Attraverso il Cinquecento - 06

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travisare le sue molte poltronerie. Sì certo; egli è avido, insolente,
servile, bugiardo, scostumato e svergognato; ma ha pure alcune qualità
buone da opporre a queste pessime; e poi il mancamento, considerato
in sè stesso, non dà la misura esatta della colpa. Noi abbiamo ora
un concetto della imputabilità assai diverso da quello che si ebbe
in passato, e non ci sembra di poter recare di un fatto e di un uomo
giusto giudizio, se non consideriamo infinite cose che sono intorno a
quel fatto e a quell’uomo, più o meno strettamente congiunte con essi;
e abbiamo ormai della legge universale di causalità un concetto così
prepotente che subito dal particolare vogliamo assorgere al generale.
Ciò premesso, non credo inutile nè inopportuno rivedere un poco il
processo di Pietro Aretino, e cercare se meriti conferma, o se voglia
essere in tutto o in parte riformato il comune giudizio che uno storico
tedesco chiuse e condensò in una frase unica, chiamando il gran reo il
Cesare Borgia della letteratura.
A tal fine bisogna che noi vediamo:
1º che c’è di vero in certi racconti che in un modo o in un altro
arrecano infamia all’Aretino;
2º qual è l’indole morale di lui, quali sono i caratteri e le ragioni
della sua tristizia;
3º qual è il carattere e il valore di lui come scrittore.

I.
Che intorno a Pietro Aretino s’è formata una specie di leggenda,
si vede subito, appena si confrontan fra loro i racconti varii
della sua vita e si notano le contraddizioni. E tutto favoriva,
a dir vero, la formazione di sì fatta leggenda: la fortuna grande
e quasi inesplicabile dell’uomo; il mal animo di chi procacciava
sfogo all’invidia denigrando e mentendo; il sacro orrore delle anime
timorate, che ingigantiva, come sempre suol fare, la perversità di lui,
e inconsciamente le conferiva quant’era mestieri perchè riuscisse piena
ed intera. Non si dimentichi che gli uomini, in ogni tempo, ebbero
bisogno, come di tipi di santità, così di tipi di scelleraggine.
L’Aretino stesso in parecchie sue lettere si lagna dei molti invidiosi
che dicevano di lui cose non vere, e gli attribuivano scritti a cui
non aveva tampoco pensato, e discorsi che non aveva neppure sognati; si
lagna più particolarmente di certi _cortigianuzzi_ che si dilettavano
di _soffiare nel fuoco_[123]. Alcuni di costoro erano forse in buona
fede; argomentavano da ciò ch’egli avrebbe potuto fare il fatto.
Così fu che gli si attribuì il troppo famoso opuscolo _De tribus
impostoribus_, attribuito a tant’altri, e così è che il Virgili vuole
ad ogni modo ch’egli abbia avuto parte nella composizione di certi
sciagurati libercoli di Lorenzo Veniero, sebbene questi ne rivendichi
a sè tutto il merito, e sebbene di quella partecipazione non siavi una
prova al mondo[124]. Appunto qui noi vediamo la leggenda porre in opera
uno dei suoi procedimenti speciali, che consiste in torre agli oscuri
per dare agli illustri, a chi viene sempre più campeggiando e prendendo
figura nella finzione. Gli è in virtù di tal procedimento che si sono
formati gli eroi leggendarii; e come a Carlo Magno fu dato vanto di
imprese che altri compierono prima o dopo di lui, così a Pietro Aretino
fu dato carico di libri che altri scrisse, non egli.
La leggenda aretinesca, come ogni altra leggenda, prende le mosse
dalla nascita dell’eroe, e lo seguita poi, un po’ interrottamente, a
dir vero, sino alla morte. Essa si prefigge, innanzi tutto, di dargli
vili, o anche sconci ed illegittimi natali, affinchè l’infamia sua
cominci col nascere, e appaja, in certo modo, originale e necessaria.
