Attraverso il Cinquecento - 13

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da allora per l’artificio mirabile de’ suoi vetri, e vi passò la
notte. Il giorno seguente, il doge in persona, accompagnato da tutta
la Signoria, andò a levarlo con una galea soprammodo pomposa e lo
condusse al Lido, ove era eretto, davanti alla chiesa di San Niccolò,
un magnifico arco trionfale, opera del famoso Palladio, e di contro
all’arco una grande e bellissima loggia, con dieci colonne d’ordine
corinzio, e con figurate all’intorno tutte le virtù. Al Lido fu
celebrata una messa, e poi il re fu condotto in Bucintoro al palazzo
Foscari, dove ogni cosa era apparecchiata per degnamente ospitarlo, e
quaranta giovani gentiluomini erano ordinati a servirlo. La notte ci
fu grande luminaria per tutto il Canal Grande, e nei giorni seguenti
le feste succedettero alle feste, gli spettacoli agli spettacoli,
ininterrottamente, con tanta magnificenza e pompa, con sì grande
concorso e letizia di popolo, che nulla di simile si ricordava, nè
s’era veduto mai, nemmeno al tempo dell’entrata in Venezia di Caterina
Cornaro, già stata regina di Cipro. Il lunedì si fece una grandissima
regata _d’ogni sorte legni_, cosa che al giovane re riuscì al tutto
nuova, e incontrò molto il suo gradimento. Il martedì entrata solenne
del duca di Savoja, che con molti altri signori veniva ad ossequiare il
re di Francia. Il mercoledì sontuoso banchetto nelle sale del Palazzo
ducale, preceduto da un _Te Deum_ in San Marco, rallegrato da _musiche
e concerti inauditi_, e seguito dalla rappresentazione di una _tragedia
in canto_: le mense erano imbandite per tremila persone. Il giovedì
il re fece visita al doge, e poi fu a una festa privata nel palazzo
del Patriarca Grimani, del quale visitò anche il celebre _studio
d’antichità_, o vogliam dire museo. Il venerdì giunsero in Venezia il
duca di Mantova e il Gran Priore di Francia, e il buon re ebbe il gusto
di prender parte in Consiglio alla elezione dei magistrati, e diede
palla d’oro per Giacomo Contarini, che fu fatto dei Pregadi: la sera
fuochi artificiali meravigliosi davanti al palazzo Foscari. Il sabato
visita all’Arsenale, che era ancora il primo del mondo, seguita da
_una bellissima colazione di confezioni, e di frutti di zuccari, coi
cortelli, con le tovaglie, coi piatti, e con le forcine_ (_cosa non più
escogitata_) _fatte di zuccaro_. La domenica ballo nella sala del Gran
Consiglio, _dove si trovarono dugento gentildonne di singolar bellezza,
tutte vestite di bianco, e adornate di perle, e d’infinite gioje
di uno incredibil valore_; poi _colazione ricchissima_ con sessanta
maniere di confezioni. Il lunedì guerra di bastoni fra Castellani e
Niccolotti al Ponte dei Carmini. Tutti i giorni, alle due ore di sera,
_singolarissimi concerti_ dinanzi al palazzo Foscari[340].
Il martedì finalmente, decimo giorno dall’arrivo, si partì il re da
Venezia, innamorato di quella città e di quel popolo, cattivato da
quelle accoglienze, stupito di tante impareggiabili pompe, lasciando
molti e cospicui pegni del suo gradimento e del suo favore, e
giurando, affermano gli storici, ch’egli era per serbare eterna e
fedele memoria dell’onore fattogli e della dimostratagli benevolenza.
