Attraverso il Cinquecento - 18

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parla. Solo una volta la udiamo chiedere, a pigione senza dubbio,
a un grazioso, gentile e molto onorato signore, una casa, _per
forma, e per sito, e per adornamenti comoda, e godevole, e piena de
ricreazione_[555]. Se la chiedeva, doveva anche avere di che arredarla
convenientemente, e possiamo credere che in casa sua non mancasse quel
lusso che, come abbiam veduto era solito nelle case delle cortigiane
illustri. Se non ricca, la Veronica fu certamente agiata, almeno in
un tempo di sua vita; giacchè, se quando, nel 1582, ella presentò ai
Dieci Savii sopra le decime la nota de’ suoi beni, questi sembra si
riducessero a poca cosa, sappiamo da altra banda da lei stessa che
ella aveva perduto buona parte del suo nel contagio del 1575 e del
1576[556]; in qual modo, non dice. I suoi due testamenti del 1564 e
del 1570 la mostrano in possesso di un patrimonio che non è valutato,
ma che sembra abbastanza cospicuo[557], e nel 1580 essa doveva vivere
lautamente, se poteva tenersi in casa un precettore pel figliuolo
Achilletto, e servitori e fantesche.

IV.
Quella perdita mostra già che la vita della Veronica non sempre
corse tranquilla e gioconda; ma non è essa il solo fatto spiacevole
che gliel abbia turbata. Se gli amici le si mostrarono di solito
affezionati e devoti, non mancarono nemici che a più riprese le diedero
noja e s’ingegnarono di nuocerle. Uno di essi, lo dice ella stessa,
tentò con calunnie di contaminare l’_onor_ di lei, levando un grande
scandalo[558]; un altro le scrisse contro una canzone infamatoria,
chiamandola meretrice[559], e non fu questa la sola poesia composta in
suo biasimo. Fra cotesti denigratori pare ce ne fosse qualcuno che con
la satira e con la maldicenza si vendicava di rifiuti sofferti[560];
e non è improbabile che alcuno di essi sia autore di certo testamento
apocrifo di Lodovico Ramberti, il quale si legge in un codice
miscellaneo del Museo Correr in Venezia. In questa scrittura, non molto
arguta a dir vero, il Ramberti, che dice d’essere _con qualche pericolo
del corpo_, sì per l’età, sì per i molti _disordini_ uso a fare con
la sua dilettissima madonna Veronica e col soavissimo suo messer Zuane
Bragadin, dispone in modo burlesco delle cose sue. Alla Veronica lascia
il suo buon letto di piume, _con patto che la nol possa nè vender, nè
impegnar, nè dar a zudii_, e le fa altri lasciti ridicoli. Vuole che
sulla sua tomba s’incidano alcuni versi, fattura, è detto, della stessa
Veronica[561]. Costei, o non curava tali assalti, o con garbo se ne
schermiva, mostrando che spesso l’altrui biasimo si converte in lode,
affermando che chi ingiuria non provocato ingiuria sè stesso,
E ’l voler oscurar il vero espresso
Con le torbide macchie de gli inchiostri
In buona civiltà non è permesso;
rispondendo talvolta alle satire con le satire[562], e avvertendo
talaltra i calunniatori di tacere, se non volevano ch’ella cominciasse
a parlare a sua volta[563].
Di questi nemici, i quali del resto nè nocquero molto, nè molto
potevano nuocere, non ci son noti i nomi; ma ben ci son noti d’altri,
che tentarono di mettere la Veronica in un assai brutto imbroglio,
e per poco non ci riuscirono. Ciò avveniva nel 1580. Un Rodolfo
Vanitelli, precettore di Achilletto, sostenuto dalle testimonianze
di una donna Bortola e di un Giovanni Vendelino, tedesco, l’una e
l’altro ai servigi della Veronica, denunziarono costei al tribunale del
Sant’Uffizio. I misfatti di cui costoro, messi forse su, forse pagati
da qualche nemico maggiore rimasto nell’ombra, l’accusavano, erano
parecchi. Per ritrovare un pajo di forbici con la guaina d’argento, e
un uffiziolo dorato che le erano stati rubati, la Veronica aveva fatto
uso di sortilegi, e aveva invocato il diavolo, servendosi in quelle
detestabili pratiche di un anello benedetto, di olivo benedetto, di
acqua e di candele benedette, fatte prendere da Achilletto nella vicina
chiesa di San Giovanni Nuovo. Inoltre teneva in casa giuochi proibiti,
commettendo molte poltronerie, dando la mancia a coloro che avrebbero
potuto denunziarla, perchè tacessero. Non udiva mai messa; mangiava
di grasso nei giorni vietati, e s’era fatta ajutare dal diavolo a
innamorare certi tedeschi. L’accusavano ancora di aver simulato un
matrimonio, a solo fine di poter portare gli smanigli d’oro e l’altre
gioje che la legge non consentiva alle meretrici. Chiedevano da ultimo
che, senza riguardo ai molti protettori, si desse alla rea donna il
castigo che meritava[564].
