Attraverso il Cinquecento - 01

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ARTURO GRAF

ATTRAVERSO
IL
CINQUECENTO

PETRARCHISMO ED ANTIPETRARCHISMO
UN PROCESSO A PIETRO ARETINO
I PEDANTI
UNA CORTIGIANA FRA MILLE: VERONICA FRANCO
UN BUFFONE DI LEONE X
(_Ristampa_)

TORINO
CASA EDITRICE
ERMANNO LOESCHER
1916


PROPRIETÀ LETTERARIA
Tip. OLIVERO & C. · Via Accademia Albertina ang.
Piazza Carlo Eman. II, Torino.


PETRARCHISMO ED ANTIPETRARCHISMO


PARTE PRIMA
PETRARCHISMO

Il Petrarchismo è una malattia cronica della letteratura italiana. A
cominciare dai tempi stessi del poeta che gli diede il nome, e a venir
giù sino a quelli dei nonni o bisnonni nostri, ogni secolo della nostra
storia letteraria se ne mostra, non voglio dire infetto, che potrebbe
parere troppo irriverente verso la causa prima e non volontaria del
male, ma soprappreso, o colpito, in varii modi e con diversità di
grado e di effetti. È una specie di febbre ricorrente, da cui non so
se possiam dirci ancora in tutto e per sempre guariti, ma che già più
di una volta c’ebbe a tornar perniciosa. Il Petrarca era ancor vivo e
vegeto che molti già, com’egli stesso ci dice, si facevano belli delle
sue spoglie, tentavano di tramandare sull’ali stesse dell’ingegno
di lui il nome loro ai posteri. Costoro, che spacciavan per proprii
i versi stessi del cantore di Laura, sono certo i petrarchisti più
petrarchisti che sieno mai stati. Poi, subito dopo, comincia la
imitazione, comandata, in certo qual modo, da quella riputazione
strabocchevole, e forse senza riscontro, la quale, avendo accompagnato
il poeta in vita, non fece, lui morto, se non accrescersi e
confermarsi. Zenone da Pistoja, che in due migliaja di fastidiosissimi
versi deplorò quella morte, fa dire al mondo, vedovato del suo poeta:
Quest’era la colonna del mio stato
Quest’era luce mia universale,
Come dal sol da lui illuminato.
E, veramente, a questo sole ebbero a scaldarsi infiniti, cui Febo molto
volentieri avrebbe lasciato morirsi di freddo, nel bujo.
Ebbe petrarchisti il Trecento; ebbene il Quattrocento, e non pochi;
ma il secolo in cui il petrarchismo galla, lussureggia, trionfa e
strabocca, è il Cinquecento: così che quando si parla di petrarchismo,
subito la mente corre a quel secolo, come se a quello esso appartenesse
strettamente ed in proprio.
Quali le ragioni del fatto?
A tale domanda alcuni storici della letteratura non dànno risposta di
sorta, paghi di descrivere incompiutamente, o anche solo di registrare
il fatto; altri rispondono assai per le spicce, con pericolo grande di
risponder male[1].
Il buon Settembrini, che batteva sempre su quel suo chiodo (ma
non sempre a torto, intendiamoci) della oppressione civile ed
ecclesiastica, nemica così del pensiero, come della unità e libertà
d’Italia, dice a tale proposito[2]: «La Lirica è essenzialmente
affettuosa: tra gli affetti il solo amore era libero, non dava sospetto
ai principi ed alla Chiesa: il Petrarca fra gli antichi ed i moderni
è il maggior poeta di amore: i monumenti antichi di recente scoperti
e pubblicati fecero stabilire come principio di arte l’imitazione:
ecco come fu imitato il Petrarca». A ciò si risponde che significare
altri affetti nel verso non era poi così rigorosamente vietato,
provando il contrario gli esempii noti del Guidiccioni, dell’Alamanni,
e di quant’altri, e non furono pochi, ebbero allora a deplorare i
mali d’Italia, a esecrarne le cagioni, a ricordare con dolore e con
desiderio i tempi e le glorie antiche; che il petrarchismo non è tutto
contenuto nella poesia imitativa di quei lirici; che il fatto, ben
lungi dall’avere una causa sola, ne ha parecchie, le quali si potranno
vedere specificate più oltre.
