Attraverso il Cinquecento - 12

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La buaggine dei pedanti non poteva mancare di portare acconcio
argomento ai novellieri. Nelle _Cene_ di quel ghiribizzoso ed arguto
ingegno del Lasca son due novelle in cui si narrano burle atroci fatte
appunto a pedanti. Nella prima è un _leggiadro, accorto e piacevole
giovane_, il quale dopo essere stato sette anni sotto la guardia di
un pedagogo, _il più importuno e ritroso che fosse giammai_, trova,
passati altri dieci anni, la opportunità di vendicarsi delle noje
infinite e del danno che ne aveva avuto, e si vendica in modo bestiale,
che io non ridirò[304]. La seconda narra di un altro pedante, il
quale, essendo, come i più de’ suoi pari, _villano, dappoco, povero,
senza virtù e brutto_, ardisce, nullameno, innamorarsi di una giovane
bellissima e nobile, e le scrive lettere, e compone in lode di lei
ballate e sonetti, i più ribaldi che mai si vedessero, e un capitolo
_che non n’avrebbero mangiato i cani_. Il fratello della fanciulla, e
alcuni amici suoi, per punirlo di tanta tracotanza, fattogli credere
che l’amor suo fosse corrisposto, riescono una notte a trarselo in
casa, e quivi, in iscambio del piacere ch’ei si aspettava, gli dànno
tante frustate quante non ne può portare, lasciandolo mezzo morto;
poi un fantoccio fatto ad immagine sua, e rivestito de’ suoi panni,
pongono alla gogna di Mercato Vecchio, e lui da ultimo, dopo avergli
con una fiaccola arso la barba e i capelli, empiendogli di vesciche il
viso, e fatto un altro scherzo da non ricordare, cacciano fuori ignudo,
sotto una pioggia dirotta[305]. Un altro pedante innamorato e burlato
comparisce in una novella di Pietro Fortini[306]: a costui tocca in
premio di rimaner sospeso a mezz’aria per una fune che doveva trarlo
sino alla finestra della donna amata; burla a cui, in certi racconti
del medio evo, si vede assoggettato Virgilio, o Ippocrate.
Assai più che la poesia fidenziana non faccia, queste novelle mostrano
il mal animo che s’aveva contro i pedanti; ma il genere di componimento
in cui la satira che li flagella si fa più piena e vigorosa, è la
commedia, perchè nella commedia il pedante viene in persona a far
mostra di ogni ridicolaggine sua, e ad esporsi al riso e alle beffe.
Padre o progenitore di quanti pedanti comparvero nel Cinquecento, e
poi, sulla scena può considerarsi quel Ludus, che nelle _Bacchidi_ di
Plauto non intende nulla delle inclinazioni e dei bisogni dell’alunno,
nulla dell’amore, nulla di molte altre cose, e predica inutilmente una
inutile sapienza, odiato dal giovane, che non cura i suoi avvertimenti,
non sostenuto dal padre, che ricorda di aver fatto a’ tempi suoi ciò
che appunto fa ora il figliuolo. Ma sarebbe errore il credere che
gli innumerevoli pedanti della cui presenza si allegrano le commedie
del Cinquecento, altro non sieno che riproduzioni di quel primo tipo
plautino. I commediografi potevano bensì tener quel tipo presente
e giovarsene; potevano anche copiarlo in tutto o in parte, come, a
mo’ di esempio, fecero, Lodovico Domenichi nelle _Due Cortigiane_,
e il Bibbiena nella _Calandria_; ma non avevano poi che a guardarsi
d’intorno per trovar vivo e vero il comico personaggio, e bello e
pronto a passare dalla scuola alla scena. Il pedante di quelle commedie
nostre risale dunque, se vuolsi, come il servo imbroglione, come il
parassita affamato, come il capitano millantatore, a una figura del
teatro latino; ma è, bisogna tenerlo presente, più originale, più
autonomo di tutti costoro, e ci si presenta sotto una moltiplicità di
aspetti, con una varietà di movenze, che il servo, il parassita, il
capitano non conoscono.