Tali accuse, oggi, farebbero ridere; ma erano gravissime allora, e
portavano pericolo grande anche se insensate, anzi appunto perchè
insensate. Ventidue anni dopo, in Modena, fu fatto un processo ad
Alessandro Tassoni, che allora era in Ispagna, per esserglisi trovata
in casa una boccia di vetro con dentro uno di quei diavoli detti
diavoli di Cartesio[565]. Col Santo Uffizio c’era poco da scherzare, e
chi ci si lasciava cogliere il dito non era mai sicuro di non averci
a passare con tutta la persona, cioè a dire di non finire nel fondo
di una prigione perpetua, o sopra un rogo. Oltre a ciò le donne di
mala vita erano in fama di ricorrere volentieri alle fattuccherie, e
lo Zoppino fatto frate, nel già citato Ragionamento dell’Aretino, ne
ricorda parecchie, strane, orribili e disgustose, di cui quelle usavano
per trarsi in casa gli innamorati[566]. Le accuse mosse alla Veronica
dovevano dunque, ai giudici del Sant’Uffizio, sembrar tutt’altro che
inverosimili, e se costei riuscì a purgarsene, come fece, il merito è
senza dubbio, assai più suo che loro.
Non col solo tribunale ecclesiastico ebbe briga la Veronica; l’ebbe
anche coi tribunali civili. Le lettere di lei contengono accenni a
due diverse liti[567], di cui ignoriamo le ragioni. L’una, trattata
durante un’assenza della Veronica da Venezia, e vinta da lei, l’aveva
provocata un gentiluomo di mala fede, dalle cui promesse ella s’era,
_per bontà di natura_, lasciata ingannare. L’altra non sappiamo che
esito avesse; sappiamo solo che l’avvocato, a cui la Veronica aveva
affidato il patrocinio del proprio diritto, trascurava il suo officio e
non veniva a capo di nulla, tanto che costei gli chiese la restituzione
delle carte a lui affidate. Entrambe le avranno, senza dubbio,
procacciato noje parecchie, e a tali noje accenna ella forse, quando
parla di occupazioni che _a guisa d’idra_, più ella le tronca, più le
si vanno moltiplicando d’attorno[568]. Ma non furono queste, di certo,
le sole sue noje. In più e più luoghi delle rime e delle lettere ella
accenna a fastidii gravi, senza dir quali fossero: una volta giunge a
parlare dell’_empio stile della sua iniqua fortuna_[569]. E la salute
non l’ajutò sempre, anzi le si fece, sembra, assai cagionevole. In
una delle sue lettere dice: «mi sento per continuo uso sì fattamente
indisposta, che mal posso affaticar l’ingegno e la penna»[570]. E nel
costituto presentato al Sant’Uffizio, quando fu accusata dal Vanitelli,
dichiara: «In questo anno mi ho amalado assai volte, ed ha mo un anno
sono stata 4 mesi amalada che mai mi ho movesto di letto». Notisi che
la Veronica non aveva allora più di trentaquattro anni.