Uno storico tedesco della letteratura italiana, il Ruth, cerca le
cause del petrarchismo del Cinquecento in una innata ed incurabile
debolezza dell’ingegno italiano, e dice che, senza una tale debolezza,
il Petrarca non sarebbe stato mai, come fu, canonizzato massimo
poeta[3]. A quest’affermazione sommaria, che fa torto ad uno storico
di professione, troppe cose ci sarebbero da opporre; ma basterà, per
mostrare quanto sia vana ed ingiusta, ricordare che il Petrarca non fu
meno ammirato nella rimanente Europa di quello fosse in Italia; che di
petrarchisti ce ne furono in Ispagna e in Portogallo, ce ne furono in
Francia, ce ne furono in Inghilterra, ce ne furono, sebbene più tardi,
come di ragione, in Germania; e che però quella presunta debolezza,
se è del popolo italiano, è anche di tutti gli altri popoli a cui si
allargò la coltura del Rinascimento. Certamente il Settembrini e il
Ruth, per non parlare di altri, o non colgono il vero, o lo colgono
solamente in parte.
Il petrarchismo del Cinquecento è un fatto storico e letterario assai
complesso, e le cause di esso sono molteplici e variamente composte
e intrecciate, per modo che non riesce troppo agevole determinare
il prima e il poi dell’apparire e dell’operar loro; ma le più, se
non tutte, si possono riferire, come a principio, o a recapito, alla
coltura del Rinascimento, la quale, com’è noto, si specifica, non
solamente in una moltitudine di forme, ma in una moltitudine ancora
di tendenze e d’indirizzi. In queste forme, in queste tendenze, in
questi indirizzi, sono da ricercare le ragioni del petrarchismo; mentre
in forme, tendenze, indirizzi di opposta natura sono da ricercare
le ragioni dell’antipetrarchismo, che, come fenomeno di reazione, o
sintomo di nuova evoluzione, si appalesa in quel medesimo secolo. Nelle
pagine che seguono io mi propongo di parlare, così del petrarchismo,
come dell’antipetrarchismo, e, secondo l’ordine richiede, comincio dal
primo.
Il petrarchismo del Cinquecento è, come ho detto, un fatto complesso,
che prende varie forme: studiando queste forme, quali la vita del tempo
ce le vien presentando, noi potremo, senza sforzo, darci ragione delle
cause che lo produssero.
La forma più appariscente assunta da esso è la imitazione, quale la
ci mostrano i canzonieri degli innumerevoli petrarchisti: dico la più
appariscente, e, se vuolsi, anche la principale; non certo la sola. Di
cotesta imitazione si parla in tutte le nostre storie letterarie; ma
un po’ troppo in succinto, e senza la debita distinzione e l’opportuno
apprezzamento dei modi, dei gradi, delle vicende. Dire che la lirica
nostra di quel secolo è, presso che tutta, imitazione del Petrarca,
gli è dire la verità, ma non tutta la verità; giacchè dentro al fatto
generale ci son molti fatti particolari, i quali han tutti la loro
significazione, e meriterebbero di essere diligentemente raccolti
e ordinati. Io non intendo di supplire qui al difetto delle storie
letterarie, al che si richiederebbe lavoro molto maggiore di questo; ma
solo di ricordare alcune cose già note, e di metterne innanzi parecchie
altre che fanno al proposito.