Anton Francesco Doni, nel _Terremoto_, per meglio giustificare la
identificazione ch’ei fa dell’Aretino con l’Anticristo, lo dice figlio
di un terziario e di una pinzochera; ma anche _vilissimo figliuolo d’un
ciabattino._ Niccolò Franco, in quegli obbrobriosi sonetti che gli
compose contro, ora chiama il padre di lui contadino, ora calzolajo.
L’autore di quella sconcia _Vita_ che andò già sotto nome del Berni, e
non si sa propriamente di chi sia, parla di un padre villano e di una
madre schiavona e baldracca. E sulla fede di un così fatto narratore
infiniti ripeterono che Pietro Aretino nacque di una Taide di bassa
lega. Quanto al padre ci fu chi mise fuori un’altra favola, meno
ingiuriosa se vuolsi, ma non meno falsa. Il buon Mazzuchelli[125] si
affatica a dimostrare che l’Aretino fu figliuolo naturale di Luigi
Bacci, cavaliere d’Arezzo; e prima di lui aveva affermato il medesimo
quel dabben uomo, per non dirgli altro, del Crescimbeni, che a sua
volta aveva trovata la bella notizia nelle _Glorie letterarie di
Valdichiana, opera inedita di Jacopo Maria Cenni, rimasa in Napoli,
ove l’autore morì_[126]. E subito questo padre fu accettato per buono
e per autentico da quegli stessi infiniti che dalle mani dell’anonimo
libellista avevano accettata la madre. Ora è da notare che il signor
Jacopo Maria Cenni morì circa un secolo e mezzo dopo l’Aretino, e
che l’anonimo libellista, il Doni, il Franco, i quali tutti conobbero
l’Aretino di persona, del cavaliere Luigi Bacci non dicono verbo, e
non ne dice verbo nemmeno un Medoro Nucci, che fu tra i nemici più
pericolosi dell’Aretino, e che per essere appunto di Arezzo era in
grado di saper certe cose, e non si sarebbe fatto riguardo di dirle.
Anche costui fa l’Aretino figliuolo di un calzolajo.
Alessandro Luzio, in un buon lavoro pubblicato non ha molto[127],
sbugiardò tutta questa leggenda dei natali dell’Aretino, e sceverò
la verità dalle calunnie e dalle favole. Il padre dell’Aretino fu un
povero calzolajo per nome Luca; la madre una buona e bella popolana
chiamata Tita. Costei, non solo non fu quella svergognata che si
volle far credere; ma fu anzi una donna di ottima indole e di onesti
costumi, teneramente amata dal figlio, e da lui sempre ricordata con
ammirazione ed orgoglio. S’ella fosse stata una prostituta, l’Aretino
si sarebbe ben guardato dal parlarne altrui, e non avrebbe chiesto con
tanta insistenza, quanta certe lettere dimostrano, copia del ritratto
di lei al Vasari; nè il Vasari stesso avrebbe ardito di prenderla a
modello per l’immagine della Vergine Annunziata da lui dipinta sopra
la porta della chiesa di San Pietro in Arezzo; nè i cittadini d’Arezzo
avrebbero certo comportato un tal vituperio. Quanto al padre, l’Aretino
lascia scorgere, è vero, di vergognarsene; ma questo suo vergognarsene
prova appunto che gli era figliuolo, e toglie ogni probabilità a quella
storiella di Luigi Bacci. Se l’Aretino avesse saputo d’esser figlio
di costui, o se avesse saputo che tale era reputato da alcuni, non
avrebbe mancato di diffondere e di confermare quella opinione, da cui
poteva venirgli più onore che biasimo. Giacchè egli, che pure amando
svisceratamente le sue figliuole, non si curò mai di legittimarle,
adducendo a scusa che le aveva in modo legittimate con l’animo da non
richiedersi altra cerimonia, viveva in un secolo poco soggetto agli
scrupoli. E come avrebbe egli potuto vergognarsi di essere bastardo,
vedendo tutto giorno principi e papi con le masnade dei bastardi
intorno, e bastardi salire ai supremi onori e sedere in trono? Certo
egli si sarebbe trovato in assai numerosa compagnia, e avrebbe potuto
con miglior animo e più sicurezza esprimere quel giudizio a lui caro,
che difficilmente e di rado opera cose degne nel mondo chi è di origine
abietta.
