Attraverso il Cinquecento - 03

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stare; ci saran bene di quegli che lo impareranno a mente per cantarlo
su la cetera, con far le serenate alla druda»[52]. E intende parlare
di Serafino Aquilano; ma chi si vuol persuadere che anche in ciò il
primato spettava al Petrarca, legga ciò che Luigi Groto narra della sua
concittadina Alessandra Lardi, cantatrice insuperabile e divina (morta
nel 1568), la quale cantando rime del poeta intonate da Francesco
Adriani, rapiva, ammaliava, faceva andare in visibilio la gente[53].
E un’altr’arte s’inspirava dal sommo poeta, la pittura. Si
moltiplicarono in quel secolo i ritratti fatti per mano di dipintori
famosi, e Raffaello ne introduceva la immagine nel suo Monte Parnaso,
e in un suo quadro la introduceva il Vasari. Perin del Vaga ritraeva
la scena della incoronazione in Campidoglio; altri dipinsero il poeta
insieme con l’amata sua donna. Assai probabilmente Raffaello trasse dai
due Trionfi della Fama e dell’Amore l’idea della Scuola d’Atene e del
Monte Parnaso: altri i Trionfi tutti, o alcuni di essi riprodussero col
pennello. A vie più glorificare il poeta gareggiavano con la pittura
l’altre arti sorelle, la scultura e la incisione.
Primo in tante cose, il Petrarca diventa primo in tutte: nel medio evo
si sarebbe fatto senza dubbio di lui un taumaturgo, di lui che ebbe
pure a sostenere un’accusa di magia. Perciò non istupiremo, udendo
dire al Bembo che il Petrarca piaceva oltre modo, non solamente a
coloro che di proposito attendevano a poesia, ma anche a coloro _che
a tutte le altre arti più si danno o sonosi dati che a questa_[54].
Sperone Speroni loda molto l’onestà del Petrarca, e dice che dell’amore
egli fece scala al cielo, e che è da tenere non meno per predicatore
che per poeta[55]. Pare che il buono Speroni, facendo allora officio
di avvocato, non si ricordasse, o non volesse ricordarsi di certe
taccherelle che, senza troppo frugare, si possono trovare in dosso
anche al poeta canonico. Di uno scrittore così costumato e virtuoso non
potevano non occuparsi coloro che attendevano a dare ammaestramenti
e norme circa la educazione, e Lodovico Dolce, parlando nel _Dialogo
della instituzione delle donne_[56], per bocca di un certo Flaminio,
dei libri volgari che una fanciulla può leggere, esce in queste parole:
«Tra quelli, che si debbono fuggire, le novelle del Boccaccio terranno
il primo luogo, e tra quelli, che meritano esser letti, saranno i primi
il Petrarca e Dante. Nell’uno troveranno, insieme con le bellezze
della volgar poesia, e della lingua toscana, esempio di onestissimo
e castissimo amore, e nell’altro un eccellente ritratto di tutta la
filosofia cristiana». E più oltre[57] la Dorotea, con cui quel Flaminio
ragiona, dice appunto di aver letto più volte il Petrarca; mentre
non dice altrettanto di Dante. Non so poi se il Dolce facesse qualche
riserva per certi luoghi del _Canzoniere_ che diedero molto da meditare
a espositori e commentatori, quale, per citarne uno, è quello ove
occorrono i notissimi versi:
Con lei foss’io da che si parte il sole,
E non ci vedess’altri che le stelle.
Solo una notte, e mai non fusse l’alba.