Michele Montaigne dice in uno de’ suoi Saggi[307]: «Je me suis souvent
despité en mon enfance de voir ès comedies italiennes toujours un
_pedante_ pour badin». In fatto, il pedante che doveva poi trovar luogo
anche nella commedia francese, compare assai per tempo nella italiana.
La già citata _Calandria_ del Bibbiena, rappresentata la prima volta
in Urbino fra il 1504 e il 1508, ce ne mostra il primo esempio. Il
Polinico della _Calandria_, modellato sopra il Ludus delle _Bacchidi_,
già offre alcuni dei caratteri per cui più spicca il pedante sul
teatro; ma alcuni soltanto, e quelli ancora hanno poco rilievo, come
del resto par che si addica all’indole fiacca della intiera commedia.
Egli è bensì, come la regola vuole, poco ascoltato dal discepolo Lidio,
e molto beffato dal servo Fessenio; ma parla lingua piana e naturale,
non l’intruglio di latino e di volgare che tutti i pari suoi usano
sulla scena. Del resto egli non comparisce che una volta sola, e nulla
conta nell’azione.
Nelle commedie dell’Ariosto non troviamo pedanti, nè in quelle di
Francesco d’Ambra, nè in quelle di Giambattista Gelli, di Agnolo
Firenzuola, di Girolamo Parabosco, del Varchi, del Salviati, del
Cecchi, del Lasca, e di molti altri di cui sarebbe assai lunga la
lista. Il Lasca scrisse bensì una commedia intitolata _Il pedante_,
ma egli stesso poi, non sappiamo il perchè, la diede alle fiamme.
Ritroviamo il pedante in due commedie di Pietro Aretino, nel
_Marescalco_ e nella _Talanta_, e se quello della Talanta somiglia
molto al Polinico della _Calandria_, e non merita gli sia fatta
attenzione, quello del _Marescalco_ tocca già la pienezza del carattere
comico che gli si appartiene, e vuol essere considerato come un modello
imitato dopo da molti. Il _Marescalco_ fu stampato la prima volta
nel 1533, e da indi in poi le commedie in cui ha parte il pedante si
moltiplicano fuor di misura: non essendomi possibile di tener dietro
a tutte, e nemmeno di esaminare partitamente e raffrontar tra loro le
principali, io mi contenterò di levare da questa e da quella quanto mi
parrà più acconcio a dare una immagine, non di uno o di altro pedante
in particolare, ma del personaggio in genere.
Come il capitano si dà a conoscere agli spettatori, prima ancor di
aprir bocca, per quella durindana che si trascina dietro, per quella
andatura che pare dia la mossa ai tremuoti, per quella guardatura a
stracciasacco, il pedante dà subito contezza di sè per quel libro
che ha in mano, per quel cappelletto frusto che gli coperchia il
cucuzzolo, per quella gabbanella logora, o per quella toga sdruscita
che lo insacca. Incede compassato, aggrotta le ciglia, leva in alto
l’indice rigido di magistral sufficienza, e da tutta la sua strana
e sparuta figura trasuda la dappocaggine, l’albagia, l’arroganza
e, spesso spesso, la fame. Alle prime parole che gli escon di bocca
l’uditorio si sganascia dal ridere. Egli parla con dottoral gravità,
con sostenuto compiacimento il nobile linguaggio che lo distingue
dal volgo, e poichè nessuno lo intende, si lagna d’aver a fare con