Ma se nulla di vero c’è nella leggenda dei genitori dell’Aretino,
vediamo se alcun che di vero ci sia, o almen di probabile, in quanto
si narrò di altre persone della sua famiglia. Pietro non fu il solo
figlio di Luca e di Tita; egli ebbe alcune sorelle, almeno due; di
fratelli non è ricordo. Ora, verso queste sorelle, la leggenda non
fu nè più riguardosa, nè più giusta di quello fosse verso la madre.
Francesco Berni, in un sonetto notissimo, e che più altre volte dovrò
ricordare, fa menzione di due sorelle che l’Aretino aveva, secondo
lui, _a grand’onore_, nel lupanare della sua città natale. Il Franco,
in varii de’ suoi sonetti, parla, quando di una sorella, quando di
due, esercitanti il vituperoso mestiere. Che poi molt’altri abbiano
ripetuto quelle accuse senza punto curarsi di accertarne la verità, è
quasi soverchio avvertire. E sì che non è poi tanto difficile avvedersi
della loro falsità. Un primo dubbio già avrebbe dovuto far nascere il
fatto della nobiltà e del gonfalonierato conferiti a Pietro da’ suoi
concittadini. Per quanto que’ d’Arezzo potessero essere di manica
larga, è difficile pensare che volessero, coprendo sè di ridicolo
e di vergogna, fare quella dimostrazione ad un uomo le cui sorelle
erano state in Arezzo stessa, e forse erano tuttavia, inquiline di
postribolo. Ma il vero si è che le due sorelle dell’Aretino, delle
quali è memoria, furono entrambe maritate, l’una con un messer
Scipione, l’altra con Orazio Vanotti, soldato, e lasciarono, morendo
entrambe innanzi all’Aretino, quella due figliuole, questa due maschi
gemelli. Della prima l’Aretino ricorda come ardentemente desiderasse di
collocare una delle figliuole nel nobile monastero di Santa Caterina
in Arezzo, e com’egli si adoperasse per farcela entrare. L’altra morì
assai giovane, di puerperio, nel 1542, ed è quella stessa che, essendo
ancora zitella, nel 1536 fu inchinata dal duca Alessandro de’ Medici,
di passaggio per Arezzo, come gloriando ricorda pur l’Aretino in una
lettera di quell’anno medesimo scritta a esso duca[128]. Certo, non
mancano nemmeno in quel secolo esempii di prostitute che attendono al
mestiere pur essendo maritate; ma questi esempii occorrono di solito
fra le cortigiane propriamente dette, che vivono libere, non fra
le meretrici di bassa mano raccolte nei lupanari. Ora, nel 1536, la
seconda sorella di Pietro era ancora in casa, come si ha dalla lettera
suddetta, e certamente non faceva la prostituta. Come credere, in
fatti, che Alessandro de’ Medici, per poco schizzinoso che fosse in
materia di onestà e di decoro, volesse ossequiare pubblicamente una
sgualdrina? E come credere, d’altra parte, che le nobili religiose di
Santa Caterina volessero accogliere nel loro monastero la figliuola
di una donna, non solo di bassa condizione, ma infame? Tutte le prove
dunque del meretricio di quelle due sorelle consistono in alcuni versi
del Berni e del Franco, entrambi nemici acerrimi dell’Aretino, e l’un
di essi, il secondo, a causa della velenosa sua lingua, impiccato per
la gola. Confessiamo che in qualsivoglia giudizio le affermazioni di
testi così sospetti non sarebbero accolte se non con grande riserbo,
e che diedero saggio di molta leggerezza, per non dir peggio, coloro
che senza più le gabellarono per veridiche e per sicure. Aggiungiamo
che essi mostrano di conoscere assai poco e assai male l’Aretino, se
credono che un uomo come lui, così abile a trar vantaggio di tutto,
a riunire e coordinare tutti gli elementi del successo, potesse
commettere il grossolano, l’incredibile sproposito, di lasciare le
sorelle sue in una condizione da cui a lui stesso non poteva ridondare
che discredito e infamia. Questo sproposito l’Aretino non lo commise.