Può darsi, anzi è probabile, che il venirle meno della salute fosse
per lei come un avvertimento e un ammonizione d’avere a cambiar vita;
ma altre cagioni ancora debbono, in quel medesimo anno 1580, averla
disposta e avviata alla conversione, con cui, al par della Tullia e
di molte altre cortigiane famose chiuse la sua carriera. Il processo
fattole dal Santo Uffizio, il pericolo corso, e le molestie sofferte,
non avranno mancato di aggiungere sollecitazioni e stimoli al desiderio
che già forse l’era sorto nell’animo, infervorando in lei, per una
parte, il sentimento religioso, che, del resto, nelle lettere si
appalesa sempre assai vivo, e aumentando, per l’altra, la sazietà
e il disgusto della vita cortigianesca. Quella vita, di cui tanto
rammarichio fece sul tardi la Tullia, anche alla Veronica non andò
troppo a genio; se non negli anni suoi più verdi, il che mi parrebbe
temerario affermare, almeno in quelli alquanto più maturi. Di ciò è
documento una lettera con cui ella tentava dissuadere una madre dal
far cortigiana la propria figliuola. La Veronica s’era profferta di
far accettar la fanciulla nella così detta Casa delle zitelle, e di
ajutarla del suo; ma la madre, sorda ai buoni consigli, e noncurante
delle profferte, si ostinava nel tristo proposito. La Veronica allora
le fa intendere il suo risentimento, e le dipinge con assai foschi
colori la _profession_ delle cortigiane, «nella quale ha gran fatica di
riuscir chi sia bella, e abbia maniera e giudizio e conoscenza di molte
virtù». Non è vita più misera e più vile di quella delle cortigiane.
«Troppo infelice cosa, e troppo contraria al senso umano, è l’obbligar
il corpo e l’industria di una tal servitù, che spaventa solamente a
pensarne; darsi in preda di tanti, con rischio d’esser dispogliata,
d’esser rubata, d’esser uccisa; ch’un solo un dì ti toglia quanto con
molti in molto tempo hai acquistato, con tant’altri pericoli d’ingiurie
e d’infermità contagiose e spaventose». Credete a me, ella dice, tra
tutte le sciagure mondane questa è l’estrema; e gran mercè se non
fosse più oltre che mondana; ma le si aggiunge _certezza di dannazione
eterna_[571].
Un’altra ragione non vorrei togliere, o almeno non vorrei togliere
in tutto, alla conversione della Veronica; gli anni che la
sopraggiungevano. Nel 1580 quegli anni non erano ancora molti, ma
non erano nemmeno pochi per la professione di cortigiana, e d’una
cortigiana che aveva una riputazione da serbare, un nome famoso da
tener alto. Scorse ella alcun segno di scemato ardore negli amanti
suoi? conobbe minore la frequenza degli ammiratori intorno al suo
uscio? o vide ella stessa, nel suo volto, alcuna di quelle tracce
lasciate dalla mano villana del tempo inesorabile, che consigliavano
l’antica donna galante a dedicare a Venere lo specchio:
Dico tibi Veneri speculum, quia cernere talem
Qualis sum nolo, qualis eram nequeo?
Impossibile affermarlo; ma non improbabile certo; come improbabile
non è che il rinunziamento e la conversione non siensi compiuti senza
qualche combattimento e qualche angoscia. Il sonetto seguente pare ce
ne faccia testimonianza[572]:
Ite, pensier fallaci, e vana spene,
Ciechi, ingordi desir, acerbe voglie,
Ite sospir ardenti, amare doglie,
Compagni sempre alle mie eterne pene.
Ite memorie dolci, aspre catene
Al cor, che alfin da voi pur si discioglie,
E ’l fren della ragion tutto raccoglie,
Smarrito un tempo, e in libertà pur viene.
E tu, pura alma, in tanti affanni involta,
Slegati omai, e al tuo Signor divino
Leggiadramente i tuoi pensier rivolta.
Sforza animosamente il tuo destino,
E i lacci rompi, e poi leggiadra e sciolta
Drizza i tuoi passi a più sicur cammino.
Chi non sente in quelle _memorie dolci_, che si vogliono sbandire
per sempre dall’anima, tremare un sospiro? In un altro sonetto,
indirizzato a quel Bartolommeo Zacco di cui ho già fatto parola, la
Veronica accenna alla conversione ormai compiuta, a un alzarsi al
cielo dell’anima sua. E lo Zacco, che ricordava forse altri ardori, e
altri accenti dell’amica sua, rispondeva con un sonetto per le rime,
confortando e lodando[573].
Ma la prova più sicura della conversione non istà in questi sonetti;
sta nel disegno che ella formò, l’anno 1580 appunto, di fondare un
ricovero per le donne traviate che volessero lasciare il mal costume.
C’era allora, gli è vero, in Venezia, come altrove, un monastero delle
Convertite; ma di regola troppo stretta ed austera[574]. La Veronica
voleva, non un monastero, ma una casa, dove tali donne potessero
ricoverarsi anche coi loro figliuoli, qualora ne avessero. A tal fine
compose un memoriale da presentare al doge e alla Signoria[575]. In
esso offriva di adoperarsi ella stessa per la nuova fondazione, e
prometteva di mostrare, quando fosse accettata la sua proposta, come si
potesse provvedere alla spesa senza gravare in modo alcuno l’erario.