Antesignano, corago e campione dei petrarchisti del Cinquecento è
messer Pietro Bembo, uomo di mediocre ingegno, ma di molta e varia
erudizione, educato in tutte le finezze e peregrinità di quella coltura
nelle Corti di Urbino e di Roma, nella impareggiata Venezia; non vero
poeta, ma studiatore e rifacitor di poeti; ringrandito dalla fama
fuori d’ogni misura, gridato meraviglia e fenice del secolo. Se s’ha
a credere a quanto scrive nel _Dialogo della storia_ Sperone Speroni,
Aldo Manuzio confessava che prima del Bembo il Petrarca non era
conosciuto in Lombardia e nel Veneto[4], dove, per contro, fu poi tanto
cognito, e tanto studiato, che Giangiorgio Trissino poteva con tutta
sicurezza affermare intendersi il Petrarca meglio in Lombardia che in
Firenze[5]. E Venezia diventò appunto il propugnacolo e la principal
sede del petrarchismo in Italia. Sulle orme del Bembo si accalca un
popolo di rimatori d’ogni generazione e d’ogni temperamento, in mezzo
a cui, a far fede della forza dello andazzo, si trovano storici e
politici, come il Machiavelli; veri poeti, come l’Ariosto; poeti da
succiole, come Lodovico Paterno; medici insigni, come il Fracastoro;
eruditi di peso, come il Trissino; buoni mariti, come il Rota; buone
mogli, come Vittoria Colonna; scapestrati, come il Molza; cortigiane,
come Tullia d’Aragona; uomini gravi, come il Varchi; artisti, come
Michelangelo; attrici, come Isabella Andreini; e cardinali, e frati, e
cortigiani, e guerrieri, e mecenati, e parassiti, e pedanti.
Tutti costoro imitano, ma non tutti ad un modo; chè anche in ciò
l’indole propria di ciascuno, gli studii, certi abiti della mente,
la condizione di vita, dovevano, o poco o molto, farsi sentire. C’è
chi studia di appropriarsi quanto più può la lingua, lo spirito, la
maniera del Petrarca, e procaccia poi di rifare il modello, senza
altrimenti curarsi di conformare in qualche modo a quel modello se
stesso, e alla vita di quello la propria vita. Per costoro l’arte del
Petrarca è una veste che s’attaglia a ogni dosso. Così il Bembo ruba
le forme di cui il Petrarca aveva rivestito il suo purissimo amore
per Laura e ci caccia dentro l’amore troppo diverso per quella sua
Morosina, che lo fece padre di parecchi figliuoli. Certo, non si può
frantendere più di così l’indole e il magistero della poesia. Gerolamo
Muzio petrarcheggiò in onore di quella famosissima Tullia d’Aragona,
che, non giova nasconderlo, figura in certa _Tariffa_ dell’inclita
città di Venezia; e Bernardino Rota, men malamente, scrivendo le _Rime
in vita e in morte_ della propria moglie, Porzia Capece. Altri, con
alquanto più di buon giudizio, procurava di rifar dentro di sè l’anima
del Petrarca, e intorno a sè alcuna condizione della vita di lui,
o lasciava credere che così facesse. Il Cariteo scovava a dirittura
un’altra Laura, e spasimava per lei dodici anni; e quattordici durava
lo struggimento del Sannazaro per la bella Carmosina; undici quello del
buon Guidiccioni per non ricordo quale _fera_ virtuosa e bella. C’era
chi si attaccava alle falde del maestro, e non osava scostarsi un passo
da lui; e c’era chi, pure imitando, si studiava di metter qualche cosa
di suo ne’ suoi versi. Così ebbero lode, per alcuna tentata novità,
Giovanni Della Casa, Angelo Di Costanzo, ed altri. Parecchi imitatori
si accozzavano insieme, e di pezzi componevano un nuovo Canzoniere,
come può vedersi nelle _Rime di diversi eccellenti autori in vita e
in morte dell’illustrissima signora Livia Colonna_, stampate in Roma
nel 1555. Più che imitatori erano i centonisti, i quali rifacevano il
Petrarca con lo stesso Petrarca, e spesso i versi di lui forzavano a
dire ciò che mai non avevano detto: e abbiamo centoni del Sannazaro,
di Bernardino Tomitano, d’Isabella Andreini, di un Fabrizio Accolti,
di un Luc’Antonio Ridolfi, di altri. Un Giulio Bidelli, mostro di
pazienza, giungeva a mettere insieme _Dugento stanze e dui capitoli,
tutte de versi del Petrarca_. Si usava anche di lardellare con versi
del Petrarca i proprii componimenti. Così Isabella Andreini compose un
capitolo in cui ogni terzetto finisce con un verso del Petrarca, e il
medesimo, già molto prima, aveva fatto per celia Pietro Aretino: un
Fabio Cavofigli, da Bitonto, morto nel 1570, compose un poema in sei
canti, intitolato _L’Esiglio_; dove ogni stanza termina con un verso
del Petrarca.