gente grossa ed ignorante. «Non è più satievole et ispiacevol cosa»,
dice Metafrasto nei _Torti amorosi_ di Cristoforo Castelletti, «che
volere aguzzare questi ingegni rozzi, zotichi, scabri, ferruginei,
rubigginosi, rintuzzati e sciocchi»[308]: e nei _Vani amori_ del
Loredano Alfesibeo rimprovera a Torello e Fabrino la loro ignoranza:
«Per essere voi persone idiote e di ottuso cerebro sete esclusi da i
termini di apprehendere gli eloquii retorici, e le speculate figure de
i grammatici»[309]. Allora, come l’Ermogene della _Prigione d’amore_
di Sforza degli Oddi, egli si restringe col suo «Tullio, ad accozzare
insieme tutti i luoghi topici»[310]. La lingua che il pedante parla
di solito è, come s’è inteso, un guazzabuglio di latino e di toscano;
ma questa regola non è senza eccezione. Archibio, nel _Travaglia_ del
Calmo, usa una mescolanza di latino e di bergamasco; Favonio, negli
_Errori_ di Giacomo Cenci, una di latino e di siciliano; Melano nel
_Giardino d’amore_ di Lorenzo Guidotti (secolo xvii) una di latino
e di napoletano. La composizione dell’intruglio varia, secondo che
prevale l’uno o l’altro elemento, e varia ancora la intelligibilità di
esso. Dal non potere o non volere gli altri personaggi della commedia
intendere ciò che il pedante dice, nascono errori, bisticci, diverbii
ridicoli. Nell’_Interesse_ di Niccolò Secchi, Lelio, che è femmina
in vesti maschili, e amante di Fabio, volge a significato osceno, per
adattarlo alla condizion propria, il senso delle parole di Ermogene,
suo pedante. Del gergo del pedante dice il parassita Ciacco nel
_Ragazzo_ di Lodovico Dolce: «Le parole di questo babuasso, mezze per
lettera e mezze per volgare, mi pajono di quegli animali antichi, che
avevano l’aspetto d’uomo e i piè di capra»[311]. Vedendo di non poter
essere inteso, il pedante si risolve talvolta di parlate _idiotamente_,
come nel _Marescalco_ dell’Aretino[312], ma non ci riesce. Sofronio,
nelle _Stravaganze d’amore_ di Cristoforo Castelletti, oltre che nel
solito gergo, parla anche in prosa rimata: «È vana cotesta temenza:
perchè le quadrella de la favella che l’arco di qualunque, quantunque
mordace, bocca iscocca, non sono a fieder possenti le persone lontane,
ecc.»[313].
Il pedante da commedia, come quello vero, di regola non fa stima che
della lingua latina e degli scrittori latini; ma se egli si risciacqua
del continuo la bocca coi nomi di Cicerone e di Virgilio[314], qualche
volta anche si vanta di aver sulle dita le eleganze toscane, di
conoscere a fondo i gran maestri dell’idioma volgare. Il già ricordato
Metafrasto dei _Torti amorosi_ cita Dante e il Boccaccio; Agasone nella
_Fanciulla_ di Giambattista Marzi, e Aristarco negli _Ingiusti sdegni_
di Bernardino Pino, leggono certe stanze da essi composte a imitazione
del Petrarca; Aristarco si vanta di avere commentato la _duodecima_
giornata del _Decamerone_[315]. Ma un genere di componimento di cui
molto si compiace il pedante è il sonetto volgare con le rime latine.
Il pedante del _Marescalco_ ricorda certa sua maccheronea; ma questa è
una eccezione.