Confessava in pari tempo, esagerando senza dubbio un pochino, di
trovarsi in povero stato, insieme coi figliuoli suoi, e con alcuni
nipoti, figli di un fratello di lei, morto di peste alcuni anni
innanzi, e chiedeva, sulle somme che si raccoglierebbero seguendo i
suoi suggerimenti, cinquecento ducati annui, da devolvere poi agli
eredi. Non pare che cotesto memoriale sia stato mai presentato; ma la
Veronica dovette far conoscere egualmente il suo disegno e acquistargli
fautori. In fatti, in quel medesimo anno sorse, presso la chiesa di San
Niccolò da Tolentino, e sotto la protezione di San Giorgio, la Casa
detta del Soccorso, governata da nobili dame, aperta, non solamente
alle peccatrici ravvedute, ma anche alle mogli che fossero separate
dai mariti. La Veronica non vi si chiuse, nè, con tanta famiglia
intorno, avrebbe potuto farlo; ma vide l’ospizio preconizzato da lei
tramutarsi d’uno in un altro luogo, crescere e prosperare[576]. Che,
dopo fondato, la Veronica v’abbia avuto ingerenza non sembra; ma era
tradizione ancor viva nel secolo scorso tra le donne ricoverate, che
la figura principale di un quadro rappresentante appunto l’Opera
pia del Soccorso, e dipinto per la chiesa del medesimo nome da
Carletto Caliari, ritraesse la cortigiana pentita[577]. Una supplica
indirizzata, non so in quale anno, dai direttori del pio luogo al doge,
svela il segreto della Veronica, il modo cioè ch’ella aveva trovato
per far denari, accennato da lei nel memoriale, ma non chiarito: essi
chiedono che, conformemente al pensiero di lei, si concedano alla Casa
del Soccorso i beni delle meretrici domiciliate e morte in Venezia;
per intero, se morte senza figliuoli legittimi, o naturali, e senza
far testamento; per una metà soltanto se morte senza figliuoli, ma dopo
fatto testamento[578].
Riconciliata con Dio; dimenticata forse dagli antichi amici, ma
benedetta dalle sventurate cui aveva additata la via della salute, e
aperto un asilo di perdono e di pace, la povera Veronica morì in età
ancor fresca. Nei Necrologi del Magistrato alla Sanità si legge questo
laconico ricordo: _1591, 22 luglio. La Sig.ra Veronica Franco d’anni 45
da febre già giorni 20. S. Moisè_. E non se ne sa altro.

V.
Giunti a questo punto, prima di dare un ultimo, ma forse non dispettoso
addio alla cortigiana morta, torniamo col pensiero un istante alla
cortigiana viva.
Povera Veronica! Non so se una pietà che potrà sembrare male spesa a
parecchi mi faccia velo al giudizio, ma pare a me che costei fosse
assai migliore del mestier suo. Non cerchiamo in lei virtù che
non possono essere in cortigiana: cortigiana ella è; ma chi potrà
mostrarmene un’altra che sia più dabbene di lei? A molte cose che di sè
ella o dice, o lascia intendere nei capitoli e nelle lettere, possiamo
non credere; ma non possiamo non credere a tutte, perchè certe bugie,
subito conosciute da chi la frequentava, le avrebbero nociuto e non
giovato, e perciò ella non ci aveva interesse a dirle. Che l’animo suo
fosse naturalmente buono non credo si possa negare, e tutti sanno del
resto come una bontà schietta e nativa s’accordi in certe nature col
disordine e col mal costume. E nemmeno si può negare, credo, ch’ella
sentisse delicatamente, e fosse per natura inclina a gentilezza, come
le molte volte non sentono e non sono, salvo che in apparenza, donne
virtuosamente educate e, magari, virtuosamente vissute. Queste cose
non si possono provare con documenti autentici e con affermazioni
di testimoni; un pochino bisogna indovinarle. Nel memoriale testè
ricordato la Veronica, dolendosi di sua povertà, dice di dover pensare
al sostentamento e al collocamento di parecchi nipoti: ora, se amava
i figliuoli di suo fratello a segno di farsi loro madre, come potremmo
credere che non amasse i figliuoli suoi proprii? come negheremmo fede