Ma gli storici che diedero particolareggiato ragguaglio di quegli
avvenimenti memorabili; gli storici che ricordano come il re visitasse
nel Fondaco dei Tedeschi il banco di quei Fugger, ricchi sfondolati, i
quali, usi di soccorrere di denari imperatori e papi, potevano anche
a lui far comodo di cento o dugentomila fiorini, e come comperasse
da uno di quegli orafi di Rialto uno scettro di grandissima valuta
e di mirabil lavoro; gli storici, dico, non accennano neanco di
passata a un altro fatto del principe, fatto che può avere poca
importanza per la storia di Polonia e di Francia, ma che per noi ne
ha moltissima. Un bel giorno, ma più probabilmente una bella notte,
il giovane re, abbarbagliati gli occhi dallo sfolgorio dei drappi
d’oro, degli ostri, dei giojelli, delle argenterie, delle luminarie e
dei fuochi artificiali; intronati gli orecchi dalle lunghe dicerie,
dagli innumerevoli versi recitati in suo onore, dai _singolarissimi
concerti_ e dallo sbombardamento delle artiglierie; imbuzzito a furia
di desinari interminabili, e di _colazioni ricchissime_; leggermente
fastidito delle cerimonie ufficiali, e, si può credere, messo in
uzzolo dalla vista di tante belle patrizie, sentì desiderio di alcun
gaudio più tranquillo e più intimo, e uscito alla chetichella dal
miracoloso palazzo che ancora si specchia nell’acque del Canal Grande,
se n’andò, guidato senza dubbio da un Mentore servizievole e discreto,
in contrada di San Giovanni Crisostomo, e quivi picchiò all’uscio di
una casa di onesta e decorosa apparenza, entro la quale fu immantinente
ricevuto. In quella casa abitava Veronica Franco, veneziana di nascita,
cortigiana di professione, poetessa per inclinazione e per ingegno.
Il serenissimo doge e l’almo Senato non avevano pensato che Enrico di
Valois, re di Polonia e di Francia, non passava il ventesimoterzo anno
dell’età sua.
La notizia del fatto memorabile noi la dobbiamo alla Veronica
stessa, la quale, in una lettera scritta appunto _all’invittissimo e
cristianissimo Re Enrico III_, e che è la seconda del suo volume di
_Lettere familiari a diversi_, ricorda con legittimo orgoglio il giorno
felice in cui egli degnò di sua regale presenza l’_umile abitazione_ di
lei. La Veronica non entra in altri particolari circa il colloquio; ma
noi abbiamo ragione di credere che il re ne rimanesse contento, perchè
in partirsi tolse un ritratto di lei, condotto in ismalto, e fece
molte _benigne e graziose_ offerte, le quali non sappiamo che seguito
avessero. Nella lettera ella promette di dedicare a lui un suo libro,
e gli manda intanto due sonetti, nel primo dei quali la visita di lui
è assomigliata alle visite che Giove si degnava di fare in antico alle
povere mortali, e nell’altro ella esprime il desiderio di alzar _fuor
del mondo_ e _sopra il cielo_ con le sue lodi il giovane eroe
In armi, e in pace, a mille prove esperto.
Ma che donna mai era cotesta Veronica, e quali le sue prerogative,
perchè un re coronato, ospite della più illustre e possente delle
repubbliche, andasse, in occasione di tanta solennità, a visitarla
nella propria casa di lei, ne togliesse come grato ricordo il ritratto,
le facesse graziose e generose profferte? Che donna era cotesta, la
quale poteva farsi lecito di scrivere a cotal re una lettera in cui
quella visita e quelle altre particolarità erano ricordate, poteva
offrire e promettere un libro in cui ella, Veronica, avrebbe celebrato
e glorificato quel re, e poteva far pubblica quella lettera per le
stampe, di maniera che a ognuno fosse dato vederla? Se noi diciamo
ch’ella era una cortigiana, come innegabilmente era, ci par di dire
cosa la quale non solo non giustifichi e non ispieghi i portamenti
di lui e di lei, ma dovrebbe, piuttosto, far supporre di lui e di lei
portamenti in tutto diversi. Ora, nè il re mostra di vergognarsi della
famigliarità ch’egli ha con la cortigiana, nè la cortigiana mostra
di sospettare che il re possa vergognarsene, e che per conseguenza
s’addica a lei un prudente riserbo e una lodevole discrezione. Ma se
così è, vorrà dire che quel nome di cortigiana, non ha, o non aveva
allora, il pessimo significato che gli si suole attribuire; vorrà dire
che la cortigiana non era giudicata così severamente come pare a noi
che dovrebb’essere giudicata, e che il più mite e benevolo giudizio
le permetteva di tenere nella civil società un luogo che non avrebbe
altrimenti tenuto, di godere immunità e benefizii che non avrebbe
altrimenti goduto.