Dice Sofronio nelle _Stravaganze d’amore_: «I nostri ragionari deono
esser puri, sinceri, schietti, candidi, ignudi d’ogni velo di stomacosa
affettatione»[316]; ma noi abbiam già veduto come egli osservasse
i proprii precetti. Parlando, il pedante di buon conio osserva la
gradazione, nota figure grammaticali e retoriche, bolla solecismi,
propone etimologie, reca in mezzo definizioni, adduce sentenze,
cita autori, chiosa testi, apre e chiude parentesi, indica persino
l’interpunzione. Non è mai al proposito. Di qualunque cosa gli si
parli, anche quando più stringa il bisogno, egli toglie occasione a
trarre in mezzo qualche bella autorità, o qualche esempio notabile,
ed essendo tutto parole, si vanta, come l’Aristarco degli _Ingiusti
sdegni_, che se molti fossero i pari suoi, tosto tornerebbero al
mondo gli Antonii, i Catulli, i Crassi, i Gracchi e quegli altri
omaccioni del tempo antico[317]. Argomenta secondo tutte le forme del
sillogismo, concede la maggiore, nega la minore, e tenendosi sempre a
cavallo della logica, dice spropositi da cavallo. Ha sempre qualche
regola generale da applicare al caso particolare, non mai qualche
avvedimento o consiglio che possa far pro. Ha egli da ammonire un
giovane innamorato? La natura d’amore si è questa, e Platone dice
così. Si duole taluno con lui di cosa che gl’intravenga? Udite questo
passo di Seneca. Vuol egli biasimare i suoi tempi? Eccolo con l’_auri
sacra fames_, e l’_o tempora, o mores_. Gli è la troppa dottrina che
porta così: Agasone confessa che l’avere troppo famigliare Cicerone
talvolta gli nuoce[318]. Come non dar ragione a Flaminio, quando,
dopo aver sopportato un pezzo i nojosi discorsi del suo precettore,
esclama: «Io non credo che sia il più ladro romper di testa, nè il più
crudo crepacuore che l’esser sforzato di dare orecchia a uno di questi
pedanti!»[319].
Il discepolo che, come quello introdotto da Persio in una delle
sue satire, è sempre svogliato, e a cui un primo amore moltiplica
nell’animo l’odio nativo al giogo magistrale, e il servo che gli tien
di mano, sono i primi e più naturali nemici del pedante, ma non sono
i soli. De’ personaggi che gli stanno intorno nessuno gli è amico
propriamente, nemmeno il padre dell’alunno, ed egli è sempre alle prese
con capitani, con bari, con parassiti, con parabolani, con baldracche,
bastonato spesso, deriso e vituperato sempre. Nel _Marescalco_, un
giovane paggio e quella mala zeppa di Giannico gli appiccan dietro
certi scoppietti, cui poi dan fuoco; nel _Travaglia_ del Calmo è preso
a sassate da un Garbino, ragazzo; nell’_Altea_, di Giovanni Sinibalbo
da Morro, è messo in un sacco; nella commedia di Francesco Bello,
appunto intitolata _Il Pedante_, egli, sebbene si dica _eletto et
approbato da sua Santità, censore et maestro regionario, con stipendio
congruo et condecente_, finisce solennemente picchiato. Non dico nulla
delle beffe e dei biasimi, che cominciano con istravolgere nelle più
strane guise il nome del malcapitato, nome già di per sè molte volte
ridicolo[320], e finiscono con invettive e contumelie. Metafrasto è
dal servo Balestra chiamato _armario, archivio, calendario di tutte le
castronerie, chiavica delle sciocchezze_[321]; nell’_Altea_ di Giovanni
Sinibaldo un altro servo regala al pedante Plauto l’obbrobrioso
nome di Gano di Maganza. Nella _Turca_ di Giovan Francesco Loredano,
Agrimonio, minacciato di legnate, si salva ricordando che _gli Oratori
sono rispettati da tutte le leggi humane_; ma discepolo e servo lo
caricano di vituperii, con versi ridicoli fatti ad imitazione dei suoi.
Nella _Fantesca_ di Giambattista Della Porta, Essandro, minacciando
Narticoforo di andargli dietro sino a Roma per ucciderlo, grida: _Non
so io che abiti vicino al Culiseo?_[322]. Il povero pedante non ha che
un personaggio solo con cui ricattarsi di tutte le beffe e di tutte
le busse che gli toccano, e questo è il capitano, spesso suo rivale
in amore. Il capitano sbravazza, inveisce, ma finge di non volere
adoperar l’arme contro un vile pedante, e allora il vile pedante,
col volume che ha tra le mani, gli dà un picchio in sul capo e gli
fa levar le calcagna. Ho accennato a rivalità d’amore: non di rado
infatti il pedante è innamorato, e s’intende, senza dirlo, che di
quanti pedanti son sulla scena, l’innamorato è il più ridicolo. Allora
i suoi sospiri, i suoi vezzi, le sue smanie, le epistole amatorie che
detta, i versi che compone, i discorsi che studia e manda a memoria,
sono nuova occasione di scherno, e spesse volte di peggio. E come se
tanto non bastasse, dopo avere per tutta la durata della commedia fatto
ridere alle sue spalle, egli, non di rado, rimasto solo sulla scena,
dà licenzia agli spettatori, e con l’ultime sue parole suscita l’ultima
risata.