alle sue parole, quando, scusandosi con un amico d’avere molto tardato
a scrivergli, narra commossa che due suoi figliuolini le si erano
ammalati di vajuolo ad un tempo, ond’ella fu _occupata e addolorata
fuor di misura_?[579]. Abbiam veduto che a una madre avida e malvagia
ella offriva di far accogliere la figliuola in un asilo, a proprie
spese. Il testamento del 1570 ci dice ch’ella aveva adottato _per fiol
di anema_ il figliuolo di una sua cameriera, chiamato Andrea. Queste
mi pajono prove notabili e non dubbie di bontà e di gentilezza; ma se
ne possono recare dell’altre. La Veronica fu certo capace di amicizia
sincera e operosa: ho già detto che agli amici si profferiva con molta
buona grazia per qualunque servizio ella fosse in grado di rendere
loro. Nel già citato capitolo XV, espressa la speranza che l’amante suo
assente abbia presto a tornare, accenna alla malattia del colonnello
Francesco Martinengo, uno, come s’è veduto, degli amici suoi, e dice:
Mi resta un poco di malenconia,
Ch’egro è ’l mio colonnello, ed io non posso
Mancargli per amor e cortesia;
Sì che gran parte d’altro affar rimosso,
Attendo a governarlo in stato tale,
Ch’ei fora senza me di vita scosso.
In un altro capitolo, il XXIV, ella riprende assai vivamente un tale
di cui le era stato detto come avesse offesa in mal modo una donna
innocente, anzi di lui innamorata, e percossala ancora, e minacciatala
di tagliarle il viso:
Ma voi la minacciaste forte allora,
E giuraste voler tagliarle il viso,
Osservando del farlo il tempo e l’ora.
Strano mi parve udir d’un uom diviso
Dai fecciosi costumi del vil volgo
Un cotal nuovo inaspettato avviso.
Come potè un uomo,
De la virtute amico e de l’onesto,
giungere a tanto eccesso? ella gli ricorda che l’ingiuriar donne è cosa
assai disdicevole, e da cui
La civiltà de l’uom gentile abborre.
Non sono questi tutti segni di bontà e di gentilezza? e ne mostrerò
un altro ancora, che sarà l’ultimo. Il servo di certo amico aveva
disobbedito alla Veronica, di che il padrone voleva castigarlo
aspramente. E la Veronica a scrivere a costui, e a cercare di
dissuaderlo da quel proposito, pregando, e, se occorre, comandando che
perdoni, come ella ha perdonato, e ricordandogli che «la paura e ’l
disprezzo nuocciono grandemente alla cura famigliare, la qual cerca
per suo fondamento il rispetto non diviso dall’amore», e che i castighi
troppo severi riescono al contrario di ciò che si spera[580].
Mi si dirà che, assai probabilmente, la Veronica faceva così, si
atteggiava a donna di gentili e magnanimi sensi, ad arte, e per ragione
di un ben inteso interesse. Non voglio dar troppa importanza a ciò che
la Veronica dice di sè, quando afferma di non essere donna ingorda e
venale[581]; ma rispondo che, più probabilmente ancora, la Veronica
sapeva conciliare, nelle parole e negli atti, l’interesse, ch’era una
triste necessità della sua condizione, con la bontà, ch’era una gentile
virtù del suo animo. E un’altra cosa mi sembra di poter dire. Per quel
tanto che noi sappiamo della sua vita; per quel tanto che dell’indole
sua ci rivelan gli scritti, ella doveva essere donna di un pensar
risoluto, di un sentir vivo, di un procedere franco, e di parole e di
modi, per quanto la professione gliel consentiva, semplici e schietti;
una natura gioconda, impulsiva, spontaneamente affettuosa. Per tutti
questi rispetti io non mi perito di porla molto sopra a quella leziosa,
a quella svenevole di Tullia d’Aragona, che, essendo cortigiana, si
dava aria di duchessa, di musa, di ninfa, tutta contegno, e tutta
schifiltà[582].
Se certe buone qualità morali sono nella Veronica più che probabili,
certissime sono certe qualità intellettuali, buone e non volgari. Tutti
gli scritti suoi ci mostrano in lei uno spirito vivo ed accorto, un
giudizio assennato, una fantasia colorita, un gusto spesso delicato.
