Attraverso il Cinquecento - 17

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alternano colline ridenti, e selve ombrose, rallegrate le une e le
altre da fonti fresche e cristalline, da dilettoso canto di uccelli,
da quanto seppero comporre insieme la natura e l’arte. Ma quei luoghi
amenissimi sono a lei, lontana dalla sua Venezia e da colui che adora,
_deserti alpestri e strani_. L’amor suo focoso non si ammorza in quella
solitudine, anzi divampa più violento. Come già l’errabondo Petrarca
vedeva Laura nei sassi e nei tronchi, così ella ora il suo amante.
Tutto in quella vita dei campi la fa risovvenire dell’amor suo. Se vede
due uccelletti posarsi cantando sul medesimo ramo,
Con quel desio ch’amor dolce al cor preme;
se vede uscir da un antro, accompagnate insieme, due _damme snelle_,
sente più acuto nelle carni e nell’animo lo strazio del desiderio non
soddisfatto, dell’amore non corrisposto. Oh, umana stoltezza, ella
esclama, che ai desiderii d’amor fai
Così continua, abominosa guerra,
mentre l’amore è liberamente largito dalla Natura agli esseri tutti!
Stolti ritegni, e dolorosi contrasti, più che agli uomini, dannosi alle
donne, la cui tenera indole può meno resistere ai furibondi assalti
d’amore!
Picciol aura conturba la tranquilla
Feminil mente, e di tepido foco
L’alma semplice nostra arde e sfavilla.
E quanto avem di libertà più poco,
Tanto ’l cieco desir che ne desvia,
Di penetrarne al cor ritrova loco;
Sì che ne muor la donna, o fuor di via
Esce de la comun nostra strettezza,
E per picciolo error forte travia[514].
Ma di un altro amore è ricordo in quei versi, più notabile, più strano
di questo. La Veronica, non sappiamo quando, s’innamorò di un uomo
di molta prestanza e di chiara virtù, il quale, per quanto se ne può
intendere, doveva essere ecclesiastico e predicatore di grido.
Di molta gente nel comun concorso
Quante volte vi vidi, e v’ascoltai,
E dal bel vostro sguardo ebbi soccorso!
E se ben il mio amor non vi mostrai,
O che ’l faceste a caso, o per qual sia
Altra ragion, benigno vi trovai.
Per ch’ora in una, ed ora in altra via
Di devoto parlar con atto umano
Volgeste a me la fronte umile e pia;
E nel contar il ben del ciel sovrano
V’affisaste a guardarmi, e mi stendeste
Or larghe, or giunte, l’una e l’altra mano.
Ma il bell’incognito lasciò Venezia, e se n’andò, forse missionario,
forse vescovo, in remoto paese, fra genti straniere, e il tempo e
la lontananza guarirono lei. Passati molt’anni, egli torna, ed ella
lo rivede, ma assai mutato da quel di prima. Non trova più in lui il
_divino angelico sembiante_, che innamorava i cuori più duri; egli è
incanutito e _quasi vecchio_, sebbene ancora _in viril robusta etate_.
L’amor della donna, che mai non fu appagato, si muta in dolce e forte
amicizia. Egli sta per assentarsi di bel nuovo da Venezia: non isdegni
la sincera e affettuosa devozione di lei, non la dimentichi; le scriva
talvolta, le mandi alcuna opera sua: ella gli scriverà molto spesso:
Il vostro ajuto di lontan sospiro
Con occhi lagrimosi e fronte bassa.
Egli, che è salito tant’alto, le porga la mano, ajuti a salire anche
lei[515]. Respira e sospira in tutto il capitolo un’anima bisognosa
di guida e di conforto: la Veronica non doveva essere più ormai troppo
giovine, e s’accostava passo passo al ravvedimento.