Il lettore non l’avrà, spero, a male, se dopo avergli mostrato qual
fosse in genere il personaggio comico del pedante, io gli faccio passar
dinanzi un po’ più a bell’agio il pedante di una particolare commedia,
il pedante più perfetto che sia sul teatro, il pedante di quella
singolarissima commedia che è il _Candelaio_ di Giordano Bruno. Egli
si chiama Manfurio e Pollula è il suo discepolo. Entrando in iscena la
prima volta, egli trova costui in compagnia di certo Sanguino, furfante
di tre cotte, e lo saluta benignamente e latinamente: _Bene reperiaris,
bonae melioris optimaeque indolis adolescentule! Quomodo tecum agitur?
ut vales?_ L’alunno si scusa in volgare di non potersi trattener oltre
con lui, ed egli:
Ho buttati indarno i miei dictati, li quali nel mio almo minervale
(excerpendoli da l’acumine del mio Marte) ti ho fatto nelle candide
pagine col calamo di negro _atramento intincto exarare_. Buttati,
dico, _incassum, cum sit_ che a tempo e loco, _earum servata
ratione_, servirtene non sai. Mentre il tuo precettore con quel
celeberrimo _apud omnes, etiam barbaras, nationes_, idioma lazio
ti sciscita, tu _etiamdum_, persistendo nel commercio _bestiis
similitudinario_ del volgo ignaro, _abdicaris a theatro literarum_,
dandomi responso composto di verbi, quali da la balia et
_obstetrice in incunabulis_ hai susceputi, _vel, ut melius dicam_,
suscepti. Dimmi, sciocco, quando vuoi _dispuerascere_?
SANGUINO. Maestro, con questo diavolo di parlare per gramuffo, o
catacumbaro, o delegante e latrinesco, ammorbate il cielo e tutto
il mondo vi burla.
MANFURIO. Sì, se questo megalocosmo e machina mundiale, o scelesto
et inurbano, fusse de’ pari tuoi referto e confarcito.
La scena seguita su questo tono, finchè Marfurio, riconciliatosi
con l’alunno e con Sanguino, gli accomiata dicendo: _Itene dunque
coi fausti volatili!_ Rimasto solo, trova una nuova etimologia di
_muliercula_, derivandola da _mollis Hercules_, e affrettandosi per
andare a notarla nel _libro delle proprie elucubrazioni_, esclama:
_Nulla dies sine linea!_[323].
Sorpasso a una scena comicissima[324] nella quale un messer Ottaviano
finge di non poter reggere alla dolcezza che gli mette nell’animo
il parlar di Manfurio, poi, fattisi recitare da costui certi versi,
scelleratissimi, muta registro e lo schernisce, scimmiottandolo;
sorpasso a un’altra[325], nella quale Manfurio legge a Pollula certi
altri suoi versi, insegnandogli l’arte di fare i punti secondo la
ragione dei periodi e a profferire con la dovuta energia; sorpasso
a una terza[326], in cui Manfurio fa derivare la parola _pedante_ da
_pede ante_, «_utpote quia_ have lo incesso prosequitivo, col quale fa
andare avanti gli erudiendi pueri», e Giovanni Bernardo, pittore, la
fa derivare da _pe_, pecorone, _dan_, da nulla, _te_, testa d’asino;
e vengo alle scene capitali, dove toccano a Manfurio gli ultimi danni
e le ultime vergogne. Corcovizzo, altro furfante, socio di Sanguino,
di Barra e di Marca, fingendo di voler cambiare sei doppioni, arraffa
a Manfurio una decina di ducati[327]. Vedendo il gaglioffo darsela a
gambe, Manfurio grida con quanto fiato ha in corpo: «Olà, olà, qua,
qua! ajuto, ajuto! Tenetelo, tenetelo! A l’involatore, al rurreptore,
al surreptore! Al fure, amputatore di marsupii et incisore di
crumene!». Accorrono Barra e Marca, i quali, fingendo di non intendere
ciò che il pedante si voglia con quel _fure_ e con quel _surreptore_,
si lasciano fuggire il ladro di mano.