Noi lo vediamo adoperarsi con ogni impegno, ricorrere a tutte l’arti
ond’era maestro, per mettere insieme un po’ di dote alla sua sorella
più giovane: qualora egli non avesse ciò fatto per semplice ragione
d’amor fraterno, certo l’avrebbe fatto per accorgimento d’uomo che ha
una condizione e una riputazione da conservare.
Che cosa rimane dunque di tutta questa leggenda obbrobriosa che nemici
arrabbiati e libellisti senza nome fabbricarono intorno alla nascita e
alla famiglia di Pietro Aretino? Nulla di nulla, o solo una prova della
malignità o dell’errore loro. Vediamo se si possa prestar più fede ad
altri racconti che tutti, quali in un modo, quali in un altro, tendono
sempre a quel medesimo fine di screditare, di svergognare l’Aretino.
Io non affermo già che alcune delle cose che vi si narrano non possano
anche esser vere; ma dico che in generale quei racconti sono, o per una
o per un’altra ragione, tali da destare grave sospetto, e da non poter
essere ricevuti per veri finchè non sieno suffragati da più sicure
prove. Un tribunale non li accoglierebbe che a titolo di semplice
informazione.
Si dice che l’Aretino, quasi fanciullo ancora, dovette fuggirsene
dalla patria per certo sonetto da lui composto contro le indulgenze.
Ciò dovrebbe provare come, sino dai più teneri anni, fosse stata in
lui quell’indole maligna e insolente di cui s’ebbero poscia a vedere
gli effetti. Ma chi è che lo dice? Gerolamo Muzio, suo nemico mortale.
E quando lo dice? Quando importa far credere al mondo che l’Aretino,
oltre ad essere una sentina di vizii, è anche un miscredente o un
eretico. La stessa intenzione appare in un’altra storiella, ove è
detto, che avendo l’Aretino, in Perugia, veduta nella pubblica piazza
una pittura che rappresentava Maria Maddalena a’ piè di Cristo, con
le braccia aperte, andatovi di nascosto, dipinse tra quelle braccia un
liuto. Ma tale storiella non ha più antico narratore di Carlo Caporali,
che visse un secolo dopo l’Aretino, e non dice d’onde l’abbia tratta.
Entrambi i racconti sono poi in contraddizione diretta coi modi che
l’Aretino serbò tutto il tempo di vita sua in materia di religione.
Uno dei fatti più spesso ricordati e più universalmente tenuti per
veri, è che l’Aretino fosse alcun tempo legatore di libri in Perugia, e
ogni suo sapere acquistasse in quell’esercizio, con occasione di vedere
e leggicchiare le carte che andava cucendo. Ma ciò si trova affermato
la prima volta in una nota al già citato sonetto del Berni, nella
stampa vicentina del 1609: e con quale scopo si trova affermato? Con
quello evidentemente di dare alla coltura dell’Aretino, qual ch’ella si
fosse, una origine in tutto umile e fortuita, e d’ispirarne altrui un
assai povero concetto.
Andiamo innanzi.