Negli altri capitoli, e nelle lettere, sono altri amori, quando
narrati, quando accennati soltanto, gli uni felici, gli altri infelici,
per gli spasimanti, o per lei. Un gentiluomo s’innamora perdutamente,
vedutala appena. Saputo ciò, ella si dichiara disposta a dargli _in
ogni maniera a lei possibile ciascun segno di benevola corrispondenza_,
e gli manda intanto copia di una sua raccolta di sonetti[516]. Ella
ha lette a sua volta le _rare_ ed _eccellenti_ opere di un altro
adoratore[517]. Con un gentiluomo, che la sollecitava mediante una
_fedele e diligentissima messaggiera_, si scusa di non poter appagare
i suoi voti, non essendo _padrona_ del proprio _arbitrio_[518], e
respinge un amator tracotante, che vuol _violentare_ il cuore di lei.
Per sottrarsi alla importunità di un altro, o, com’ella dice, per
non mostrarsi ingrata all’amore che le si portava, lascia Venezia
a mezzo il verno e se ne va a Verona[519]. Offesa da un amante, si
pente del proprio amore e lo sbandisce dall’animo[520]. Fa morir più
d’uno di gelosia, ma anch’ella sente il morso della velenosa passione:
rimprovera a un infedele di _limar versi_ in lode di altra donna[521],
e contro questa, o contro altra rivale, compone una _elegia_, che, per
rispetto di un protettor di colei, non vuol far pubblica[522]. Accusata
da un amante, lo accusa a sua volta, e lo sfida a qual gara gli piaccia
meglio, o di armi, o d’amore[523].
Certo, gli è impossibile sceverare in tutto ciò il vero dal falso e la
finzione interessata dalla finzione meramente poetica. In quel secolo
uomini e donne dovevano, per legge comune di cortigianesca eleganza,
spasimare, o fingere di spasimare d’amore. Ma i numerosi amori in cui
la Veronica si dice invescata, o in cui mostra invescati gli altri,
sono, nella varietà dell’indole loro e del grado, tutti verosimili, e
parecchi sono più che probabili. E se i più non si lasciarono dietro
se non rime querule e sospirose, alcuni lasciarono ben altro. La
Veronica stessa ebbe a confessare nel 1580, davanti al Tribunale del
Sant’Uffizio (vedremo or ora in quale occasione) d’aver partorito
sei volte, e nel 1580 ella non aveva più di trentaquattro anni. Sin
dal 1564, come s’è visto, un messer Jacopo de’ Baballi l’aveva resa
madre, a quanto ella credeva, senza però potersene tenere in tutto
sicura[524]. Un altro figliuolo ebbe con Andrea Tron, gentiluomo[525],
e un terzo con Guido Antonio Pizzamano, uomo ammogliato, che teneva
l’officio di Ragionato degli Avvogadori Fiscali, e che fu processato
nel 1572 dal Sant’Uffizio, perchè, d’accordo con la moglie, teneva
in casa per concubina una monaca, Camilla Rota, fuggita dal monastero
dello Spirito Santo. Degli altri tre figliuoli, e dei possibili padri
loro, non sappiamo nulla, e forse, per quanto spetta ai padri, non ne
sapeva nulla nemmeno la Veronica[526]. Dice pure di lei uno dei soliti
ammiratori che
dovunque saettando colse
Col doppio sol di quei celesti lumi,
A sè gran copia d’amadori accolse[527].
Alcun altro di questi innumerevoli ci capiterà quanto prima dinanzi.

III.
La Veronica aveva, in Venezia e fuori di Venezia, molti amici, e
sapeva tenerseli cari. Scriveva loro frequenti lettere, e di quelle che
riceveva da loro mostrava grande allegrezza, lagnandosi, s’erano troppo
rade, o troppo brevi. Lodava chi le pareva meritevole di lode[528],
rimproverava chi le pareva avesse meritato rimprovero[529]; confortava
con buone parole gli ammalati e gli afflitti[530]; chiedeva ajuto e
favore nei bisogni proprii o di altri[531], ma si offeriva pure assai
volentieri per quanto era da lei; anzi si doleva di chi non si prendeva
con lei quella sicurtà che l’amicizia consente[532]. In una di quelle
sue lettere ringrazia un amico d’aver beneficato, dietro raccomandazion
sua, un pover uomo che aveva moglie e _tre creaturine_[533]. Mandava
agli amici i suoi componimenti, e riceveva i loro[534]. Assicurava
molti dell’amor suo; diceva di ricordarsi sempre di loro, e così
li pregava di volersi ricordare di lei: se lontani, diceva di nulla
desiderare così vivamente come di rivederli.