Non mancava chi, lasciando al _Canzoniere_ i suoi versi, ne rubava le
rime, per avere il gusto di accodarvene altri, di sua fattura. Un po’
meno che imitatori direi coloro i quali pigliavano dal Petrarca di
seconda o di terza mano, facendosi seguaci dei seguaci di lui, come a
dire del Bembo e di monsignor Della Casa. Si veniva ad avere per tal
modo un Petrarca assottigliato e annacquato con processo che ricorda
certe soluzioni ripetutamente diluite dei chimici; e se i versi dei
primi imitatori posson rassomigliarsi a un vinello di poco spirito e
manco sapore, quelli dei secondi sono a dirittura la risciacquatura
del tino. C’era ancora chi pensava di dover compiere o rifare il
_Canzoniere_, oppure dargli un opportuno riscontro. Uno Spina componeva
_Il bel Laureto_ (Milano, 1547) tutto in lode di Madonna Laura, che, a
suo giudizio, non doveva essere stata dal Petrarca abbastanza lodata.
Nel 1552 si pubblicavano in Venezia _I sonetti, le canzoni, et i
trionphi di M. Laura in risposta di M. Francesco Petrarca per le sue
rime in vita, et dopo la morte di lei pervenuti alle mani del magnifico
M. Stephano Colonna_. E senza più, Ludovico Paterno osava chiamare
_Nuovo Petrarca_ un suo sciattissimo canzoniere in vita e in morte di
una madonna Mirzia (Venezia, 1560). Per agevolare la imitazione, o il
furto, si moltiplicarono i _Rimarii del Canzoniere_.
La prosunzione in molti di questi imitatori era assai grande, e più
d’uno si credette d’aver superato il maestro, o che il superasse fu
creduto da altri. A noi le rime di monsignor Della Casa non pajono
veramente gran cosa: ma il Varchi, il Tasso ed altri non isdegnarono
di studiarci sopra, di esporle e di commentarle: il primo di aprile
del 1616 Orazio Marta mandava al conte di Castro un suo parere, in
cui quasi quasi pone il Casa sopra il Petrarca. In un suo epigramma
latino Marc’Antonio Flaminio dà al Molza più gloria che a Tibullo e al
Petrarca, e ciò per aver egli saputo riunire in sè il pregio dell’uno
e dell’altro poeta. Il marchese di Mantova scriveva a Pietro Aretino
il 27 d’agosto del 1524: «La canzone mi è sommamente piaciuta in la
imitazion aveti fatto di M. Francesco Petrarca: lo avete molto, secondo
il nostro judizio, superato, e nel corso lassatolo drieto a voi un gran
pezzo»[6]. E sì che messer Pietro non ci teneva punto a passare per un
gran petrarchista.