Qualcuno in sì fatto argomento l’avrà certo pensata diversamente
da lui. Lodovico Vives, che raccomanda alle donne la lettura delle
opere di san Gerolamo, di sant’Agostino, di sant’Ambrogio, e di altri
padri e dottori della Chiesa, e quella pure degli scritti di alcuni
gentili, come Platone, Cicerone, Seneca[58], proibisce severamente
il _Decamerone_, e non dice una parola in favor del Petrarca; si
capisce che non doveva averlo in grazia[59]. Ma Lodovico Vives
non era italiano. In Italia non solo si raccomandava, dagli uomini
colti, la lettura del Petrarca, ma il Petrarca stesso era ancora
molto di frequente allegato, come autorità di prim’ordine, in certe
disputazioni. Ricorda il Bandello[60] che, parlandosi in presenza
d’Ippolita Sforza, dei costumi delle donne, alcuni che affermavano
non aver queste pregio maggiore della onestà, citarono il sonetto del
Petrarca:
Cara la vita, e dopo lei mi pare ecc.;
e più raccolte si fecero allora dei _versi morali_, delle _sentenze_,
delle _comparazioni_ e dei _proverbii_ di lui.
Giovanni Boccaccio aveva profetato che il sepolcro del Petrarca
diventerebbe famoso al pari di quello di Virgilio, e che da tutte le
parti del mondo vi trarrebbero le genti in pellegrinaggio. E così
avvenne in fatto. Arquà, dove il poeta era morto, e dove, prossima
all’arca che racchiudeva le spoglie di lui, sorgeva la casa in cui egli
aveva passati gli ultimi anni di sua vita, diventò nel Cinquecento
una specie di san Giacomo di Compostella letterario e laico. I varii
e successivi possessori della modesta quanto famosa casetta, non solo
non ne contesero mai l’accesso a nessuno, ma si adoperarono per dare
ai pietosi visitatori ogni possibile soddisfazione; e forse al troppo
zelo di alcuno di essi si deve l’una o l’altra delle cose stimate del
Petrarca che ancor vi si vedono, lo stipo, la scranna, la gloriosa
gatta. In un breve capitolo in lode del poeta, capitolo attribuito da
alcuni al Doni, da altri al Sansovino o all’Anguillara, si legge:
Mi dite che in Arquato è una bell’arca,
Lontan da Padoa circa dieci miglia,
Dove son Tossa del Toscan Petrarca.
Che ’l luogo ad un Parnaso s’assomiglia.
E d’Italia non pur gente vi corre,
Ma di Francia, Lamagna e di Castiglia.
Che peccato che non ci sia rimasto di quel tempo, come ci è di
tempi più prossimi a noi, un libro dove fossero raccolti i nomi dei
visitatori, e i pensieri che suggeriva loro la vista di quelle sacre
mura! Chi sa quali curiose sorprese ci avrebbe serbate e quante utili
notizie.
Un’altra e capitale testimonianza del culto reso al Petrarca noi
l’abbiamo dunque nei pellegrinaggi che si facevano ad Arquà. Non
ispiacerà pertanto al lettore se io mi soffermo un poco sopra di ciò,
e se, traendo argomento da una, gli mostro quali dovevano essere
in genere quelle visite. Il libro d’onde traggo l’esempio è _Il
Petrarchista_, dialogo di Ercole Giovannini, poeta bernesco morto
nel 1591. L’autore narra di un nobil giovane bolognese, per nome
Claudio Gozzadini, il quale, desideroso di veder cose nuove, lasciata
Bologna, capita in Padova, e di quivi, _per non mancare a se stesso di
tanta conoscenza_, si reca a visitare Arquà. Giuntovi, vede per prima
cosa il sepolcro del poeta, eretto da Francesco da Brossano, e ne fa
prendere esatta misura al servitore. Sopraggiunge intanto un valentuomo
d’Arquà, il signor Paolo Valabio, il quale, accontatosi col bolognese,
lo invita a casa sua, e poi gli fa da cicerone, e gli mostra una per
una tutte quelle meraviglie. Mentre s’avviano alla casa del poeta,
vedono entrarvi un drappello di gentildonne, tratte dalla medesima
curiosità. Il Valabio mostra e descrive all’ospite suo ogni parte della
illustre dimora: ecco le porte, ecco il frantojo e la legnaja, e qui
la scala di pietre cotte che scende in cantina, e là un camerino. Dal
lato destro è la cucina, di contro una camera, poi altre camere, donde
si passa in una sala comoda, dove sono parecchie pitture, le quali
mostrano il Petrarca e Laura che discorrono insieme. Questa è quella
meravigliosa credenza, di stupendo lavoro, che si dice essere stata del
poeta. Viene appresso la stanza dove il poeta stava ordinariamente,
e dove morì. Entrato in luogo di tanta santità, il signor Gozzadini
non può più frenare l’entusiasmo che gli gonfia lo spirito, e prorompe
in quest’apostrofe un po’ da secentista, ma che doveva riprodurre su
per giù i pensieri e i sentimenti della più parte dei visitatori:
«O luogo felice, e degno d’esser smaltato di zaffiri, e delle più
preziose pietre che mai dall’Oriente uscirono. Felice piano, che hai
sostenuto le piante di così onorato colosso di virtù, gloriose mura
che difendeste per tanti mesi dai contrarii accidenti dell’aria quelle
membra, che in terra da tanti si facevan con stupore onorare e riverire
amorosamente. Glorioso coperchio, che fosti cielo a colui che in terra
fu stimato oracolo dei letterati».