Tra gli amici sembra contasse anche qualche amica, e non certo della
sua condizione. La lettera terza è a una _signora illustre_, la quale,
potendo _comandare_ alla Veronica, l’aveva pregata di non sappiamo qual
servigio o favore. La XVI è scritta a una gentildonna, i cui _grandi
avoli_ avevano acquistato fama con _atti egregi_. La Veronica si
congratula con lei che felicemente ha partorito un bel maschio, e alla
madre, al padre, al bambino fa gli augurii più lieti.
Gli amici, generalmente parlando, le si addimostravano affezionati
e premurosi: la consolavano nelle sue afflizioni, l’ajutavano nei
bisogni, la invitavano ad andarli a trovare in villa[535], e le
scrivevano lettere cortesi ed amorevoli, di cui ella ringraziava con
effusione[536]. Bartolomeo Zacco, padovano, chiedeva in un sonetto
alla Veronica, _Donna cortese_, di onorare col suo dire una figliuola
ch’egli aveva perduta, e la Veronica gli rispondeva con un sonetto
per le rime. Ma non tutti erano così garbati con lei, e la lettera
dodicesima lo prova. Saputo che le frequenti e lunghe sue lettere erano
_di molestia più tosto che di ricreazione_ a un amico, ella, confusa
ed afflitta, scrive: «di niun altro contrario, e nojoso accidente non
avrei di lungo spazio sentito il dolor, ch’io provo nel vedermi così
improvvisamente abbandonata dalla vostra grazia: pur m’acqueterò, per
non dispiacervi, al voler vostro, e cercherò d’emendar il non prima
conosciuto errore dell’aver scritto spesso e lungo, con l’esser breve
e rara in questo officio, sì come nell’opra della riverenza, e della
grata memoria sarò profonda ed infinita». E in questa cosa della
grata memoria forse diceva vero, perchè anche di altri amici ebbe a
ricordarsi a lungo e con affetto.
Tra i molti ch’ella aveva ce n’erano alcuni di gran nome e di gran
recapito, i quali meglio che amici si direbbero protettori: tali erano
il Duca di Mantova, Guglielmo, e il cardinal d’Este, Luigi, figlio
d’Ercole II e di Renata di Francia, fratello di Alfonso II, di Lucrezia
e d’Eleonora. La Veronica dedicò, siccome abbiam veduto, le sue _Terze
Rime_ al serenissimo signor Duca. Non sappiamo qual fosse, o qual
fosse stata in passato, la relazione tra lui e lei: qualche plausibile
congettura in proposito si potrebbe fare, ma senza gran pro. Nella
dedicatoria la Veronica è assai riservata: dice di non essersi potuta
astenere dal mandargli i suoi versi, per dare al _discreto giudizio_
di esso signor Duca _alcun leggier gusto della bassa musa_ di lei,
e, insieme, un picciol pegno della _sviscerata osservanza_ e della
_umilissima servitù_ ond’ella è a lui legata _di perpetuo indissolubil
nodo_. La sua pochezza le sia scusa se ella non ardisce _por bocca nel
cielo dell’inestimabil valore_ del serenissimo signor Duca. Il libro
gli manda per mezzo di un suo _ancor fanciullo figliuolo, il quale
nel volto, e negli atti, e in ogni guisa d’inchinevole riverenza_,
esprimerà il _medesimo core_ di lei nella _serenissima presenza_ di
lui. Certamente il Duca ebbe ad accogliere assai graziosamente il dono
e chi gliel recava[537].