BARRA ... E voi per che non cridavate al mariolo, al mariolo? che
non so che diavolo di linguaggio avete usato.
MANFURIO. Questo vocabolo che voi dite non è latino, nè etrusco, e
però non lo proferiscono i miei pari.
BARRA. Perchè non cridavate al ladro?
MANFURIO. Latro, assassinator di strada, _in qua, vel ad quam
latet. Fur, qui furtim et subdole_, come costui mi ha fatto, _qui
et subreptor dicitur a subtus rapiendo, vel rependo_, per che sotto
specimine di uomo da bene, mi ha decepto. Oimè, i scudi! . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
MARCA. Dite, perchè non correvate a presso lui?
MANFURIO. Volete voi, ch’un grave moderator di ludo literario e
togato avesse per _publica platea_ accelerato il gresso?[328].
Soppraggiunge Sanguino, il quale dice di sapere chi sia il ladro,
e dove si appiattì, e promette al pedante di fargli ricuperare gli
scudi, purchè vada con esso loro in traccia del reo. A tal fine gli
fa mutare i panni magistrali coi cenci degli altri due compari[329];
dopo di che i tre lo conducono in una casa con due porte, abitata
da certe meretrici, e lasciatolo sotto un atrio, se ne vanno
tranquillamente pei fatti loro. Questo secondo inganno è narrato dallo
stesso Manfurio[330], e non è l’ultimo: ora viene il maggiore. Ecco in
iscena Sanguino, Marca, Barra e Corcovizzo travestiti da sbirri[331]:
Manfurio, per sua disgrazia, capita loro tra’ piedi. I falsi sbirri
non lo riconoscono per maestro, fingon di credere ch’egli abbia rubato
quel mantelletto che ha indosso, lo assoggettano a un ridicolo esame,
mostrano d’intender male quanto egli dice dei generi e lo chiudono
in una stanza per poi condurlo innanzi al magistrato. Al finire della
commedia lo trascinano di nuovo sulla scena e il capitan Sanguino gli
offre di lasciarlo andar libero a patto che dia tutti i denari che ha
in borsa, o si prenda dieci spalmate, o cinquanta staffilate a scelta.
Non volendo perdere quei pochi scudi che ancor gli rimangono, il pover
uomo nega di averne ed elegge le spalmate; ma, fatto saggio delle
prime, chiede in grazia le staffilate. Barra se lo leva sulle spalle,
Marca lo tien per i piedi, Corcovizzo gli spunta le brache, e Sanguino
comincia a batter la zolfa, ordinando al pedante di tener bene il
conto.
SANGUINO. Al nome di S. Scoppettella, conta, tof.
MANFURIO. Tof, una. Tof, oh, tre. Tof, oh, ohi, quattro. Tof, oimè,
oimè! Tof, ahi, oimè. Tof, o per amor di dio, sette.
SANGUINO. Cominciamo da principio un’altra volta; vedete se dopo
quattro son sette. Dovevi dir cinque.
MANFURIO. Oimè! che farò io? Erano _in rei veritate_ sette.
SANGUINO. Dovevi contarle ad una ad una. Orsù via, di nuovo. Tof.
MANFURIO. Tof, una. Tof, oimè! due. Tof, tof, tof, tre di dio. Tof,
non più. Tof, tof, non più! chè vogliamo, tof, veder ne la giornea,
tof, che vi saran alquanti scudi.
SANGUINO. Bisogna contar da capo, chè ne ha lasciate che non ha
contate.