Procuriamo dunque, prima di andare innanzi, di farci un giusto
concetto di ciò che fosse la cortigiana nel Cinquecento, e gioviamoci
a tal fine delle testimonianze e dei giudizii dei contemporanei.
Tali testimonianze e tali giudizii non sempre sono concordi, anzi si
contraddicono spesso; ma se noi riusciamo ad intender bene le ragioni
che variamente muovono giudici e testimoni, le contraddizioni si
spiegheran facilmente, e non ci torran di conoscere il vero delle cose.
La digressione sarà un pochino lunga, ma, oso sperare, non nojosa; e
se, giunti al termine di essa, avremo acquistato della cortigiana, dei
suoi costumi, della sua condizion di vita, una nozione più piena e più
esatta che prima non avevamo, ci riuscirà incomparabilmente più agevole
intender l’animo e la vita di Veronica Franco, alla quale allora
ritorneremo[341].

II.
Sperone Speroni, in una Orazione che compose contro le cortigiane e
le innumerevoli _loro opere irrazionali_, esce a un certo punto in
queste formali parole: «Dico adunque..... che la cortigiania delle
male femmine è una antica, ma vile e sozza professione, novellamente
di gentil nome adornata. Scorti altra volta latinamente e meretrici
per vero nome solea chiamarle la Italia; ma per più vero e più
proprio si nominavano peccatrici. Io veramente sendo fanciullo con
tal disprezzo sentia parlarne per le contrade, mentre passavano alla
sfuggita, che quelle istesse, che ogni vergogna parea che avessero
per niente, dalla natura sospinte, che razionali l’avea pur fatte, al
lor dispetto arrossavano; ed era tanto cotal rossor vergognoso, che
vincea l’altro, ond’elle il viso si ricopriano: or non so come, o per
qual cagione l’uso del mondo, che in fatto e in detto è corrotto, le
voglia chiamar cortigiane»[342]: egli, lo Speroni, le chiama invece
_monstri infelici_. Poniamo che in questa lamentazione ci sia parecchia
retorica, e che nel tempo in cui l’autore di essa era fanciullo, cioè
nei primi anni del secolo XVI, le _peccatrici_ non fossero così pronte
ad arrossire come egli pretende; di vero c’è ad ogni modo una cosa per
noi molto importante, anzi due: la prima, che l’uso del mondo voleva
allora si chiamassero cortigiane quelle che in passato si solevano
chiamar peccatrici (o altrimenti, chè lo Speroni non si cura, o
forse non si degna, di ricordare altri nomi); la seconda, che queste
cortigiane erano imbaldanzite molto, e non si vergognavano più tanto di
loro condizione come in passato se n’erano vergognate; il che non vuol
dir altro se non che quella condizione sembrava molto men vile agli
occhi lor proprii e agli occhi altrui.