Al cardinale d’Este son dedicate le lettere. La Veronica fa
dell’eminentissimo cardinale sperticatissime lodi, magnifica il
_lume_ di quella _gloriosa virtù_, esalta la _incredibile cortesia_
e la _sopra umana gentilezza_, s’inginocchia davanti alla _divinità
del cospetto_ e alla _divina umanità_ di sì _celebrato_ ministro del
cielo. Ella, _nel concorso di molti uomini famosi di dottrina, che
del continuo indrizzano a lui opere maravigliose di scienzia e di
elegantissimi studii_, non dubita, sebbene _donna inesperta delle
discipline, e povera d’invenzione e di lingua_, di dedicargli un
volume di _lettere giovenili_, serbando _a tempo di maggior occasione,
e di più prospera fortuna, e di più essercitato stile_, di dargli
altra _recognizione_ d’osservanza e d’animo devoto. Mi duole di non
sapere che cosa rispondesse l’eminentissimo cardinale a lettera così
ossequiosa ed amabile.
La Veronica bramava assai e si rallegrava di poter godere del
_colloquio soavissimo_ de’ suoi amici migliori[538], i quali erano
letterati la più parte, e volentieri bazzicavano con le muse. Uno dei
maggiori era Domenico Veniero, i cui versi a noi ora non pajono più
gran cosa, ma che a’ suoi tempi fu tenuto universalmente un miracolo
d’ingegno, un oracolo di sapere, un modello insuperabile di eleganza.
Colpito, in età ancor giovine, da una crudele infermità che gli tolse
per sempre l’uso delle gambe, l’unica sua consolazione trovava nei
libri, nel comporre, e nella conversazione degli uomini dotti. Il suo
palazzo diventò albergo di genialissimi ritrovi, ai quali accorrevano,
non solo quanti erano letterati e uomini cospiqui in Venezia, ma
quanti ancora, di qualche riputazione, ne venivan di fuori. Tra gli
infiniti che li frequentarono si ricordano Federigo Badoaro, Girolamo
Molino, Jacopo Zane, Giorgio Gradenigo, Celio Magno, Bernardo Tasso,
Dionigi Atanagi, Sperone Speroni, Girolamo Ruscelli, Girolamo Muzio,
Anton Giacomo Corso, Giovan Battista Amalteo, e Paolo Manuzio, e
Girolamo Parabosco, e altri e altri[539]. Ora, a questi ritrovi, nei
quali si ragionava di poesia, di filosofia e di ogni cosa che potesse
dar grato pascolo a nobili intelletti, e ai quali crescevano diletto
frequenti accademie musicali e sollazzi di più maniere, ebbe ad esser
presente assai volte la Veronica. Due capitoli, il XV e il XVIII, e
parecchie lettere di lei, sono indubitabilmente indirizzati a Domenico
Veniero, come si ricava da alcuni significantissimi accenni, e sebbene
non rechino nome alcuno. Nella lettera XLV, ella, che con un _ago
da treccia_ s’era ferita malamente un ginocchio, gli chiede _una di
quelle sue sedie da stroppiato_. Nella XLIX lo dice _il più bello,
ed il più risplendente lume, che tra molte scienzie oggi dì si vegga
nella professione delle lettere gentili_. Nel capitolo XV accenna a un
_ridutto_, a una _scola_, a un
celebre concorso
D’uomini dotti, e di giudicio eletto,
e si scusa d’aver lasciato passar molti giorni senza andare a far
riverenza a colui che, _infermo in letto_, aveva intorno a sè quel
celebre concorso. Perdutamente innamorata, divisa da colui che ama,
scoraggita e mesta, ella non aveva ardito mostrarsi; ma promette di
lasciare alla prima occasione ogni altra cura per riparare al suo
mancamento.
La Veronica approfittava della benevolenza del Veniero per farsi
rivedere da lui, e all’occorrenza correggere, le prose e i versi[540].
