scoppiare
il core per imparare due parolette per lettera, per attestarle senza
proposito. Non gli veggo mai scrivere cosa alcuna di lor farina. Veggo
che non san far altro che repertorii, vocabulisti, arti da far versi, e
modi da componere pistole»[262].
Il pedante è prima di ogni altra cosa, e sopra ogni altra cosa, un
grammatico: uno sfregio alla verità, una offesa al buon senso non
lo commuovono; un mancamento ai precetti di Prisciano e di Donato
lo fa uscire dai gangheri. Trajano Boccalini dice che in Parnaso fu
attaccata un giorno grande zuffa tra i pedanti, gli _epistolarii_ e
i commentatori, per un disparere se _consumptum_ dovesse scriversi
con la p o senza la p. Apollo, stomacato, voleva cacciarli tutti fuor
del suo regno, ma poi ce li lasciò stare a istanza di Cicerone e di
Quintiliano[263]. Quanta fosse del resto la pedanteria dei grammatici
si può vedere in certi esempii recati dal Pontano[264] e da Alessandro
degli Alessandri[265], per tacer d’altri. Il pedante non parla mai
facile e piano, chè gli parrebbe di ragguagliarsi al volgo; orna
quanto più può la dizione, studia la voce e il gesto, canta _così le
prose come i versi_[266]; sapendo di non poter essere inteso da chi lo
ascolta, commenta e dichiara egli stesso ogni parola che dice[267],
e non avendo mai nulla da dire che importi, ha sempre in pronto
un’apostrofe, un epifonema, una serqua di aforismi, una orazione
spartita secondo le regole. Egli ha la dottrina e l’arte del vaniloquio
vestito d’enfasi e di magniloquenza. Nella _Cena delle Ceneri_ di
Giordano Bruno, il pedante Prudenzio interrompe il racconto di certo
Teofilo, altro interlocutore del dialogo, e dove questi aveva detto:
_dopo il tramontar del sole_, egli muta e supplisce: _Già il rutilante
Febo, avendo volto al nostro emisfero il tergo, con il radiante capo ad
illustrar gli antipodi sen giva_. Ne segue un piccolo diverbio:
FRULLA. Di grazia, _magister_, raccontate voi, per che il vostro
modo di recitare mi soddisfa mirabilmente.
PRUDENZIO. Oh, s’io sapessi l’istoria.
FRULLA. Or tacete dunque, nel nome del vostro diavolo.
Che importa al pedante che quanto ei dice non sia al proposito,
se, come a lui sembra, è ben detto? In uno dei suoi _dialogi
piacevoli_[268] il Franco introduce un pedante Borgio, quello stesso
contro cui scrisse una delle più vituperose sue epistole[269]. Questo
pedante è morto e giunto sulla riva d’Acheronte: ma non può indursi
a passar come gli altri, e prega Caronte di aspettare un poco, tanto
che egli possa comporre una orazioncella da recitare in cospetto di
Plutone. Ottenuta licenza, comincia a discutere con sè stesso se la
orazione debba appartenere al genere dimostrativo, al deliberativo, o
al giudiciale. Scelto il dimostrativo, ricorda di aver letto in Tullio
che cinque sono _le parti de l’officio de l’oratore_, invenzione,
disposizione, elocuzione, memoria e pronunciazione. Poi va oltre,
ricercando i _colori retorici_, provando con esempii la virtù loro,
e finalmente mette insieme il suo discorso con esordio, narrazione,
divisione, confermazione e conclusione. Il Franco dimentica di dirci
quale accoglienza il pedante Borgio si avesse da Plutone. Nemmen
dopo morto il pedante cessa d’esser pedante. Nel suo lucianesco
dialogo intitolato _Charon_, il Pontano introduce l’anima di un
Pedano grammatico, giunto allora allora agli Inferni. Pedano pensa ai
discepoli che ha lasciati nel mondo, e prega istantemente Mercurio
di voler loro riferire alcune cose di gran rilievo da lui risapute
dallo stesso Virgilio poc’anzi; e cioè, come Aceste donasse ad Enea,
non cadi di vino, ma anfore; come lo stesso Aceste vivesse anni
centoventiquattro, mesi undici, ventinove giorni, tre ore, due minuti e
mezzo secondo; che Enea toccò la terra d’Italia con entrambi i piedi a
un tempo, ecc. Ludovico Domenichi racconta di un pedante che stando per
affogare, gridava forte: _O Dio, che ti pare del nostro Cicerone? che
cura tiene egli dei suoi amici?_[270].