Il Petrarca era maestro massimo di poesia; da lui si ripetevano e si
ricavavano tutte le parti e le norme dell’arte. Il poeta che senza
paragone si cita più di frequente nelle Poetiche del Cinquecento, è
lui; veggane le prove chi vuole nelle Poetiche di Bernardino Daniello,
di Mario Equicola, del Muzio, del Minturno, di Andrea Gilio e di altri.
E non è a dire se versi del Petrarca occorrano spesso nel _Tesoro di
concetti_ poetici del Cisano e in altre consimili raccolte. A mostrare
di quanto favore egli abbia goduto in quel secolo basta ricordare
che le edizioni del _Canzoniere_, di trentaquattro ch’erano state nel
Quattrocento, salirono a centosessantasette, per cadere a diciasette
soltanto nel secolo successivo; mentre le edizioni della _Divina
Commedia_ furono rispettivamente in quei tre secoli di quindici, di
trenta e di tre. Dante ebbe anche nel Cinquecento ammiratori ardenti,
come, per citarne due, Michelangelo Buonarroti e Giambattista Gelli; e
qualcuno ce ne fu che, come il Cosmico, osò porlo sopra il Petrarca;
ma, ad ogni modo, la fama sua fu ben poca a paragone della fama di
questo. Ed era lo spirito del secolo tutto intero che voleva così.
Il Cinquecento era fatto per intendere il Petrarca e per non intender
Dante. Fermiamoci un poco a considerare perchè.
Immaginatevi il rigido e sdegnoso Alighieri, quell’Alighieri, che, come
dice Giovanni Villani, _quasi filosofo mal grazioso non bene sapeva
conversare co’ laici_, in mezzo ad uno di quei crocchi eleganti dove la
coltura, l’ingegno, la beltà, la cortesia, gli affetti teneri e gentili
si stimolavano a vicenda, si davano scambievolmente risalto e valore;
uno di quei crocchi che formavano la principale attrattiva della vita
in Urbino, in Ferrara, in Mantova, in Roma, in Venezia: certamente egli
vi si sarebbe trovato molto a disagio, ed anche agli altri sarebbe
stato cagion d’imbarazzo. Poneteci per contro il Petrarca e vedrete
subito ch’egli ci si trova, come si suol dire, nel suo centro. Gli è
che il Petrarca, malgrado le melanconie ascetiche e i disgusti profondi
che di tanto in tanto lo soprapprendono, è quasi, già nel Trecento, un
uomo del Cinquecento; è il maestro insuperato e insuperabile di tutte
le squisitezze e di tutte le eleganze. Un secolo come il Cinquecento,
che ricerca in ogni cosa la peregrinità e la grazia, che tutto affina
e illeggiadrisce, che, rifuggendo istintivamente da quanto è semplice,
primitivo, ingenuo, fa della vita un’arte, per non dire un artificio,
doveva riconoscere nel Petrarca il solo poeta volgare degno d’essere
posto in ischiera coi poeti dell’età augustea, e compiacersi della
poesia del Canzoniere come di quella che meglio assecondava, blandiva,
esprimeva i gusti e gl’ideali suoi proprii. A dirla in una parola, è
la cortigiania del secolo XVI, presa nella sua duplice e più larga
significazione di forma di coltura e forma di vita, che leva sugli
altari il Petrarca, e in molteplici guise ne promuove il culto. Però
s’intende quale sia il pensiero di monsignor Della Casa, quando, nel
_Galateo_[7], appunta di disonestà alcuni vocaboli e versi di Dante,
e dice che dal poeta della _Commedia_ non si può apprendere _l’arte di
essere grazioso_. Al Petrarca, nè monsignore, nè altri, avrebbe potuto
muovere così brutto rimprovero.