Nella lettera XL dice: «subito ch’io sia spedita dalle composizioni
ch’io faccio, verrò alla censura, ed al giudizio di lei, e continuerò,
senza interrompimento di cosa che succeda, a servirla presenzialmente».
Un po’ più oltre parla della _deliziosa compagnia_ e della _beata
contemplazione_ ond’ella gode: molte volte, senza dubbio, il patrizio
avrà corrette le prose e le rime della cortigiana sotto gli occhi
stessi di lei, e discutendo con lei le ragioni e le regole dell’arte.
Nè della correzione la Veronica aveva da vergognarsi. Era usanza dei
letterati in quel secolo sottoporre le proprie scritture, prima di
farle pubbliche, al giudizio di uomini famosi per dottrina e buon
gusto, ricercare di costoro i consigli, non isdegnare le correzioni.
Il desiderio di toccare la perfezione, ch’era vivissimo in molti,
e lo spirito di adulazione, ch’era vivissimo in più, persuadevano
tale usanza. Per non ricordare altri esempii, chè innumerevoli se
ne potrebbero ricordare, allo stesso Domenico Veniero sottoposero i
loro versi Girolamo Fenaruolo, Jacopo Zane, Bernardino Rota, Luigi
Grato, Giuliano Goselini ed altri assai. Persino Torquato Tasso ebbe a
giovarsi de’ suoi consigli e de’ suoi suggerimenti. Domenico Veniero
non era, del resto, il solo consigliere letterario della Veronica:
tale officio avevano anche altri, e fra questi altri troviamo un
ecclesiastico. A lui è scritta la lettera sesta. La Veronica gli manda
stampata una di quelle _operine di che_, ella dice, _V. S. mi fece il
favore ch’ella sa_, e promette di dargli altre cose sue da leggere.
Questa lettera è curiosa anche per altre cose che vi son dette. La
Veronica si loda molto d’aver conosciuto un uomo di tanta dottrina e
virtù, e parla della _interna edificazione_ onde l’ha riempiuta il
suo esempio. Le duole che il suo vivere, _intricato negli errori,
e macchiato nel fango mondano_, gli sia cagion di molestia e di
rincrescimento; ma nota che i peccati di lei possono essere occasione
all’esercizio delle virtù di lui. Lo prega d’intercedere per lei, e di
ottenere perdono dal cielo ai suoi _tanti e così indegni falli_.
La Veronica era, in Venezia, almeno, in buon concetto di letterata, e
trattava i letterati da pari a pari. Volentieri si faceva conoscere
a quelli che venivan di fuori, e volentieri, a richiesta altrui,
prestava l’opera sua letteraria. Al Montaigne, capitato in Venezia
nel 1580, ella mandò a regalare una copia delle sue lettere, ed egli
diede al latore due scudi di mancia. Venuta fuori la _Semiramide_,
tragedia di Muzio Manfredi, ella assai la lodò in un sonetto, che fece
recapitare all’autore. Il Manfredi era allora in Francia, ai servigi
di una duchessa di Brunswick, e rispose con la seguente lettera,
scritta da Nancy il 30 di ottobre del 1591, quando la povera Veronica
era già morta da più di tre mesi: «Il bellissimo sonetto, che V. S.
mi ha mandato in laude della mia _Semiramis_ tragedia, mostra con la
sua rarità, la divinità dell’ingegno vostro, e la forza dell’amore
che sempre ho conosciuto in voi verso me, poi che in esso tanto
mi onorate, e con tale spirito di sapere, e d’arte, che io ne sono
rimaso, non pure pieno di maraviglia, ma di stupore. Poi l’avere V. S.