Il pedante non si contenta, per distinguersi dal volgo, di parlare
secondo i precetti dell’arte oratoria e con l’esempio di Cicerone
innanzi; ma usa inoltre di una lingua sua propria. Quando può parla
latino, perchè il latino, a suo giudizio, è la lingua nobile, la lingua
perfetta, la lingua per eccellenza; quando non può parlar latino, e
la necessità lo sforza, parla volgare; ma allora per ricattarsi, alle
parole e alle frasi volgari, mescola le parole e le frasi latine,
sparge di latinismi il suo dire, e fa un guazzabuglio che nessuno
intende. Il Garzoni narra di un pedante che volendo dar nuova altrui
come nella città sua di Bologna c’erano molti banditi, i quali si
temeva che un dì o l’altro non ammazzassero il governatore, disse:
_Io vereo che per la copia di questi esuli un giorno non venga necato
l’antistite_. E narra di un altro, che indirizzando una lettera in
Padova, sulla piazza del vino, alla spezieria della Luna, scrisse:
_Nella città Antenorea, in sul Foro di Bacco, all’Aromatario della Dea
Triforme_[271]. Nè questa era usanza dei soli pedanti italiani: il
Montaigne racconta di un amico suo, che avendo a discorrere appunto
con un pedante, prese per burlarsi di lui, a _contrefaire un jargon
de galimatias, propos sans suitte, tissu de pièces rapportées, sauf
qu’il estoit souvent entrelardé de mots propres à leur dispute_, e così
facendo lo tenne un giorno intero _à débattre_, pensando il pedante
_toujours respondre aux objections qu’on lui faisoit_[272].
Sappia pochissimo, come d’ordinario accade, o sappia malamente assai
cose inutili, come pure incontra talvolta, il pedante presume sempre
moltissimo di sè, incede con magistrale gravità, con volto d’uomo
immerso in alti e reconditi pensieri, con atti dottorali e schivi.
Certo pedante, introdotto da Metello Grafagnino in un suo bizzarro
capitolo, ascrive alla schiera dei _ludimagistri_ Aristotele, Platone,
Socrate, Seneca, e molti altri antichi e moderni, e a questo modo fa
sè pure della loro schiera. Francesco Ruspoli, in uno de’ suoi sonetti,
definisce il pedante
Gigante d’ambizion, di saper nano;
e soggiunge:
Appena l’_a bi ci_ solo col dito
Ei discerne, e non sa l’indicativo,
Che giunge d’insolenza all’infinito[273].
Questa insolenza mostravano più particolarmente i pedanti nel
riprendere altrui, nel censurare le altrui fatiche, in nome delle
sane dottrine e del corretto gusto, di cui si stimavano depositarii e
tutori. «Vorrei», dice l’Aretino nel Prologo dell’_Ipocrito_, «levati i
pedanti a cavallo, che il sovatto d’una scuriata gli insegnasse il come
si fanno l’opre, e non come le si mordono». E son noti quei versi del
Boileau:
Un pédant, enivré de sa vaine science,
Tout hérissé de grec, tout bouffi d’arrogance,
Et qui, de mille auteurs retenus mot pour mot,
Dans sa tête entassés, n’a souvent fait qu’ un sot,
Croit qu’un livre fait tout, et que sans Aristote
La raison ne voit goutte, e le bon sens radote.
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