Il mutamento del nome rivela in questo caso un mutamento profondo
avvenuto nelle idee e nella vita. Il nome di _peccatrice_ era suggerito
da certi concetti fondamentali della credenza religiosa e della morale
cristiana, e implicava biasimo assoluto, senza temperamento alcuno:
il nome di _cortigiana_ è suggerito da tutt’altri concetti, in massima
parte contrarii a quelli, e non solo, per sè, non implica biasimo, ma,
anzi, implica lode, e, starei per dire, glorificazione. Esso rimanda
senz’altro al Rinascimento, alla sua coltura, alle sue tendenze, al
nuovo intuito delle cose, e al nuovo sentimento della vita che quello
recò nel mondo. In fatti, dov’è che la coltura del Rinascimento, e la
vita informata a quella coltura, riescono più intense, più piene, e
raggiungono la perfezione loro? Nelle corti e intorno alle corti. E
qual è l’uomo in cui meglio si personifica quella coltura, e che più
pienamente sa vivere quella vita? Il cortigiano perfetto, quale l’ha
descritto nel famoso suo libro Baldassar Castiglione. Ora, per sè
stesso, il nome di cortigiana non diversifica da quello di cortigiano
se non pel genere; è, come quello, nome di tutto onore, e suggerisce,
al par di quello, l’idea (molte volte contraddetta dai fatti, nol
nego) che la persona designata per esso sia persona ornata d’ogni
pregio e virtù, persona compita, della cui conversazione nessuno s’ha a
vergognare, come essa non s’ha a vergognare della sua qualità.
Il Rinascimento fiorito chiama dunque con nome onorifico la donna
che l’età precedente chiamava con nome d’infamia; al qual proposito
non si vuol dimenticare che un altro nome onorifico viene a lei dato
nel Cinquecento, ed è quello di signora. Ma qui non si tratta di un
semplice mutamento di nome, come potrebbe a prima giunta sembrare,
e come, a torto, lo Speroni vorrebbe lasciar credere. Sotto il nome
mutato c’è la cosa anch’essa mutata; e se la cortigiana rimaneva pur
sempre una peccatrice, non era più la peccatrice di prima. Vero è
che, l’uso degenerando in abuso, il nome di cortigiana fu molto spesso
dato nel Cinquecento a tutte le donne di mala vita, indistintamente;
ma di quanti altri nomi, serbati in principio a un uso particolare,
non è avvenuto lo stesso?[343]. Tutti i nomi che hanno dell’onorevole
vanno soggetti a indebite appropriazioni, a illegittime estensioni di
significato. Da altra banda, se le donne tutte di mala vita furono
spesso nel Cinquecento chiamate cortigiane, non è men vero, che si
cercò, allora stesso, con qualificazioni e con aggiunti di più e men
felice invenzione, di ripristinare le distinzioni opportune, e toglier
di mezzo l’equivoco. Così è che in certo censimento della città di
Roma, fatto ai tempi di Leone X[344], si trovano le denominazioni di
_cortesana_, o di _curiale_, senz’altro, che dicono, l’una in volgare,
l’altra in latino, il medesimo; di _cortesana puttana_, di _cortesana
da lume_ o _da candela_, e di _cortesana onesta_. A noi quell’accozzo
di _cortesana_ e di _onesta_ sembra veramente una cosa assai strana;
ma ai contemporanei di Leone X non sembrava così. Giovanni Burchard,
maestro di cerimonie di Alessandro VI, e vescovo di Città di Castello,
narra una curiosa storia di certa Cursetta romana, da lui chiamata,
senza esitazione alcuna, _meretrix honesta_, e narra pure come l’ultima
domenica d’ottobre dell’anno 1501, vigilia d’Ognissanti, cenarono
col duca Valentino, nel Palazzo apostolico, cinquanta _meretrices
honestae, cortegianae nuncupatae_, le quali dopo cena danzarono ignude
e fecero altre prove di lor valentia e di lor arte in presenza di
esso duca, della sorella di lui Lucrezia, e del padre di entrambi, il
buon pontefice Alessandro VI[345]. Questo passo del famoso diarista
prova, tra l’altro, che il nome di cortigiana era venuto in uso,
secondo ogni probabilità, già qualche anno prima del 1500, e che lo
Speroni assegnava a quel nome un’origine troppo tarda[346]. In un
libro di memorie della famiglia Chigi, scritto da quel Fabio Chigi che
poi fu papa col nome di Alessandro VII, la famosa Imperia è chiamata
_nobilissimum Romae scortum_[347]. Il censimento testè citato fa anche
ricordo di _cortigiane piacevoli_ e di _cortesane della minor sorte_,
e usa altri nomi che non accade ripetere. Da canto suo Marin Sanudo
chiama in un luogo de’ suoi _Diarii_ le cortigiane di lusso _puttane
sontuose_, e _onorata e nominata meretrice_ chiama in un altro certa
signora Angiola. Una Lista fiorentina dell’anno 1569 classifica le
meretrici in ricche, mediocri e povere[348], e le ricche sono per lo
appunto le cortigiane oneste.