trovato modo di mandarlomi fin qua, mi ha chiarito ch’ella in essere
cortese ha pochi pari. La ringrazio ora con questa mia quanto più
posso; ma fra poco le darò in altro stile, tal segno di gratitudine,
che in tutto non rimarrò vinto di cortesia, e le priego sanità ed
ozio da dar l’ultima mano al suo poema epico»[541]. Come ho già detto
innanzi, Bartolomeo Zacco pregava la Veronica di voler _onorare_ con
alcuno scritto suo la figliuola ch’egli aveva perduta. Morto nel 1575
e nel fior degli anni Estor Martinengo, conte di Malpaga, il quale
nel 1572 era stato capitano di fanti al servigio della Repubblica,
il colonnello Francesco, fratello di lui, richiese la Veronica di
volere onorare la memoria dell’estinto con una raccolta di versi suoi
e di altri, come allora si usava. La Veronica si accinse all’opera,
e sollecitò i letterati amici suoi, pregandoli di sollecitare a lor
volta i letterati amici loro. Con la lettera XXXIX eccitava un amico
a _impiegar l’opra de’ suoi delicatissimi studii_ in alcuni sonetti.
Diceva d’essere richiesta, da persona che le poteva comandare, di
comporre sopra quella materia, e far comporre tutti gli _amici e
signori_ suoi. Con la lettera XXII ne pregava un altro di volere
scrivere e di fare scrivere a quei suoi Academici. La lettera XL tratta
dello stesso argomento. Finalmente la raccolta venne fuori, composta di
ventisei sonetti, preceduti da una lettera della Veronica al colonnello
Francesco[542]. Gli autori dei sonetti sono, oltre alla Veronica, che
ce ne mise nove, un chiarissimo signor D. V. (Domenico Veniero, senza
dubbio), Marco Veniero, Orsato Giustiniani, Bartolomeo Zacco, Celio
Magno, Andrea Menichini, Marco Stecchini, Orazio Toscanella, Giovanni
Scrittore, Antonio Cavassico. La Veronica dava anche versi a raccolte
fatte da altri: un suo sonetto si legge fra varie composizioni poetiche
pubblicate in Padova, nel 1575, da Giovanni Fratta, gentiluomo veronese
ed Accademico Anonimo, per celebrare il felice dottorato dell’_illustre
ed eccelentissimo_ signor Giuseppe Spinelli.
Abbiam veduto che gli amici assenti da Venezia invitavano la Veronica
ad andarli a trovare in villa: ella talvolta si scusava di non
potervi andare; tal altra vi andava, e passava alcuni giorni in loro
compagnia. Così fu che, non sappiamo in qual anno, si recò a Fumane,
presso Verona, nella principesca villa del conte Marc’Antonio della
Torre, e vi fece breve soggiorno. Il conte Marc’Antonio, della illustre
famiglia che aveva un tempo signoreggiata Verona, era, sino dal 1563,
preposto della cattedrale di quella città, e aveva inoltre l’officio
di Referendario dell’una e dell’altra segnatura. Più volte, e in più
luoghi, il papa l’aveva mandato suo commissario, e la Veronica afferma
ch’egli era
Degno di mille mitre e mille imperi,
seguita, o preceduta in così fatto giudizio da Adriano Valermi,
oscuro poeta veronese, il quale, traendo da quel nome di Della Torre
argomento (come a lui sembrava) d’ingegnoso e felice bisticcio, diceva
all’illustrissimo signor preposto ch’egli era tanto amico e caro a
Dio quanto già era stata nemica e odiosa la torre di Babele. La villa
di Fumane, di cui qualche avanzo sussiste ancora, era, a dir del
Panvinio[543], la più magnifica di quante se ne vedessero nell’agro
veronese, e certo una delle più famose d’Italia, degna senza dubbio
d’essere commendata e ammirata da un Leon Battista Alberti, da un
Sebastiano Serlio, e da quanti scrittori ed artisti del Rinascimento
diedero ammaestramenti e norme circa il costruire e ordinar ville. La
Veronica v’andò, tratta, così ella dice, dal desiderio di vedere quel
_Signor cortese e saggio_,
Che regge ’l mio voler con le sue ciglia,
e tanto contenta rimase delle accoglienze avute e della incomparabile
bellezza del luogo, che ne tolse argomento a un capitolo fervido di
entusiasmo, e di quanti ne compose il più lungo[544]. V’andò senza mai
interrompere il viaggio, sebbene la via fosse pessima, ed ella avesse,
partendo da Venezia, l’anima conturbata da non sappiamo quali molestie.