BARRA. Perdonategli di grazia, signor capitano, per che vuol far
quell’altra elezione di pagar la strenna.
SANGUINO. Lui non ha nulla.
MANFURIO. _Ita, ita_; chè adesso mi ricordo aver più di quattro
scudi.
Invece di quattro, gli sbirri gli trovano sette scudi, e già si
accingono a levarlo di nuovo a cavallo per punirlo con altre staffilate
di quella menzogna, quand’egli li placa, lasciando loro nelle mani,
oltre agli scudi, anche il mantello e la giornea; poi, rubato,
burlato, bastonato, ma non guarito della sua pedanteria, ricomincia a
sgramuffar come prima, e con un ultimo, ridicolo sproloquio accommiata
gli spettatori. Questo Manfurio non è, del resto, il solo pedante
immaginato dal Bruno: un altro se ne trova, come abbiam veduto,
nella _Cena de le ceneri_, e più altri nel _De la causa, principio et
uno_, nel _De l’infinito universo e mondi_, nella _Cabala del cavallo
pegaseo_.
Il personaggio del pedante, come quello del capitano, passando
d’una in altra commedia, si esagera sempre più, si fissa in certi
caratteri, tende, come il capitano appunto, come il dottore, come il
servo, a diventar maschera[332]. Cresce in pari tempo il numero delle
commedie in cui esso compare: Giambattista Guarini lo introduce nella
_Idropica_; Gerolamo Razzi nella _Gostanza_; Giambattista Della Porta
in quattro delle sue dodici commedie, e nelle loro lo introducono altri
parecchi. Poi un bel giorno il pedante passa dalla commedia erudita
nella commedia a soggetto; ma non vi prende quel luogo che parrebbe
vi dovesse prendere. Probabilmente gli nocque il carattere troppo
letterario, e la difficoltà che incontravano autori di poche lettere
a maneggiare la lingua pedantesca[333]. Flaminio Scala compose uno
scenario intitolato per l’appunto _Il Pedante_. Cataldo è un tristo
della peggior risma, il quale si caccia nelle famiglie, e con bei modi
e paroline accorte si fa passare per uomo integerrimo. Maestro del
figliuolo di Pantalone, s’invaghisce d’Isabella, moglie di costui, e
tenta di trarla alle sue voglie. Moglie e marito ordiscono una trama.
Cataldo è colto nella camera della donna e tratto in camicia sulla
scena. Tre servitori, vestiti da beccai, con gran coltellacci tra mani,
vengono per fargli un brutto scherzo; ma ad istanza di certo capitano
si muta il troppo crudo castigo in una solenne bastonatura. Da ultimo
egli è cacciato con gran vergogna, _come uomo infame e vituperoso ad
essempio de gli altri pedanti manigoldi e furfanti come lui_[334].
Come si vede, questo Cataldo ha qualche somiglianza con l’Ipocrito
dell’Aretino e col Tartufo del Molière.
Non solo per tutto il Cinquecento, ma nel Seicento ancora il pedante
rallegra di sua presenza le scene, cacciandosi, oltrechè nelle
commedie solite, in commedie allegoriche e in drammi musicali[335]. Lo
ritroviamo nella _Farza Cavajola della Scola_ del salernitano Vincenzo
Braca[336]; lo ritroviamo, il secolo scorso, nell’opera buffa _Socrate
immaginario_, in cui ebbe mano il Galiani[337]. Con le commedie e con
le compagnie comiche nostre, il pedante passò in Francia, e salì le
scene francesi; mi basterà ricordare a tale proposito il _Pédant joué_
di Cyrano de Bergerac e il _Mariage forcé_, il _Dépit amoureux_, il
_Bourgeois gentilhomme_, e le _Femmes savantes_ del Molière. Il _Dépit
amoureux_ altro non è che una imitazione dell’_Interesse_ del Secchi.
Anche la commedia di Giordano Bruno fu imitata in Francia e pubblicata
nel 1633 sotto il titolo di _Boniface et le pédant_.