Vediamo dunque un po’ più da vicino qual fosse la condizione, quali
fossero i costumi e i portamenti di queste cortigiane oneste, o se
troppo dispiace l’associazione di quel sostantivo e di quell’aggettivo,
delle cortigiane senz’altro, avvertendo che noi non vogliamo badare
ora se non a quelle cui tal nome appartiene più ragionevolmente, a
quelle cioè che debbono in molta parte il carattere e l’esser loro alla
civiltà del Rinascimento. Delle altre, più numerose assai, cui quella
civiltà non educò, non trasformò, non vogliam tener conto.
Chiamata a vivere in mezzo ad una società in cui la coltura era
largamente diffusa, e che aveva la coltura in grandissimo pregio, la
cortigiana doveva esser colta, tanto più che le donne oneste erano, in
certe classi, spesso coltissime. Nella commedia del Guarini intitolata
_L’Idropica_, Loretta, che è una figura non molto viva, ma, se si
può dire, molto corretta di cortigiana compita, così parla di sè:
«vedendo mia madre (perchè già la sua macina faceva più crusca assai,
che farina) la buona piega della vita mia, pensò di rinverdire nella
mia giovinezza le sue passate prodezze: ed avendomi fatte imparare le
sette arti liberali, aperse casa a tutta Vicenza, cominciando a tener
trebbj d’ogni sorta»[349]. La famosa Imperia, fiorita nei primi anni
del secolo, aveva appreso a compor rime volgari da Niccolò Campano,
detto lo Strascino, ed era in grado di leggere, sembra, gli autori
latini. Lucrezia, soprannominata _Madrema non vuole_, sapeva riprendere
chiunque non parlasse secondo il buon uso, o quello che a lei sembrava
il buon uso, e un cotal Ludovico, il quale fa professione di praticar
cortigiane, dice di lei in uno dei _Ragionamenti_ di Pietro Aretino:
«ella mi pare un Tullio, e ha tutto il Petrarca e ’l Boccaccio a mente,
ed infiniti e bei versi latini di Virgilio e d’Orazio e d’Ovidio e di
mille altri autori»[350]. Lucrezia Squarcia, veneziana, ricordata in
certa _Tariffa_, si faceva vedere
Recando spesso il Petrarchetto in mano.
Di Virgilio le carte ed or d’Omero,
e spesso disputava del parlar toscano[351]. Una Nicolosa, ebrea,
ricordata ancor essa dall’Aretino, leggeva i salmi in ebraico[352].
Tullia d’Aragona e Veronica Franco hanno i nomi loro registrati
onorevolmente nelle storie letterarie. Camilla Pisana aveva composto
un libro e datolo a correggere a Francesco del Nero[353], e le lettere
di lei che si hanno a stampa sono scritte con un fare un po’ caricato,
ma non prive di eleganza, con latinismi frequenti e con intere frasi
latine. Ercole Bentivoglio indirizza a una signora Agnola, veneziana
(forse Angela Zaffetta) il suo capitolo _Della lingua tosca_, ed
esprimeva il desiderio d’imparare da lei il dolce e garbato dialetto
di Venezia. Se s’ha a credere ad Alfonso de’ Pazzi, Tullia d’Aragona,
non solo faceva correggere le sue scritture dal Varchi, ma col Varchi
insieme studiava e lavorava:
La Tullia, il Varchi ed Ugolino e lei
Han fatto lega e studian tutta notte,
E voglion pur che i ranocchi sian botte
E che gli etruschi non siano aramei[354].