In questa felicissima stanza il buon bolognese vede, sopra il camino,
le ossa di quella che fu gatta del Petrarca, e legge i versi latini
che in onor di lei aveva composti il padovano Antonio Querenghi
(1546-1633), discepolo di Sperone Speroni, segretario in Roma del
collegio dei cardinali e referendario delle due segnature, poeta e
prosatore latino di molto grido, _uom principale_ in varie lingue, come
afferma il Tassoni, e che
... tutto a mente avea sant’Agostino[61].
In quegli eleganti distici parla la gatta stessa, e nel primo non si
perita di dire che il Petrarca ebbe due amori, il primo lei, il secondo
Laura, e asserisce poi che a lei si deve se le rime composte in onore
di Laura non furono preda dei topi. Questa gatta dabbene dovette avere
altri lodatori, giacchè il Tassoni, ricordato Arquà, ricordato il
Petrarca, dice di lei che
in secca spoglia
Guarda dai topi ancor la dotta soglia;
e soggiunge:
A questa Apollo già fe’ privilegi,
Che rimanesse incontro al tempo intatta,
E che la fama sua con vari fregi
Eterna fosse in mille carmi fatta:
Onde i sepolcri de’ superbi regi
Vince di gloria un’insepolta gatta[62].
E certo, oltre ai regi, questa vince tutte le altre gatte che furono,
e le celebrate da Ortensio Lando e dal Coppetta, e persin quella
Rosa trucidata da un furioso soldato, la quale allo Stoppino, suo
inconsolabile signore, inspirò quei versi maccheronici sì, ma pieni di
tenerezza:
Sola meae giornos vitae rendebat allegros.
Heu! quid agam infelix, sine te, mea Rosa, quod ultra?
Non potero sine te laetum sperare solazzum.
Dopo la gatta il signor Claudio ammira la sedia del poeta, e sebbene
gli paja povera cosa, e troppo indegna di tanto possessore, pure
ne toglie, a mo’ di reliquia, un pezzetto di certo arazzo che la
copriva; d’onde si vede che i ricercatori di curiosità furono e
saranno in ogni tempo gli stessi: più oltre misura la tavola dello
studio, meravigliandosi che tant’uomo potesse capire in sì picciola
stanza. Girata la casa, il signor Paolo mostra al signor Claudio il
maggior tesoro che sia in quella, cioè molte scritture di mano dello
stesso Petrarca, e lettere di lui a Laura e di Laura a lui, _cose vie
più ricche delli tesori di Creso_, e in una scatola d’ebano, aghi e
spilli, un ditale, un pettine, un pezzo di specchio, tutte reliquie di
Madonna Laura, e in una borsa di damasco verde il _privilegio_ della
incoronazione in bellissima pergamena, e il preteso racconto di essa
incoronazione scritto da Sennuccio Del Bene. Il signor Claudio vede,
tocca, legge, ragiona, ammira, si esalta in se stesso della fortuna
toccatagli e ringrazia quanto più può il cortesissimo signor Paolo.