Le opere sue, quelle cioè che giunsero sino a noi e furono date
alle stampe, ci son già passate dinanzi; ma non tutte quelle ch’ella
compose ci giunsero. Del poema epico accennato da Muzio Manfredi non
si conosce nemmeno il soggetto, nemmeno il titolo. Le poesie di lei,
secondo si ricava da certi cenni delle lettere, dovettero essere assai
più di quelle che noi conosciamo, e saranno state anche molto più
varie, per soggetti, per metri; e il simile dicasi delle lettere, che
ella scriveva con molta frequenza, a molti. Mancandoci tanta parte
dell’opera di lei, non possiamo formarci della letterata un concetto
esatto ed intero; ma di alcune qualità sue, e di alcuni difetti
possiamo darci conto tanto che basti.
La Veronica (e in ciò ha compagni in gran numero) riesce assai meglio
nel verso che nella prosa. Alcuni de’ suoi capitoli, sebbene non
possano gareggiare coi migliori di quel secolo, che tanti ne produsse,
sono scritti con molta schiettezza di pensiero e di forma, con calore,
con brio, in buona lingua, e con un far risoluto, in che sta forse
la maggior loro attrattiva. Si vede in essi che la Veronica rimava
con facilità e con piacere. Nei men buoni invece abbondano i luoghi
comuni, gli ornamenti e i colori poetici di cattiva lega. La prosa
delle lettere, la sola che conosciamo (per tacere del constituto e del
memoriale che non sono scritture letterarie, e non furono forse nemmeno
dettate da lei) è in generale artifiziata, ampollosa, affettata. La
Veronica sapeva bene che nelle lettere famigliari si deve attendere
più al vero affetto che alle molte parole[583]; ma in pratica non
seguitava poi sempre quel giusto precetto; e se, anzichè a persone
famigliari, doveva scrivere a persone troppo maggiori di lei, se ne
scordava affatto, montava in trampoli, lambiccava i concetti, gonfiava
le parole, e non trovava più il verso di finire i periodi. La lettera
al Duca di Mantova, più che mezzanamente lunga, è tutta in un solo
periodo, e ci si sente un miglio di lontano il Seicento, il Seicento
che vien oltre a gran giornate, anzi si può dire sia già venuto, in
ispirito. Essa comincia così: «Se ben lontanissima corrispondenza,
e quasi disproporzionata proporzione si trova tra le chiarissime
virtù dell’Altezza Vostra e ’l mio desiderio d’onorarla e degnamente
servirla, sì che tutto quello ch’io potessi fare in questa impresa,
sarebbe men che ombra a paragon del vero; nondimeno, in quello dove
mi son mancate le forze, e i convenevoli concetti di celebrarla, ed
esaltarla, m’è sopravanzato l’animo d’esprimerle questo mio virtuoso se
ben impossibile desiderio», _ecc. ecc. ecc._ Le lettere a Enrico III
e al cardinale d’Este sono sul medesimo tono; ma parecchie di quelle
scritte a uomini e non a semidei sono dettate con molta più naturalezza
e semplicità, e riescono di gran lunga migliori. E migliori anche
di queste possiamo credere fossero le molte di carattere veramente
famigliare e intimo ch’ella scriveva giorno per giorno, come la penna
gettava, e senza alcun pensiero di farle stampare. Queste, assai più
dell’altre, ci avrebbero fatto pro, e sono da noi desiderate.
Le _Terze rime_ e le _Lettere_ della cortigiana veneziana non si
ristamparono più mai, tanto che diventarono libri di meravigliosa
rarità, desiderio ardente e inappagato di bibliofili senza numero,
orgoglio di alcuni pochissimi più venturati. Ebbero onor di ristampe
invece il _Dialogo della infinità d’amore_ e il _Guerin Meschino_
in ottava rima della Signora Tullia; ma chi in questo fatto volesse
scorgere una prova di maggior merito, s’ingannerebbe a partito.
La sentenza dell’arguto poeta latino circa la fortuna dei libri si
conviene ai libri delle cortigiane, come a tutti gli altri.