Vero è che taluna, non riuscendoci da sè, si faceva comporre da qualche
letterato amico le lettere e i versi.
Ma la cortigiana di recapito non si contentava della sola coltura
letteraria; essa doveva ancora andare adorna di altre _virtù_, come
allora dicevasi; cantare, se la natura le aveva fatto dono di bella
voce[355], sonare uno o più strumenti, danzare con grazia, e usare
poi sempre soavità nel parlare, e garbatezza nei modi. Bisognava che,
stando almeno alle apparenze, si potesse dir sempre di lei ciò che il
Lasca diceva di Nannina Zinzera[356]:
D’atti è sì piena, e modi signorili,
Che come l’ombra dal sol fuggir suole,
Fuggon da lei le cose basse e vili;
e ciò che il Coppetta diceva a Ortensia Greca[357]:
E che voi non volete, a tutti è espresso
O meccanica cosa, o men ch’onesta
Far, nè lasciar che vi si faccia appresso.
Aveva dunque torto il pedante Cinzio di certa commedia del Domenichi a
dire: _Le cortigiane non sono cortigiane nè cortesi_[358].
La cortigiana non aveva obbligo d’essere letterata e scrittrice; ma
doveva avere lo spirito pronto e la lingua sciolta; doveva sapere
coi vezzi, col brio, con l’arguzia, coi modi affabili e accorti, col
vario uso delle sue varie virtù, invaghire i cortigiani, ammaliare i
letterati, imbertonire i prelati, intrattenere un crocchio, prender
parte a una disputa, dar anima a una festa. L’Aretino, scrivendo a una
Zufolina, amicissima sua, accenna allo scaltrito ingegno, alla arguta
festività, alla signorile creanza ch’ella ebbe dall’_aria del toscano
paese_, dalla _natura_ e dalla _pratica_, e dice tra l’altro: «i
Duchi e le Duchesse se intertengano con lo intertenimento delle vostre
chiacchiare molto insalate e molto appetitose; sentenzie che fumano
vi scappano di bocca e tra i denti. Di pinocchiato, di savonia, e di
marzapane sono le ciancie che voi date a qualunche si crede che voi
siate una baja»[359]. E il Calmo scriveva nel suo vispo dialetto a una
madonna Vienna Rizzi, che da Venezia s’era tramutata in Roma: «el me
par da vederve tutta aierosa, maistra de motizari, astuta de resposte,
cativeta de dar canate, lenguina piena de acenti toscani, e baldanzosa
con chi ha del mobele del re Mida»[360]. Della famosa Isabella de
Luna, spagnuola, che aveva viaggiato mezzo mondo, era stata a Tunisi
e alla Goletta, e aveva un tempo seguitata la corte dell’imperatore in
Germania e in Fiandra, dice il Bandello che in Roma era tenuta «per la
più avveduta e scaltrita femina che stata ci sia già mai». E soggiunge:
«Ella è di grandissimo intertenimento in una compagnia, siano gli
uomini di che grado si vogliano; perciocchè con tutti si sa accomodare
e dar la sua a ciascuno. È piacevolissima, affabile, arguta, e in dare
a’ tempi suoi le risposte a ciò che si ragiona, prontissima. Parla
molto bene italiano; e se è punta, non crediate che si sgomenti, e che
le manchino parole a punger chi la tocca; perchè è mordace di lingua,
e non guarda in viso a nessuno, ma dà con le sue pungenti parole
mazzate da orbo»[361]. Messer Matteo reca qui e altrove[362] le prove
di ciò che asserisce. Non meno arguta, nè meno _mordace di lingua_ era
la Giulia Ferrarese, madre di Tullia d’Aragona. Narra il Domenichi:
«Fu fatta la strada del popolo in Roma, lastricata da i tributi che
le puttane pagavano: nella quale scontrando la Giulia Ferrarese una
gentildonna, l’urtò un poco. Allora la gentildonna alterata cominciò
a dirle villania. Rispose la Giulia: Madonna, perdonatemi, che io so
bene, che voi avete più ragione in questa via che non ho io»[363]. Non
è dunque da stupire se la conversazione delle lor pari era desiderata
e cercata, e se esse s’ingegnavano di trar profitto anche di quella.