Ma non finisce qui la dolorosa istoria del pedante. La poesia
fidenziana fa la parodia del linguaggio ch’ei parla; la novella narra
casi forse non veri; la commedia stessa lo deride assai più che non lo
vituperi; ma tutto ciò non basta; ci vuol anche l’invettiva diretta
e sanguinosa. Pasquino, che se la prendeva con tutti, non poteva non
prendersela ancor coi pedanti: una bella mattina egli mise fuori un
sonetto di mala fattura e di peggior sentimento, dove son questi versi:
Jate in malora, schiuma di furfanti,
Scaccia pagnotte, come un fegatiello,
Ch’a riempir questo vostro budello
Non bastarien le trippe di Elefanti.
Senza vergognia, senza discrezione,
Ch’è madre vostra (?), ne venete a Roma,
Credendo qua spacciar reputazione[338].
Ho già ricordato Francesco Ruspoli: nessuno mai deve avere avuto coi
pedanti _fojosi e sbraculati_ odio maggiore di lui. I parecchi sonetti
ch’egli scaraventa loro addosso, dove toccano lasciano il segno. In
uno li invita a un banchetto, in cui fa bella mostra, fra l’altro,
una _insalatina di rasoi_; in un altro li mette nelle mani di tutti
i diavoli dell’inferno; in un terzo invoca loro addosso _macine in
pezzi, frombole e mattoni_; in più altri tocca certi tasti di assai
cattivo suono, alludendo ai _bei garzoni_ che non sono sicuri nemmeno
_in sagrestia_, chiamando Sodoma _la gran madre de’ pedanti_; in
tutti scaglia loro sul viso le più grosse ingiurie che mai sieno state
scritte. Prendendone uno di mira più particolarmente, esclama:
L’orrenda bocca e le ganasce infami
Di quel pedante spalancate al sole
Spazzino gli assassin colle pistole
Per farvi alle murelle co’ tegami[339].
Era questo certo il modo più sbrigativo per correggerli di ogni vizio,
e, soprattutto, per farli tacere.
Ora i pedanti non figurano più nella commedia, nella novella, nella
poesia. Ciò non vuol già dire che non ci sieno; ma hanno alquanto
mutato pelo. La loro è razza vivace e di buon nerbo; finchè non le
manchi il pane non le mancherà la vita.


UNA CORTIGIANA FRA MILLE: VERONICA FRANCO


PARTE PRIMA

I.
La mattina del 18 di luglio, dell’anno 1574, Venezia era tutta in
fervore ed in giubilo: in quella mattina appunto l’antica _dominante_
adriatica doveva accogliere fra le sue mura ed ospitare il giovane
Enrico di Valois, duca d’Angiò, e da poco più di tre mesi re di
Polonia, il quale, abbandonata clandestinamente la sua buona città
di Cracovia, e piantati in asso i suoi fedelissimi sudditi, se ne
tornava a piccole giornate in Francia, per cingervi la maggiore corona
che Carlo IX, suo fratello, morendo a ventiquattro anni, gli aveva
inaspettatamente lasciata.
Le accoglienze e i festeggiamenti furono solenni e trionfali, degni
in tutto dell’ospite augusto, degni di quella magnifica Signoria,
degni della città più opulenta e fastosa che fosse allora in terra
di cristiani; di quella che, nonostante alcun segno di già cominciata
decadenza, nativi e forestieri s’accordavano a chiamare la regina dei
mari, la meraviglia del mondo.
Già più giorni innanzi, il Senato aveva mandato incontro al principe
fortunato, sino a Vienna, il segretario Bonriccio. Alla Pontebba,
cioè al confine, cominciarono le onoranze maggiori. Patrizii illustri
inchinarono il re al suo entrare nel territorio della Repubblica,
e gli diedero il benvenuto; il duca di Ferrara gli andò incontro
sino a Spilimbergo; e dovunque erano artiglierie, salve fragorose e
ripetute diedero segno di esultanza e fecero plauso al suo passaggio.
La sera del 17, un sabato, il re giunse a Murano, già celebre sin
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