Quando la Veronica venne a morte molt’altre cose morivano di cui ella
era stata spettatrice e parte non ultima. Moriva quel secolo turbolento
e fecondo, luminoso e corrotto, innovatore e carnascialesco; morivano
gli spiriti di quella prestigiosa coltura; moriva la prosperità di
Venezia; moriva, o s’assopiva in lungo torpore il genio d’Italia. Se
non fosse Ninon de Lenclos, Veronica Franco sarebbe l’ultima delle
cortigiane illustri, delle redivive etère, e in Italia è l’ultima
veramente. Dopo di lei le cortigiane ridiventano semplici meretrici,
spesso belle, spiritose, eleganti, garbate, ma senza gloria e senza
nome. I poeti si scostano da loro e si volgono a celebrare, tra
i laureti d’Arcadia, le Corille e le Clori, non sempre più delle
cortigiane virtuose, ma più leziose e più sciocche d’assai.

APPENDICI

APPENDICE A
IL VANTO E IL LAMENTO DELLA CORTIGIANA FERRARESE[584]
IL VANTO
Venite, o cortegiani e lieti amanti,
Ogni signore, principe e marchese,
Sentir mia gloria e fama tutti quanti.
Io son quella famosa Ferrarese,
Che porto el vanto, lo scettro e l’onore
Di beltà e pompa, gentile e cortese.
Io sento tanto gaudio nel mio core,
E ne la mente infinita dolcezza,
Tra l’altre essendo di bellezza il fiore.
Tanto in me regna amore e gentilezza,
Con dolce e lieta faccia ed atti fieri,
Ch’ogni signor per me ciascuna sprezza.
Io ho duo occhi più che corbo neri,
Che chi li guarda resta stupefatto,
E prigion fassi a me ben volentieri.
Il ciglio ho raro, ch’è sottile e tratto.
Le labra di corallo e ’l dolce riso,
D’onde resta ciascun preso e legato.
La bella fronte, il rilevato viso,
E ’l naso profilato infra due rose
Hanno a molti signori el cor reciso.
La lingua ho chiara in proferir le cose,
D’avolio i denti, e l’alito suave,
Che chi ne gusta fa mettersi in crose.
La mia bocchina dolce è una chiave
Ch’apre le borse e fa chiamar mercede,
E rallegra chi fussi in doglie prave.
La gola ho d’alabastro, a la qual cede
La neve, e ’l petto, e l’acerbe pomelle.
Che strugger fan ciascun che quelle vede.
Le parti ho poi secrete più che belle:
Come ognun pensa tal dolcezza hanno,
Che muor di voglia chi ben pensa quelle.
Le bianche mani que’ be’ lavor fanno;
Mia leggiadra persona e ’l picciol piede
Metton ciascun signor in doglia e affanno.
Di quindici anni son, come si vede,
Grassetta, morbidina e solazzosa,
E la prova ne faccia chi nol crede.
Benigna, saggia, accorta e graziosa,
Domestica, piacevole e galante,
Ch’ogn’altra presso a me par brutta cosa.
D’oro, velluto, seta ho veste tante,
Con fine pietre e perle lavorate;
Assai n’ho più de l’altre tutte quante.
D’oro e di seta camice increspate
Di finissima rensa ho più di cento,
Con calze e scarpe a più fogge tagliate.
E per mostrar mia pompa e valimento
Al collo una catena porto tale
Che val ducati d’oro almen dugento.
Un’altra non conosco a me eguale,
C’habbi la casa come me fornita
Di pane, legne, vino, olio e sale.
Una credenza ho d’argento forbita.
Le tavole, le mura, panche e casse
Di tappeti e d’arazzi ognun vestita.
Ho di panni di lino le gran masse,
Più che candida neve delicati,
Ch’ognun che quelle vede stupefasse;
Tutti di fin profumo profumati;
Zibetto e muschio in copia ho tuttavia,
Che da più gran signor mi son donati.
Non può dove son io esser moria,
Tanta suavità e tanti odori
Adosso porto per galanteria.
Sempre son con gran principi e signori
A feste, a comedie, a suoni e canti,
Con molte mie fantesche e servidori.
Beati son per me tutti gli amanti;
Ognun servitor m’è ed io signora,
Signora a dar la berta a tutti quanti.
Ognun per me si distrugge e divora,
Ciascun mi profferisce argento ed oro,
L’alma e la vita offerendomi ancora.
E per far noto a tutti il mio lavoro,
Un sacco di danari ho in mia balia,
Dove tengo per mio miglior ristoro.
Una mensa da re ho tuttavia,
Abbondante di quaglie e di capponi
Con pernici e fagiani in compagnia.
Pollastri, fegatei, torte e piccioni.
Con savor bianchi e neri, e con guazzetti,
Insieme con molti altri buon bocconi.
Vin bianchi e ner delicati e perfetti,
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