Il Montaigne, ch’ebbe a farne la prova, assicura che esse (almeno in
Venezia) facevansi pagare i semplici colloquii quanto la _négociation
entière_[364].
Che le cortigiane dovessero avere in tutto o in parte le _virtù_ testè
enumerate non parrà certo strano a chi ripensi i caratteri di quella
civiltà, le usanze e i gusti degli uomini di quel tempo; ma che quelle
stesse _virtù_ s’avessero a trovare in qualche misura anche negli
agenti di esse cortigiane, e procuratori d’amore in genere, ossia,
per parlar più chiaro, nei mezzani, parrà strano a più d’uno. E pure
era così. Quel bell’umore di Tommaso Garzoni narra della coltura del
mezzano cose veramente miracolose e incredibili. «Imita il grammatico
nel scriver le lettere amorose tanto ben messe, e tanto bene apuntate,
che rendono stupore, nel dettar politamente, nel spiegar galantemente,
nell’isprimer secretamente il suo pensiero..... Appare un poeta nel
descrivere i casi acerbi con pietà di parole, i fatti allegri con
giubilo di core..... Porta seco i sonetti del Petrarca, le rime del
Cieco d’Adria, l’_Arcadia_ del Sannazaro, i madrigali del Parabosco,
il _Furioso_, l’_Amadigi_, l’Anguillara, il Dolce, il Tasso, e sopra
tutto i strambotti d’Olimpo da Sassoferrato, come più facili, sono i
suoi divoti per ogni occasione..... Si reca dietro qualche sonetto in
seno, un madrigale in mano, una sestina galante, una canzone polita,
con un verso sonoro, con uno stil grave, con parlar facondo, con tropi
eleganti, con figure eloquenti, con parole terse, con un dir limato,
che par che il Bembo, o il Caro, o il Veniero, o il Gosellini l’abbiano
fatto allora allora; e si mostra alla diva con lettere d’oro, con
caratteri preziosi; si legge con dolcezza, si pronunzia con soavità, si
dichiara con modo, si scopre l’intenzione, si manifesta il senso, e si
palesa il fine del poeta..... Con la musica diletta sovente le orecchie
delle giovani, mollifica l’animo d’ogni lascivia, ruina i costumi,
disperde la onestà, infiamma l’alme di cocente amore, incende i spiriti
di concupiscenza carnale; mentre si cantan lamenti, disperazioni,
frottole, stanze e terzetti, canzoni, villanelle, barzellette, e si
tocca la cetra, o il lauto, a una battaglia amorosa, a una bergamasca
gentile, a una fiorentina garbata, a una gagliarda polita, a una
moresca graziosa, e pian piano s’invita ai balli ed alle danze, dove i
tatti vanno in volta, i baci si fanno avanti le parole secrete, _ecc.
ecc._»[365].