In fatti noi troviamo il petrarchismo in istretta relazione anche con
la cortigiania più frivola e scioperata, quella che si spendeva tutta
nelle graziosità non sempre di buona lega della vita esteriore, senza
dignificarsi nell’amore degli studii e delle buone arti. Dice Pietro
Aretino nella _Cortegiana_[8] che certi cortigianuzzi effeminati e
sciocchi avevano molto a mano il Petrarca; e altrove, per bocca di
quella sua Nanna[9], descrive i leggiadri cavalieri di Roma, quali
usavano mostrarsi per le vie, «andando soavi soavi co’ loro famigli
a la staffa, ne la quale tenevano solamente la punta del piede,
col Petrarchino in mano, cantando con vezzi». Il Petrarchino era il
_Canzoniere_, in edizione elegante, di piccolo formato[10]. In una
scena del _Furbo_, commedia di Cristoforo Castelletti, l’innamorato
Aurelio si presenta con un Petrarca in mano, regalatogli dalla
diva[11]. Sì fatti stucchevoli vagheggini descrive quel cervel balzano
del Garzoni nella sua _Piazza universale di tutte le professioni del
mondo_[12]: «caminano tutto il giorno vestiti come ninfati Narcisi, col
fiore nell’orecchia, con la rosa in mano, coi suoi guantetti profumati,
con la gamba attilata, col passo artificioso, col motto galantino,
con l’andar lesto, che pajono daini di Soria, e qui si fermano un
tratto, danno una occhiata, fanno un cenno, tranno un sospiro, fan di
pennacchino una volta, salutan sotto voce, si raccomandano alquanto,
ricevono un risetto forbito, un guardo maliziosetto, e allora col
farsetto pien di gioja partono cantando, e vanno a casa a comporre
una sestina, o un madrigaletto, dove il cieco d’Adria non s’accorge
che la mariuola gli ha furfato in versi, senza essere discoverta da
veruno». Una genía che vive e prospera ancora, come si vede. Costoro
dovevano molto spesso rassomigliare a quel messer Simpliciano che
descrive il Bandello[13], dicendo, tra l’altro, che era «il più
polito ed il più profumato giovane di Milano; e teneva un poco, anzi
che no, del Portogallese; che ogni dieci passi, o fosse a piede o
cavalcasse, si faceva da uno dei servidori nettar le scarpe». Aveva
ragione il Castiglione, che gli escludeva dal consorzio dei veri e
buoni cortigiani[14]: «Questi, poi che la natura, come essi mostrano
desiderare di parere ed essere, non gli ha fatti femine, dovrebbono,
non come buone femine essere estimati, ma, come publiche meretrici, non
solamente delle corti de’ gran signori, ma del consorzio degli uomini
nobili esser cacciati».
Anche costoro, dunque, dovevano, alla lor maniera, favorire il
petrarchismo, mentre non dovevano certo, da parte loro, contrariarlo
quegli Spagnuoli che, maestri di scioperata e sdilinquita cortesia,
avevano, come dice l’Ariosto, messa _la signoria sino in bordello_.
Quei Don Cirimonia di Moncada e quei Signor Lindezza di Valenza, di
cui ride il sempre arguto Aretino, stretti in cintura, come li ricorda
il Sanga, _attillati, odoriferi, schifi....., la spadiglia a canto,
fumosi, il mozzo dirieto, per vida de la Imperadrice, e con l’altre lor
lindezze attorno_[15], sempre _assassinati d’amore_, dopo aver veduto
il Petrarca godere di tanta considerazione in casa loro, dovevan dar
mano ad allargarne il culto anche tra noi. E c’è memoria di un Don
Diego, il quale osò persino d’imbrancarsi col gregge degli imitatori,
facendo così venire la muffa al naso al buon Lasca, che sotto nome di
messer Goro della Pieve, gli scaraventò contro un sonetto, esortandolo
a levarsi di Firenze. Non si può ragionevolmente non credere che
costoro facessero spalla con molto impegno al petrarchismo, se è vero
ciò che dice il Mauro, che cogli Spagnuoli entrò in Italia una nuova
usanza di sospiri:
Non era in uso quel baciar di mani
Nè ’l sospirar sì forte alla spagnola,
Ch’or è sì proprio de’ napoletani[16].