Nel libello anonimo già ricordato si narra che l’Aretino dovette
lasciare la casa di Agostino Chigi, il ricchissimo e munificentissimo
banchiere senese, per avervi rubato una tazza d’argento. Ora, nè
il Berni, nè il Franco, nè il Doni, nè altri sanno nulla di questa
tazza; chè se qualche cosa ne avessero saputo, non avrebbero mancato
di aggiungere ai molti titoli vituperosi che gli dànno anche quello
di ladro. Del resto, questo del rubare non era vizio che potesse
facilmente accordarsi con certe qualità, buone o cattive che fossero,
dell’Aretino, il quale fu egli sì molte volte rubato e da chi più
godeva della sua fiducia. Inoltre egli non lascia occasione di levare
a cielo il Chigi, ricordandone la umanità e la larghezza, il che non
avrebbe certamente fatto, anzi avrebbe in tutto taciuto di lui, se ne
fosse stato cacciato di casa per ladro.
E molt’altre cose si narrano in quella _Vita_: che, sendo d’anni
diciotto circa, si fe’ cerretano, e andossene in Lombardia, e cantò in
banca a Vicenza, avendo compagno in tal mestiere un certo Calcagno;
che poi s’acconciò per garzone con un oste in Bologna; che stanco di
fare il garzone, si rese frate in un convento di Ravenna; che toltosi
anche di là, si mise per mezzano, per pazzo e per buffone con Leone X,
ed ebbe compagni altri mezzani, altri pazzi e buffoni, e alcuna volta
si adoperò a voltar lo spiedo in cucina; che si acconciò, dopo, per
istaffiere con Giovanni de’ Medici, il gran capitano; che morto costui,
se ne tornò a Roma, e servì Clemente _di quello che prima aveva servito
Leone_; che dopo il famoso sacco, e dopo un certo scherzo che ebbe a
patire dagli Spagnuoli, se ne andò, truffato un Ferrarese, a Venezia,
ecc. ecc. L’anonimo autore dice aver udito narrar tali cose, parte a
Niccolò Franco, e parte al Marcolini, il famoso stampatore, compare
dell’Aretino; ma quanto al Franco mente di certo, perchè costui, se le
avesse sapute, non avrebbe mancato di metterne qualcuna in quei suoi
sonetti, che pur sono più centinaja. Aggiungasi che nè il Berni, nè il
Doni ne fanno ricordo.
Molte altre cose racconta l’autor della _Vita_, alcune delle quali
di tanta turpitudine che non si possono nemmeno accennare, e tali che
appena avrebbe potuto risaperle chi sempre fosse stato alle calcagna di
Pietro e avesse fatto vita con lui; altre di tal qualità che mostrano
l’indole bugiarda di tutto il racconto. Così egli dice che la madre di
lui, la notte innanzi al parto, sognò un otre di vino; che compiuti
appena i cinque anni, il fanciullo si mise a studiare la Maccaronea
di Merlin Coccajo, nel qual caso questi avrebbe dovuto egli stesso
comporla in età di cinque o sei anni; che essendogli stati posti
dinanzi Virgilio e il Petrarca da un canto e la _Regina Ancroja_ e gli
Amori di Luciano dall’altro, egli tolse questi e lasciò quelli; che
fatto altro simile esperimento con rame, argento ed oro, egli acchiappò
l’oro alla bella prima. Poi gli attribuisce certi strani componimenti,
e fra gli altri alcune pappolate e cantafere che lo stesso Aretino,
nella commedia _La Cortegiana_, fa gridare da un _furfante che vende
istorie_, e cioè; _la guerra del Turco in Ungheria, le prediche di
Fra Martino, il Concilio, la cosa d’Inghilterra, la pompa del Papa
e dell’Imperadore, la circumcisione del Vaivoda, il sacco di Roma,
l’assedio di Fiorenza, lo abboccamento di Marsilia_[129]; e poi ancora
l’istoria del becco all’oca, che si ha inserita nel _Mambriano_ del
Cieco da Ferrara, e la novella di Biancofiore, _rubata_ al Boccaccio.