Visitatori così fatti dovevano essere assai numerosi, e ve ne dovevano
capitar di fanatici, i quali non sempre si saran contentati, come
il signor Claudio, di un pezzettino di arazzo logoro. Anzi io mi
meraviglio che solamente nel secolo XVII, e non prima, si sia trovato
un arrabbiato come quel frate Tommaso Martinelli, che osò rompere
l’arca dentro cui riposava il corpo del poeta, e levarne un braccio
che non si sa dove sia andato a finire. Da altra banda pellegrinaggi
si facevano anche a Valchiusa e alla pretesa tomba di Laura, e con
che anima si facessero dagli adoratori del Petrarca, e che cosa
si ammirasse da loro, dice satireggiando Niccolò Franco nel suo
_Petrarchista_. Tra i visitatori illustri del sepolcro di Laura si
dice sia stato anche Francesco I, il quale compose per la gloriosa
donna un elegante epitafio. Un altro epitafio componeva per lei Giulio
Camillo Delminio, il ciarlatanesco inventore del _Teatro_ in cui si
apprendevano tutte le scienze e tutte le arti.
L’universalità e la vivezza del culto reso durante tutto il Cinquecento
al Petrarca ci prova che noi non abbiam qui dinanzi un fatto
accidentale, una voga capricciosa, o l’effetto di una particolare
oppressione esercitata dal di fuori sopra lo spirito degli italiani. Il
petrarchismo non è una anomalia nella vita e nella coltura del secolo
XVI, ma è un portato del Rinascimento. Non di tutto il Rinascimento,
intendiamoci; perchè lo spirito del Rinascimento stesso è formato
d’ideali e di tendenze molteplici, il più delle volte cospiranti
insieme, ma spesso ancora contrastanti fra loro. Non si dimentichi
che in ogni condizione di vita sociale il moto delle idee si fa di
azione e di reazione. Il petrarchismo vien fuori da quelle tendenze
del Rinascimento che ho enumerate di sopra: da cert’altre tendenze,
disformi o contrarie, vien fuori l’antipetrarchismo. E di questo mi
rimane ora a parlare.


PARTE SECONDA
ANTIPETRARCHISMO

L’antipetrarchismo, in parte è semplice resistenza ed opposizione
all’andazzo comune; in parte è espressione di concetti e d’ideali nuovi
nella vita e nell’arte.
Certo, i petrarchisti eran falange, gli antipetrarchisti manipolo, e
per giunta, quelli si coprivano dell’autorità di un gran nome, cosa che
in ogni tempo bastò a dar credito, e spesso vittoria, alle opinioni,
alle fazioni, alle scuole; mentre gli altri si facevan forti della
ragione, del buon senso, di certi diritti dell’umano intelletto, non
troppo chiaramente enunciati, ma pur sentiti, o piuttosto presentiti.
Fra costoro noi troviamo l’intera scuola di quelli che si potrebbero,
parmi, opportunamente chiamare gli scapigliati della letteratura
nel Cinquecento; una man d’uomini che fanno il letterato come altri
farebbe il capitan di ventura; menan la vita come i _picaros_ dei
romanzi spagnuoli; non han troppa dottrina, ma bensì ingegno, e buon
giudizio ancora, quando deliberatamente non dieno, come del resto fanno
troppo sovente, nel bizzarro e nel paradossale; sono poco rispettosi
dell’autorità, punto teneri della tradizione, ribelli alla regola,
vaghi di novità, e provveduti, per miglior patrocinio de’ proprii
gusti, di una imperturbabile audacia, cui troppo sovente si fa compagna
la sfrontatezza. A questa scuola, di cui non fu ancora chi studiasse
l’indirizzo generale e l’opera comune, appartengono Pietro Aretino,
Antonfrancesco Doni, Niccolò Franco, Ortensio Lando, alcun altro.