E chi al mondo sospirò più di messer Francesco? Così la cortigiania
favoriva il petrarchismo, non meno con le sue tendenze cattive che con
le buone.
Si capisce come il Petrarca, riconosciuto maestro insuperabile e
modello unico della poesia lirica, dovesse tirarsi dietro a rimorchio,
oltre agli ingegni migliori, anche un infinito popolo di poetastri
e poetucoli da strapazzo, pei quali la imitazione era ineluttabile
necessità, mentre per gli altri, almeno sino ad un certo punto, era
libera elezione. La molta e diffusa coltura, se reca alla società cui
appartiene benefizii grandi e molteplici, reca pur qualche danno, fra
gli altri quello di promuovere e di stimolare un dilettantismo non
sempre di buona lega. Ciò si vede in ispecial modo in quel secolo XVI,
nel quale la smania di passare per letterato, d’imbrattar fogli e di
stampar libri, assume il carattere di una vera e propria epidemia.
Aggiungasi che il mecenatismo, falso o sincero, dei tempi, suscitava
molte facili speranze, e faceva seguaci delle muse molti ch’erano nati
per la striglia, e pur vagheggiavano il pane con poca fatica lucrato,
gli onori e i favori delle Corti. Per tacere degli altri, i poeti, o
direm meglio, i verseggiatori di quel secolo sono come l’arene del
mare. _Può far Domenedio che i poeti ci diluvino come i Luterani?_
esclama l’Aretino nel prologo della _Cortegiana_. E nella commedia[17]
ricorda un Cinotto, un Casto da Bologna, un prete Marco da Lodi, e nel
Capitolo all’Albicante un fra Porro, tutti d’una buccia e d’un midollo.
Alcuni, come il Querno, il Baraballo, il Brittonio, il Gazoldo,
riuscirono per singolare concorso di casi, a tramandare ai posteri
un nome vituperato; ma quanti altri mai affondarono irrevocabilmente
nel mar dell’oblio? quanti vissero e morirono senza che il nome loro
uscisse fuori di quei tristi e luridi tinelli, dove dividevano cogli
staffieri e coi mozzi di stalla la scarsa pietanza? E a che cosa doveva
riuscire tra le mani di costoro il Petrarca? Contro uno di questi,
certo Eufrosino Lapini, si scaglia con un veemente sonetto il Lasca:
Oh gran gagliofferia,
Veder le vostre goffe e fredde stanze,
Piene di passerotti e discordanze;
E per belle creanze
Metter quei versi del Petrarca in guisa
Che chi li legge crepa delle risa!
Ma il Petrarca non era solamente l’oracolo della poesia; era ancora
l’oracolo della lingua. E perchè? Anche di ciò la ragione è da cercare
nella coltura del nostro Rinascimento. Di mezzo a quella coltura vien
fuori quel particolar gusto, quel complesso di opinioni e di indirizzi,
quella suscettività e intolleranza in materia di lingua, che formano
il purismo. Considerare il purismo nostro non altrimenti che come un
fatto di rigidità e di grettezza accademica, solo perchè l’Accademia
della Crusca ne fu massima fautrice e tutrice, non è nè ragionevole
nè giusto. In sostanza il purismo non è se non la esagerazione e la
conseguenza finale di quelle stesse tendenze per cui, in mezzo ad un
popolo, viene a formarsi, diversa dalla volgare, la lingua colta,
letteraria od aulica che voglia dirsi. Come tale il purismo non è
cosa propria della nostra storia letteraria soltanto, ma comune,
quando in una, quando in altra forma, a tutte le storie letterarie:
sebbene possa tra noi, per le condizioni stesse della coltura nostra,
essere riuscito più che altrove fastidioso ed eccessivo. La soverchia
raffinatezza, già tendente a leziosaggine, della coltura e del
costume, importa, insieme con molt’altre cose, anche una elezione