Al fin pur giunsi a la bramata stanza,
Nè potrei giamai dir sì come io fossi
Raccolta con gratissima sembianza.
A sì dolce spettacolo rimossi
Tutti i miei gravi e torbidi pensieri,
Che venner meco allor che d’Adria mossi.
E tra mille dolcissimi piaceri
Ristoro presi, e mi riconfortai,
Qual fa chi il suo ben gode e ’l meglio speri.
E la Veronica ci descrive in versi pieni di ammirazione, e spesso
felici, il luogo incantevole, di cui ebbe tanto a lodarsi: in prima
le ubertose colline che fan corona alla valle rotonda; un bosco di
cipressi e di pini,
Pien d’ombre amiche al dì lungo e fervente;
le acque cristalline che zampillano e corrono per ogni banda; il
giardino meraviglioso, dove l’arte gareggia con la natura; poi il
palazzo principesco, il quale sorge _alquanto rilevato_, e adorno di
tanta bellezza e tanta magnificenza, che non ha l’eguale, se non quello
del Sole, celebrato dai poeti; il palazzo signorile del Rinascimento,
a cui tutte le arti hanno dato l’opera loro e i loro splendori, pieno
d’ogni ricchezza e d’ogni eleganza.
I fini marmi e i porfidi lucenti,
Cornici, archi, colonne, intagli e fregi.
Figure, prospettive, ori ed argenti,
Quivi son di tal sorte e di tai pregi,
Ch’a tal grado non giungono i palagi
Che fer gli antichi imperadori e regi.
Ma le comodità di dentro e gli agi
Son così molli che gli altrui diletti
Al par di questi sembrano disagi.
Per li celati d’or vaghi ricetti,
Sul pavimento che qual gemma splende,
Stan sopra aurati piè candidi letti.
Di sopra da ciascun d’intorno pende
Di varia seta e d’or porpora intesta,
Che ’l contegno de’ letti abbraccia e prende.
Di coltre ricamata, o d’altra vesta,
Di ricca tela ognun s’adorna e copre,
Sì ch’a fornirla ben nulla gli resta.
Poi _diversi disegni e diverse opre_ su cortine, su tappeti, su arazzi,
_in tutti i lati_. Un’arte miracolosa ha chiamato a nuova vita su
quelle pareti, su quelle vôlte, le antiche divinità innamorate, ha
rievocato le più leggiadre tra le fantasie elleniche: Giove che in
pioggia d’oro scende nel grembo a Danae, Io trasformata in giovenca,
l’aquila che rapisce Ganimede. Altre pitture, da altro pensiero
inspirate, mostrano i ritratti di tutti i pontefici, e d’infiniti
cardinali e prelati che
in noi pensieri
Destano de le cose più eccellenti.
Nel beato soggiorno è ogni diletto, e liberamente attende ogni persona
a quello spasso che più gli va a genio: chi va a caccia, chi bada a
pescare, chi si sta senza far nulla, sedendo al rezzo.
Nel capitolo XI è cenno di una andata della nostra poetessa a Verona,
a mezzo il verno, e di un _ricetto_ che ella bea di sua presenza, _per
destin felice d’un altro amante_: non è improbabile che quest’altro
amante fosse lo stesso Marc’Antonio della Torre[545].