C’erano molti, gli è vero, ai quali queste ed altrettali virtù
riuscivano sospette nelle cortigiane medesime. Pietro Aretino, il
quale credeva che nelle donne, in generale, la coltura fosse stimolo
al mal costume[366], e diceva «i suoni, i canti e le lettre che sanno
le femmine» essere «le chiavi che aprono le porte della pudicizia
loro»[367]; Pietro Aretino, dottissimo in questa parte, affermava non
essere altro le virtù delle cortigiane, se non panie e lacciuoli tesi
agli amanti[368]; e di tali virtuose diceva il Garzoni: «Onde pensi
che nascano i canti, i suoni, i balli, i giuochi, le feste, le vegghie,
i conviti, i diporti loro, se non da quell’intento d’aver l’applauso,
il commercio, il concorso della turba infelice di questi amanti, che
rapiti da quelle voci angeliche e soprane, attratti da quei suoni
divini di arpicordi e lauti, impazziti in quei moti, e in quei giri
loro tanto attrattivi, consumati in quei giuochi spassevoli, dileguati
in quelle feste giulive, addormentati in quelle vegghie pellegrine,
immersi in quei conviti di Venere e di Bacco, morti nel mezzo di quei
soavi diporti, restino prigioni e servi del lor fallace ed insidioso
amore?»[369]. Ma poichè, contrariamente alla opinione dei pochi, la
opinione dei molti era che donna bella ed onesta non potesse avere,
oltre alla bellezza e all’onestà, più degno ornamento di quello che
viene dall’ingegno e dalla coltura, così non era possibile che i molti
biasimassero nelle cortigiane ciò che nelle donne oneste lodavano, e
temessero in quelle ciò che cercano in queste. Certo, vivendo in mezzo
a una società in cui tutti eran colti, e in cui l’ingegno e la coltura
erano tenuti sommamente in pregio, anche le cortigiane, se volevano
aver seguito, bisognava si ponessero in grado di soddisfare al gusto
comune, e perciò si può dire che l’esercizio e l’accorta ostentazione
di quelle varie virtù che abbiam vedute facevano parte del loro
mestiere, erano tra l’arti loro di richiamo più attrattive ed efficaci.
Ma ciò non vuol già dire che esse non potessero compiacersi in
quell’esercizio anche pel piacere che ci trovavano, indipendentemente
dal guadagno che ne poteva venir loro. Erano anch’esse figlie del
Rinascimento, e potevano, al pari di tante gentildonne onorate, i
cui nomi la storia ricorda, legger libri, compor versi, coltivare
la musica, per ragion di gusto naturale, e, ancora, per acquistar
fama. Una prova di ciò si ha nel fatto che le cortigiane cercavano la
compagnia e la famigliarità dei letterati assai più che l’utile loro
non sembrasse richiedere. I letterati potevano, è vero, aiutarle in
più di una occorrenza, potevano anche adoperarsi a metterle in vista;
ma avevano, ad ogni modo, un ben grave difetto, quello, cioè, d’essere
assai più ricchi di fama che di quattrini. Gli è che le cortigiane, se
non tutte, almen le migliori, si compiacevano anch’esse in quelle cose
in cui tutti si compiacevano; gli è che l’estro poetico poteva pungere
parecchie tra esse come pungeva altri infiniti, e che la gloria, la
quale assetava di sè tante anime, poteva destare un po’ d’ardore anche
nelle anime loro.
Come non trascuravano le doti e gli ornamenti dello spirito, così pure
non trascuravano le cortigiane, ed è naturale, le doti e gli ornamenti
del corpo, e, generalmente parlando, nessuno di quei sussidii onde
la loro professione poteva in qualche maniera avvantaggiarsi. Uno dei
primi accorgimenti loro, non dimenticato ai dì nostri, era di cambiare
il nome, spesso troppo umile e volgare, ricevuto col battesimo, in un
nome sonoro e peregrino, il quale era come un suggello poetico impresso
nella persona, chiamandosi Ginevra, Virginia, Isabella, Olimpia, Elena,
Diana, Lidia, Vittoria, Laura, Domizia, Lavinia, Lucrezia, Stella,
Delia, Flora[370]. A cotal nome, esse medesime, o altri, solevano
aggiungere quello della città natale, o della nazione, dicendo Camilla
da Pisa, Giulia Ferrarese, Beatrice Spagnuola, Angiola Greca e simili;
anche i soprannomi erano frequenti, e alle volte assai strani. Il
nome d’Imperia valeva quasi da sè solo un titolo di nobiltà[371]; ma
Lucrezia _Madrema non vuole_ si sottoscriveva Lucrezia Porzia, Patrizia
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