minuziosa, schifa e sofistica nel fatto della lingua, la quale vuolsi
rivesta quel carattere di signorile ed inappuntabile eleganza, che è
proprio di tutte l’altre cose, e delle forme e dei modi a quella vita
appartenenti. Come per veste ed ornamento del corpo si scelgono allora
i panni più costosi e più belli, così per veste del pensiero le parole
più nobili e più peregrine; e l’uso artificioso che un’arte men degna
fa di quei panni, un’arte più degna, o più presuntuosa, fa di quelle
parole. Nascono per tal modo ad un tempo la preziosità della lingua
e la preziosità dello stile, per cui l’uomo colto e cortigianesco,
nel fatto del parlare e dello scrivere, come in ogni altra cosa, si
distingue e separa dal volgo. E poichè quel medesimo lavoro di scelta
si viene ancora esercitando sulle cose di cui è lecito parlare, e
sulle idee che è lecito esprimere all’uomo di finita coltura, e che
perciò la materia del discorso si viene restringendo entro una cerchia
sempre più angusta, ne segue che tutta quella parte di lingua, la
quale risponde a cose e a pensieri non contenuti in tale cerchia, è
facilmente considerata come impura, guardata con sospetto, e messa
in contumacia, se non rinnegata affatto. Così nasce quella grande
smanceria e quella solenne pedanteria che si chiama il purismo, il
quale, per una parte di buono che possa avere, ne ha nove di cattivo,
e, quando giunga alle ultime sue conseguenze, dissangua la lingua,
uccide il pensiero, cancella di sana pianta le cose. E un altro fatto
si consideri. L’umanesimo ebbe per lungo tempo in dispregio il volgare;
era però naturale che il giorno in cui si piegava a fargli un po’ di
posto a canto al greco e al latino, si mostrasse assai schifiltoso e
severo, e si desse a cercare, per levarlo a tant’onore, il volgare men
volgare che fosse possibile di trovare. L’umanesimo, quanto a lingua,
era divenuto assai schizzinoso studiando in Cicerone e in Virgilio, e
in tutto oramai recava la tormentosa preoccupazione dell’aureo.
Così stando le cose, qual altro miglior esemplare di lingua poteva
scegliere il Cinquecento che il Petrarca, il sempre purgato e sempre
manieroso Petrarca, il quale avendo da esprimere i pensieri e i
sentimenti più delicati e più nobili, e da ritrarre le cose più
piacenti e leggiadre, poteva schiumare, per uso suo, la parte più
odorifera e linda del vocabolario, e lasciar tutta l’altra da un canto?
Nessuno, certo, almeno per la poesia. Gli è vero che quel grandissimo
pedante del Salviati ebbe a dire Dante più puro del Petrarca[18], e che
il medesimo disse pure Torquato Tasso[19]; ma questa non era opinione
molto cattolica. Gli è vero ancora che accanto al Petrarca si ponevano
Dante e il Boccaccio; ma quando si dice accanto, s’intende ai fianchi,
egli nel mezzo. Così li vide veramente il Caporali nella reggia di
Parnaso:
Nella più badiale e ricca sede
Stava il Petrarca, ed a man destra Dante
E ’l gran Boccaccio alla sinistra siede[20].
Niccolò Liburnio intitolò _Le tre fontane_ certa sua opera grammaticale
fatta sugli esempii di Dante, del Petrarca, del Boccaccio; ma se la
fontana principale era per la prosa il Boccaccio, per la poesia era
il Petrarca. Anzi il Giovio, nei suoi _Elogia_, chiama a dirittura il
Petrarca _italicae linguae conditorem et principem_. Le regole della
grammatica si cominciarono più particolarmente a fissar sul Petrarca;
e anche qui ci troviamo dinanzi, se non primo, certo uno dei primi,
messer Pietro Bembo, il quale, se ebbe in sè molti buoni ingegni, non
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