Antipetrarchismo, nel Cinquecento, non vuol dire proprio proprio il
contrario di petrarchismo. Se il petrarchismo importa, anzi tutto, una
esagerata venerazione pel Petrarca, l’antipetrarchismo non include
di necessità avversione al grande imitato, ma è più spesso semplice
avversione alle dottrine, agl’intendimenti e alla pratica letteraria
degli imitatori. Al Petrarca stesso pochi si fanno addosso con
deliberato proposito; siane cagione una riverenza vera e sentita, o
il timore di guastar le cose proprie, dando troppo risolutamente di
cozzo nella opinione prevalente. Tuttavia anche di questi più arditi
non mancano. Non parliamo di certi saccentuzzi boriosi che per quattro
_cujus_ che sapevano si tenevano assai da più del Petrarca. In uno di
quei ragionamenti dei _Marmi_ del Doni[63], il Coccio ricorda certi
pedanti, che non istimavan degni il Sannazaro e il Molza di portar
loro dietro il Petrarca; e assai maggior del Petrarca si stima il
pedante Zanobio nella commedia _L’Idropica_ di Battista Guarini. Ma col
Petrarca se la prendevano, e gli davan di buone risciacquate, Lodovico
Castelvetro, che pure rimproverava al Caro l’uso di voci che non erano
nel _Canzoniere_, e Gerolamo Muzio, per tacere di Alessandro Tassoni,
che solamente nel 1602, o 1603, scrisse quelle sue _Considerazioni_
con cui mise il campo a rumore[64]. Per contro non dobbiamo badare più
che tanto a quel matto di Ortensio Lando, quando nella sua _Sferza de’
scrittori antichi e moderni_, mandata fuori sotto il nome di Anonimo
d’Utopia, scappa a dire[65]: «Non è negli trionfi di M. Francesco
una ignoranza espressa d’istoria e languidezza di stile? non vi ha
eziandio ne’ suoi sonetti alcuni ternari che mal si convengono con
gli quaternari? Parlate un poco col mio M. Francesco Sansovini, e
costrignetelo per vita della sua diva ch’ei vi dica gli falli quai ha
già in questo scrittore accortamente osservati, e poi diretemi s’egli è
degno d’esser letto, e che per ispianarlo affaticati si sieno l’Alunno,
il Filelfo, il Velutello, il Gesualdo, il Fausto, il Castelvetro,
Giulio Camillo e il buon Daniello? So io certo ch’egli fu sempre molto
timido nelle cose appartenenti alla lingua tosca». Non è da badargli,
dico, non ostante ciò che di sincero vi può essere in quest’ultima
osservazione, giacchè egli stesso, in un altro scritterello, intitolato
_Una breve esortazione allo studio_, usa tutt’altro linguaggio, e del
Petrarca dice: «mai certo produsse natura il più gentil scrittore».
Gli è che l’amore del paradosso è quello che troppo spesso gli muove
la lingua. E così non dobbiam prender sul serio Bernardino Daniello,
studiosissimo del nostro poeta, quando, in una lettera ad Alessandro
Corvino[66], citando una sentenza tolta dal _Canzoniere_, pone tra
parentesi: _come disse quella pecora del Petrarca_; perchè gli è questo
un semplice scherzo; e uno scherzo più innocente ancora è quello di
Andrea Calmo, quando, in una lettera ad Angelo Barocci[67], chiama il
Petrarca, con parole che parrebbero avere un tantino del derisorio,
_savio trombon de le rime_.
Ma i petrarchisti non eran mica il Petrarca, e coi petrarchisti si
parlava alla libera. Anzi tutto si vuol far loro intendere, per ogni
buon fine, e perchè sappiano quanto e’ pesano, che da quella loro
poesia biascicata e da ruminanti, alla poesia del _Canzoniere_, ci
corre parecchio. Rubin parole al _Canzoniere_ quante più possono; lo
spirito non glielo ruberanno di certo.
Gli altri poeti imitar lo potranno,
E potranno anc’usar le sue parole.
Ma alla sostanza non s’accosteranno[68].