Ma per quanto liete ed affettuose fossero le accoglienze degli amici,
per quanto amene e sontuose le ville loro, la Veronica preferiva ad
ogni altro soggiorno quello della sua Venezia. Quando,
Per fortuna nojosa e violenta,
ella n’era da alcun tempo lontana, non aveva pace e contava l’ore che
mancavano ancora al ritorno. Rivedeva, nell’accesa fantasia, i palazzi
marmorei, ricchi di fregi più simili a lavoro d’ago che di scalpello,
specchiarsi nei mille canali con cui la laguna sembra che allacci a sè
l’alma cittade
Del mar reina, in mezzo ’l mar assisa;
la città ricca di quanta ricchezza e di quanti beni il mondo produce,
Sì ch’eterna abondanzia la circonda,
E di tutti i paesi fruttuosi
Più ricca è d’Adria l’arenosa sponda.
Ed in qual parte del mondo s’ama come s’ama in Venezia?
Il mar e ’l lito quivi arde e sfavilla
D’amor, che tra nereidi e semidei,
Quell’acque salse di dolcezza instilla.
Venere in cerchio ancor de gli altri dei
Scende dal ciel su questa bella riva,
Con l’alme grazie in compagnia di lei.
Il ricordo di Venezia, della patria sua _celebre e magna_, le faceva
odiare i campi[546]. Non contenta d’innalzar ella Venezia sopra le
città tutte, voleva che anche gli amanti suoi la lodassero[547]; era
lieta che altri desse l’opera sua alla città regina[548], e consolando
un tale di non so che avversità, gli ricordava avere egli avuta la
grandissima ventura di nascere in Venezia[549].
E in Venezia aveva la Veronica tutti i suoi piaceri e tutti i suoi
comodi. Non solo frequentava i ritrovi degli amici, ma ne teneva ella
pure in sua casa, e quali spassi vi usassero e come ci si spendessero
l’ore, in parte sappiamo da lei medesima, in parte possiamo immaginare.
La musica vi teneva grande luogo. Con la lettera nona la Veronica
chiede in prestito a un amico uno strumento a corda, e lui stesso prega
di voler venire il giorno seguente in casa sua, alle _venti ore, in
occasione_, dice, _ch’io faccio musica_[550]. Il repertorio musicale
era allora assai copioso: i madrigali, le villanelle, le mattinate, le
disperate, gli strambotti, le napolitane, le siciliane, intonate da
maestri valenti, fioccavano, più che altrove, in Venezia, e le nuove
e belle acquistavano gran voga e si ripetevano da tutti[551]. Molte
di certo ne avrà conosciute la Veronica, e quando, lasciati in riposo
gli strumenti musicali, si dava corso ai ragionamenti e al novellare,
possiam credere che tanto ella, quanto gli amici suoi, recassero
volentieri in mezzo certi indovinelli, certi passerotti un po’ liberi,
come piacevano al secolo, certe poesie allegre, e certe storie e
fanfaluche da far ridere, come _el lamento de Cosin,_ e la _Vita de
l’omo pizinin_, la fiaba dei Buraneli, quella di Comare Oca, quella
dell’Uccel Bel Verde, e altre ricordate dal Calmo, alternandole con
varii giuochi, ch’erano allora in uso[552], e con le danze più in voga.
La Veronica conosceva inoltre, e giustamente apprezzava il piacere che
si prova a stare a tavola, in compagnia di amici alla buona, senza
soggezione, entro una camera ben chiusa e ben calda, quando fuori
imperversa l’inverno. Invitando un amico, e pregandolo di condurne seco
un altro, ella dice: Il tempo è piovoso, e _invita ogni buona persona
a provedersi di dolce trattenimento al coperto ed al fuoco, almeno
fino a sera_. Il desinare sarà _sine fuco et ceremoniis, more majorum;
e se vorrete,_ dice, _aggiungervi un fiaschino di quella vostra buona
malvasia, di tanto mi contento, e di più non vi condanno_[553]. Altri
spassi non mancavano fuori di casa, secondo i tempi, come l’andare in
gondola a diporto, pescare e uccellare in laguna, visitare i giardini,
assistere alla rappresentazione delle commedie e ai giuochi varii che
si facevano continuamente in città[554].
Della casa sua, e della masserizia che aveva, la Veronica non
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