Per mostrare del resto quanto l’autore si curasse di esser veridico,
basta avvertire ch’egli fa dire al Berni la vita dell’Aretino potersi
facilmente comprendere in quella commedia, e al Mauro, l’altro
interlocutore del dialogo, che l’Aretino _sarà stato_ tutto quello che
in detta commedia dice di sè stesso il Rosso ad Alvigia: frate, garzone
di oste, giudeo, alla gabella, mulattiere, compagno del bargello, in
galera, mugnajo, corriere, mezzano, cerretano, furfante, famiglio degli
scolari, servitor dei cortigiani, il diavol e peggio. La storia di
Lazarillo di Tormes!
Sarebbe fatica sprecata voler mostrare la poca consistenza e la minore
credibilità di tutto il racconto dell’anonimo diffamatore; ma non
sarà fuor di luogo far vedere con un pajo di esempii come egli alteri
i fatti e mentisca. Primo esempio: egli dice che l’Aretino servì
Clemente _di quello che prima avea servito Leone_, cioè di mezzano,
di buffone e di pazzo, lasciando intendere con ciò che assai vile era
la condizione sua in corte del pontefice. Ora, certe lettere scritte
dal duca di Mantova all’Aretino, e dall’agente di Mantova in Roma
a esso duca, lettere uscite dall’Archivio Gonzaga, e su cui non può
cader dubbio di alterazione[130], provano che l’Aretino in corte del
pontefice godeva di molta considerazione, e molto poteva sull’animo del
pontefice stesso. Secondo esempio, che serve anche contro il Doni. Dice
l’autor della _Vita_: «Scrisse al Duca di Ferrara il poeta chiedendo
denari: non volse Ercole che un furfante si vantasse che un Signore si
degnasse di lui: ebbe a male il poeta e scrisse del Duca. Ercole il
seppe e tenne uomini per ammazzarlo a Venezia. Non successe tal cosa
perchè egli stava serrato in casa, parte per questo, parte per debiti».
«Onde deriva che il Duca di Ferrara vive con tanta quiete? Perchè non
vi dona», dice messer Antonfrancesco nel _Terremoto_, e afferma inoltre
che il Duca lo fece sacchettare di santa ragione. Ma mente egli e mente
l’anonimo, e della menzogna d’entrambi ci sono le prove autentiche
e chiare. A più riprese il Duca fece all’Aretino regali; e troviamo
ricordo di una veste di raso nero assai pomposa, di un anello con un
diamante, di cinquanta scudi d’oro, di altri cento scudi d’oro, di una
coppa d’argento dorato, di due altre vesti assai ricche; nè gli donò
solamente, ma gli si fece ancora raccomandare dal proprio segretario
Bonleo, il quale scriveva al Divino di non porgere orecchio a chi gli
dicesse male del Duca[131].
Tralascio altre accuse, o di minor rilievo, o in tutto generiche, e
vengo a quanto fu narrato, creduto, ripetuto e ammesso universalmente
per certissima verità circa la morte dell’Aretino. Questa storia è
nota a tutti. Un giorno, l’Aretino, udendo narrare non so che fatti
di quelle sue sorelle meretrici, preso da un irrefrenabile impeto di
riso, e arrovesciatosi, per ridere più spappolatamente, sulla scranna
che lo reggeva, cadde allo indietro, e percosso il capo in terra,
rimase morto sul colpo. La fine parve degna dei principii e di tutta
intera la vita dell’uomo nefando, incontrò il gusto del pubblico,
ebbe conferma dai moralisti, fu rinarrata in novella e rappresentata
in pittura. Ma chi è il primo che parli di sì fatta morte? Un Antonio
Lorenzini, fiorito sul principio del secolo decimosettimo. Si vede
subito di quali elementi, in virtù di quali suggestioni la leggenda
siasi formata. Bisognava che l’ultimo atto dell’Aretino sulla scena del
mondo confermasse quella vita tutta di turpitudini, anzi, in certo modo
la epilogasse e concludesse come nell’ultima pagina si epiloga e si
conclude un libro. E certo non si poteva immaginare favola che meglio
mostrasse in breve la infamia della famiglia dell’Aretino, il cinismo
di lui, e la giustizia e congruenza della punizione. A taluno parve
che l’Aretino non si dovesse lasciar morire a quel modo, senza fargli
dire qualche cosa che provasse l’empietà di lui, come il fatto provava
la svergognatezza; e così alla favola principale si attaccò un po’ di
coda, e si disse che lo scelleratissimo uomo non morì subito subito, e
che ricevuta la estrema unzione, profferì un’ultima bestemmia, dicendo:
Guardatemi da’ topi or che son unto.