Il rubare è la loro qualità specifica e la loro operazione consueta.
«Volete conoscere un petrarchista in vista?», dice Niccolò Franco,
«guardiate che no sa fare un sonetto, se no ruba versi o non infilza
parole»[69]. E si vanta di non aver rubato in vita sua un mezzo verso
al Petrarca, nè al Boccaccio, «come fanno i poeti de la selva de
l’aglio»[70]. Egli concederebbe la imitazione, ma non può menar buono
il furto: «O petrarchisti (che vi venga il cancaro a quanti sete!)
io ve l’ho pur detto che parliate come il Petrarca, ma che non gli
rubiate i versi con le sentenze»[71]. A una sua loquace lucerna fa
dire: «Lascio questi, (_cioè i poeti che ne’ versi loro risuscitano
tutta la mitologia_) e mentre mi van gli occhi ad un’altra infornata,
che s’infinge di star di banda, m’accosto, e veggo che son quegli che
scartafacciano il Petrarca con Giovan Boccaccio. Veggo quando gli
tolgono i mezzi versi e tal volta i versi interi. Veggo quando van
facendo scelte de le parole, de l’invenzioni e de le sentenze, che
facciano al proposito di quel che scrivono, non curandosi di parer
poveri d’intelletto. E per che si credono di non esser visti ne i
furti che fanno, gli comincio a sgridar dietro: Io v’ho pur visto; io
v’ho pur saputo cogliere; io v’ho pur chiappati, ladri, tagliaborse,
giuntatori, mariolacci! A rubare il Petrarca, ah? A spogliare il
Boccaccio, eh?»[72]. Altrove dice: «Il Petrarca fu sempre e _per omnia
saecula_ sarà il primo, ed egli solo farebbe i sonetti simili ai suoi.
Becchinsi il cervello, chè tra ’l fare e il contraffare ci son più di
diece miglia»[73]. Talvolta, per meglio burlarsi di questi imitatori,
o piuttosto ladri, il Franco finge di lodarli. Così nel dialogo
intitolato _Il Petrarchista_, stampato la prima volta in Venezia nel
1539, egli fa che il Sannio, uno degli interlocutori, dette molte lodi
del Petrarca, soggiunga: «Onde perciò non pur lo dovrebbero i rimatori
imitare e rubare, ma i prosatori liberamente pigliarne, non solamente
tutte le parti del parlare, i modi, le clausole e le figure, che ne
le sue composizioni sono quasi stelle al cielo cosparte, ma ciò che
c’è, _ecc_.»[74]: mentre poi, in altro suo dialogo introduce lo stesso
Sannio a vituperare «certe gentuzze, che se non rubano quattro versi,
non ne sanno mettere due insieme»[75]. Nè si creda ch’egli esageri.
Nel _Dialogo della Rettorica_ dello Speroni Antonio Brocardo racconta
come, essendo ancor giovinetto, si dèsse tutto allo studio del Petrarca
e del Boccaccio, e poi a compor versi. «Allora pieno tutto di numeri,
di sentenzie, e di parole petrarchesche e boccacciane, per certi
anni fei cose a’ miei amici meravigliose: poscia parendomi che la mia
vena s’incominciasse a seccare (perciocchè alcune volte mi mancava i
vocaboli, e non avendo che dire, in diversi sonetti uno stesso concetto
m’era venuto ritratto) a quello ricorsi che fa il mondo oggidì; e con
grandissima diligenzia fei un rimario o vocabolario volgare: nel quale
per alfabeto ogni parola, che già usarono questi due, distintamente
riposi; oltra di ciò in un altro libro i modi loro del descriver le
cose, giorno, notte, ira, pace, odio, amore, paura, speranza, bellezza,
sì fattamente raccolsi, che nè parola nè concetto non usciva di me,
che le novelle e i sonetti loro non me ne fossero esempio. Vedete voi
oggimai a qual bassezza discesi, ed in che stretta prigione e con che
lacci m’incatenai»[76].
In certa lettera che finge scritta al Petrarca, il Franco chiama
gli imitatori una delle due disgrazie più grosse toccate al poeta.
Vero è che in quella risposta della lucerna, già citata, fa del
Bembo sperticatissime lodi, costituendolo duce e moderatore di tutta
una famiglia di poeti, fra cui spiccano Gerolamo Quirino, Gerolamo
Molino, Bernardo Navagero, Bernardo Cappello, il Molza, il Fortunio,
lo Speroni, il Beazzano, il Grazia, Bernardo Tasso, l’Alamanni, il
Varchi, il Rota, il Tansillo[77]; ma notisi che quando scriveva
queste cose, nell’anno 1538, egli si trovava in Venezia, proprio
nell’orbita di quell’astro maggiore dei cieli poetici ch’era allora
messer Pietro Bembo; e così di più altre contraddizioni o menzogne
sue noi potremmo avere spiegazione, se ci fosse dato di confrontarle
con certi casi della sua vita, di quella vita lacera e fortunosa, che
per eccessivo rigore di una giustizia che tropp’altre cose vedeva
e comportava senza punto risentirsi, doveva miseramente finir sul
patibolo. Ma, ad ogni modo, nell’anima sua, e per libero giudizio, il
Franco fu antipetrarchista convinto, e ne vedremo altre prove. Quel
mettere a sacco il _Canzoniere_, con levarne non pur le parole, ma i
versi interi, pareva brutto del resto a molt’altri, e l’Aretino, per
isvergognar quell’usanza, intarsiava di versi tolti appunto di là entro
lo sconcio capitolo _Alla sua Diva_, e con versi tolti similmente di
là cominciava lo stesso Franco alcuni sonetti della sua troppo famosa
_Priapea_[78].
Quelle voci insolite e schife, que’ modi peregrini ed azzimati, tutte
le sdilinquite eleganze onde, togliendole al modello, gl’imitatori
venivano cospargendo e infiorando i loro componimenti, fastidivano
alla lunga chi non avesse in tutto indolciti e smascolinizzati l’anima
e i sensi. Ci erano orecchie cui meglio gradiva una musica di suono
alquanto più grave e magari più aspro. Parlando di Michelangelo
Buonarroti, dice il Berni nella sua epistola a fra Bastiano del Piombo,
apostrofando per l’appunto i petrarchisti:
Tacete unquanco, pallide viole,
E liquidi cristalli e fere snelle:
Ei dice cose, e voi dite parole.
E queste parole, che infilate come perle, lucide e fredde, erano
molta parte del vocabolario degl’imitatori, venivano in uggia a chi
liberamente e a piene mani attingeva al tesoro della lingua viva; e
quei quattro concettuzzi stremenziti che formavano la trama e l’ordito
degl’innumerevoli canzonieri facevano venir l’affanno a chi era uso di
respirar largamente nel mondo vario delle idee e delle cose. «Dico»,
esclama il Franco[79], «che in tal maniera son cresciute ne l’età
nostra l’acutezze de gli intelletti, ed hanno i gattolini aperti
talmente gli occhi, che ci vuol altro che falde di neve, pezze d’ostro,
collane di perle, altro che smaltar fioretti, adacquare erbette,
frascheggiare ombrelle, e nevicare aure soavi per sonettizzare a la
petrarchesca». E altrove: «Veggo in un batter d’occhi monti, colli,
poggi, campagne, pianure, mari, fiumi, fonti, onde, rivi, gorghi,
prati, fiori, fioretti, rose, erbe, frondi, sterpi, valli, piagge,
aure, venti, liti, scogli, sponde, cristalli, fiere, augelli, pesci,
serpi, greggi, armenti, spelunche, tronchi, uomini, dei, stelle,
paradiso, cielo, luna, aurora, sole, angeli, ombre e nebbie»[80]. È
questo, un po’ in iscorcio, il vocabolario dei petrarchisti.