La leggenda, dico, era formata ingegnosamente e tale da ottenere
universale credenza, tanto più che in essa c’era, come vedremo, una
parte di vero: ciò nondimeno non potè fare che altre leggende non
nascessero. Qualcuno ci fu che lo volle morto di apoplessia[132], forse
come morte conveniente a una vita di stravizii; ma altri pure ci fu che
non si contentò nè di una morte naturale, nè di una morte violenta, ma
fortuita. Non meritava l’Aretino di morire impiccato? ebbene, egli morì
impiccato. Così almeno racconta in un suo sermone latino Michele de
l’Hôpital, il famoso cancelliere di Francia[133]. Non dimentichiamo che
tal morte era stata, in certo modo, profetizzata dal Berni all’Aretino
e che le profezie fanno venire altrui la voglia di vederle avverate. Il
Berni ebbe anche a toccare di certo squartamento che sarebbe seguito
alla impiccagione; ma l’autor della favola, non s’intende perchè, non
volle profittarne. Doveva essere persona discreta.
Ora si sa come morì l’Aretino, e tutte le leggende si dileguano
dinanzi al documento irrefragabile che porge di quella morte autentico
e preciso ragguaglio. È questo un certificato di Pietro Paolo
Demetrio, parroco di S. Luca in Venezia, il quale attesta d’aver
sepolto cristianamente l’Aretino in quella chiesa, e dice che questi
morì di morte subitanea, cadendo da una sedia a bracciuoli, e che
il giovedì santo, _avanti che finisse gli ultimi suoi giorni_, si
confessò e comunicò, _piangendo lui estremamente_, come, dice il buon
prete, _vidi io stesso_[134]. Tale dichiarazione fu fatta dal parroco
venticinque anni dopo la morte di Pietro, nel 1581, e a richiesta di
un Domenico Nardi da Reggio, il quale probabilmente l’avrà domandata
per imporre con essa silenzio alle vituperose dicerie. Giova notare che
il certificato fu fatto con intervento di notajo e che non gli manca
nemmeno la convalidazione ducale. Ciò che in esso si dice della caduta
da una sedia, raccostato a quanto l’Aretino racconta in certo luogo di
sè stesso, dicendo che era suo costume di arrovesciarsi indietro ogni
qualvolta rideva di gusto, mostra come possa esser nata la leggenda
principale circa il modo della sua morte. La fantasia supplì le sorelle
meretrici, prendendole dal sonetto del Berni e da quelli del Franco.
La leggenda dell’Aretino, bugiarda per quanto spetta alla nascita,
bugiarda per quanto spetta alla morte, è senza alcun dubbio bugiarda
per molta altra parte. Questa leggenda, del resto, noi non la
conosciamo nemmeno intera. Essa ci apparirebbe di certo assai più
estesa, se, come giunsero sino a noi le accuse e le imputazioni del
Franco, del Doni, dell’anonimo biografo, così ancora ci fossero giunte
quelle di altri nemici e detrattori suoi, per esempio di quel Colvi,
che anch’egli andava spargendo vituperii dell’Aretino.
Io non dico già che l’Aretino non possa aver fatto, soprattutto in
certi anni più oscuri della sua vita, alcune di quelle cose onde fu
accusato, o alcune, almeno, simili a quelle; ma dico che non ci son
prove per credere ch’ei le abbia fatte veramente. E aggiungo che gli
accusatori suoi, taluno non abbastanza noto, altri troppo noti, altri
necessariamente poco o male informati, non meritan fede nè molta nè
poca. Chi voglia fare un processo all’Aretino non deve in tal caso
tener conto delle testimonianze altrui, ma solo delle confessioni sue
proprie, di ciò ch’egli stesso lascia vedere e indovinare di sè.