Il Garzoni, biasimati aspramente coloro che ricantavano le vecchie
favole della mitologia, e detti più meritevoli di scusa coloro che
spacciavano le storie dei Reali di Francia, di Buovo d’Antona, di
Erminione, di Drusiana, di Pulicane, di Macabruno e altre sì fatte,
soggiunge, con aperta canzonatura[81]: «E più ragionevolmente fanno i
poetucci moderni, che attendono solamente a sfodrar fuori ne’ sonetti
un lor _sovente_, un _dogliose note_, un _verdi piagge amene_, un
_lieti boschi_, un _ritrosetto amore_, un _pargoletti accorti_, un _bei
crin d’oro_, un _felice soggiorno_, dove non dan molestia ad altri che
alle dive loro, nè sono almeno di tanto stomachevole invenzione come
gli antichi, i quali, se non fanno convertire gli uomini in piante, le
dee in fiumi, le ninfe in fonti, i satiri in augelli, non hanno fatto
cosa di buono. Ma questi limpidetti poeti petrarcheschi almeno trovano
soggetto e parole assai convenienti, perchè in un tratto t’assegnano a
una sfera come intelligenza, a un polo come un cardine, a un orbe come
una stella, e ti fanno apparer dal Nilo al Gange e da Calpe a Tile con
sana cosmografia tutto illustre e glorioso». E l’Aretino, più risoluto
e più energico[82]: «Sterpate da le composizioni vostre i ternali del
Petrarca, e poi che non vi piace di caminare per sì fatte strade, non
tenete in casa vostra i suoi _unquanchi_, i suoi _soventi_, ed il suo
_ancide_, stitiche superstizioni de la lingua nostra: nel replicare
l’istorie ed i nomi discritti da lui, allontanatevigli più che potete,
perchè son cose troppo trite». Meglio ancora biasimava quel gergo
artifiziato Pietro Nelli in una delle sue satire, dicendo[83]:
Mi piace usar vocaboli sanesi
Non tirati con argani, o con ruote,
Perch’io vo’ che i miei versi sieno intesi.
Questi c’hanno oggimai lasciate vuote
Le bisacce al Petrarca e la scarsella,
E pieno ’l mondo d’uopi e di carote,
Quasi mi fanno recer le budella
Col parlar su lo stitico e far mostra,
Come già il corvo, dell’altrui gonnella.
E nel secondo sonetto della sua _Priapea_, il Franco gridava:
Lungi, ser petrarchisti dal bel stile,
Che le rime con gli uopi profumate.
Se c’era dunque chi voleva la lingua pedissequa e stretta ai panni di
messer Francesco e di messer Giovanni, c’era pure, per buona ventura,
chi stimandola uscita ormai di pupillo, la voleva padrona di sè e degli
andamenti suoi. Annibal Caro, nel Proemio a quel suo noto _Commento
di ser Agresto_ ecc., dice che, quanto a lingua, non vuole usare, nè
la boccaccevole, nè la petrarchevole, ma solamente la pura toscana in
uso a’ suoi dì. L’Aretino, che scriveva come gli uscia dalla penna, si
faceva beffe di certe riprensioni che gli venivano dagli Accademici di
Lucca, i quali sempre avevano in bocca: _il verbo vuole essere nelle
prose in ultimo, e cotesto non disse il Petrarca_[84]. Tra quegli
stessi che non s’arrischiavano a usare nelle scritture la lingua
parlata, c’era pure chi si ribellava alla doppia tirannide del Petrarca
e del Boccaccio. «Non so adunque come sia bene», fa dire a Lodovico da
Canossa il Castiglione nel suo _Cortegiano_[85], «in loco d’arricchir
questa lingua e darli spirito, grandezza e lume, farla povera, esile,
umile ed oscura, e cercare di metterla in tante angustie, che ognuno
sia sforzato ad imitare solamente il Petrarca e ’l Boccaccio, e che
nella lingua non si debba ancor credere al Poliziano, a Lorenzo de’
Medici, a Francesco Diaceto e ad alcuni altri che pur sono Toscani,
e forse di non minor dottrina e giudicio che si fosse il Petrarca e
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