II.
Veniamo alla seconda parte del giudizio.
Certe accuse fatte all’Aretino sono calunniose e false; altre non è
dimostrato che sieno vere. Non è provato, e non è nemmeno probabile,
ch’egli abbia rubato, o truffato, o commesso altre di quelle
gagliofferie grosse per cui allora, assai più facilmente di ora, si
finiva in un fondo di prigione, o si dava a dirittura nel capestro.
Ma che per ciò? Egli rimane pur sempre un uomo scellerato e vile,
una natura profondamente corrotta, uno di quei mostri che disonorano
l’umanità senza però capitar mai sotto al rigor delle leggi. Egli
non sarà un delinquente, se si vuole, ma è certo un turpe ribaldo. Ed
ecco altre accuse ed altre invettive. Udite i testimoni che rosarii
recitano. L’Aretino è un furfante, un ignorante, un arrogante, un boja,
un prosuntuoso, un porco, un traditore, un mostro infame, un idolo del
vituperio, dice il Berni. L’Aretino è un goffo, un bajante, un ribaldo,
un ciurmatore, una puttana, un somaro da legnate, una sentina di vizii,
dice il Franco. L’Aretino è un poltrone, un bestione, un mariuolo, una
carogna, il vitupero degli uomini, la schiuma di tutti i furfanti, il
colosso dei goffi, il tagliaborse dei principi, la guida degli asini,
il Sardanapalo della gagliofferia, dice il Doni. Sta bene; ma questi
sono i testimoni dell’accusa: udiamo un poco anche i testimoni della
difesa. Ecco ben altro linguaggio: l’Aretino è divino, divinissimo,
non men divino che immortale, umanissimo, eccellentissimo, magnifico,
onorando, virtuosissimo, unico, figliuolo della verità, discepolo
e miracolo della natura, salute del mondo, gloria del cielo, dicono
principi, cardinali, letterati, donne colte e gentili, frati e soldati.
Se voi fate il conto, trovate che per un testimone che dice male, ce ne
son dieci che dicono bene.
E poi, questi testimoni che dicon male bisogna vederli un po’ più da
vicino. Chi sono essi? Prendiamo quei tre che ci sono già comparsi
dinanzi, e non ci curiamo d’altri. Il Berni, in complesso, è un
brav’uomo, sebbene abbia anch’egli in dosso qualche taccherella, di
cui, se si volesse parlare, bisognerebbe parlare a porte chiuse; ma
gli altri due sono due lanzichenecchi della penna, due stradiotti
della letteratura, niente più onesti dell’Aretino, ma molto meno
accorti di lui. Costoro gli erano stati un tempo in casa, e avevano
mangiato del suo pane, e s’erano rimpannucciati a sue spese, e finchè
durò l’amicizia lo levarono ai sette cieli; rotta poi l’amicizia, per
ragioni che qui non accade ricordare, ne fecero, secondo la usanza
non mai dismessa dei poltroni, il governo che s’è veduto. Il Berni
scaraventava contro l’Aretino quel suo sonetto per far le vendette
del datario Giberti, suo padrone, il quale non è poi dimostrato che
non avesse qualche torto con l’Aretino; ma gli altri due composero le
loro sconce invettive a solo sfogo di animo invelenito, chè non erano
nè l’uno nè l’altro uomini da levarsi a campioni disinteressati della
offesa moralità e della virtù conculcata. Costoro chiamavano l’Aretino
un furfante e avrebbero data l’anima per potersi trovar ne’ suoi panni.
Altri infiniti ebbero, come abbiam veduto, dell’Aretino, tutt’altra
opinione. Che vuol dir ciò? Vuol dire che alla generalità degli uomini
del suo tempo l’Aretino non parve quel tristo di tre cotte che pare
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